La riforma tributaria di Torino e di un protezionismo daziario municipale
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 18/01/1910
La riforma tributaria di Torino e di un protezionismo daziario municipale
«Corriere della sera», 18 gennaio[i] e 24 gennaio[ii] 1910
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.IlI, Einaudi, Torino, 1960, pp. 9-14.
1.
La questione finanziaria si impone nelle grandi città: a Milano, a Genova la si discute animatamente, e Torino non ha potuto rimandare neppure essa la discussione, ad un anno di distanza circa dal voto che poneva fine alle proposte di allargamento della cinta daziaria. I lettori ricorderanno come l’amministrazione Frola, dinanzi al crescere delle spese ordinarie e degli interessi per i debiti ultimamente contratti, avesse posto come caposaldo dell’equilibrio del bilancio l’allargamento della cinta daziaria al suburbio, in modo da perequare le condizioni degli abitanti fuori cinta a quelle degli entro cinta; i quali oggi pagano un ammontare di dazio da nove a dieci volte superiore al dazio pagato dai primi. È noto, come per la opposizione dei socialisti e degli esercenti, l’allargamento della cinta, malgrado il voto favorevole della maggioranza dei presenti, non abbia potuto esser condotto in porto. Vennero le elezioni generali e con esse il trionfo del partito liberale. Nessun trionfo elettorale però basta a far zampillare dall’arida terra nuove e fresche sorgive di redditi tributari; cosicché oggi l’amministrazione Rossi, dopo aver compiuto il preventivo del fabbisogno e delle entrate per gli anni prossimi, si trova costretta a bussare a denari. È un discorso ingrato, che fa sorgere recriminazioni, proteste e anche qualche tentativo di ostruzionismo dal piccolo manipolo dei sedici radico socialisti.
A dirla in breve, il discorso è il seguente. Dal 1910 al 1915, pure restringendo ad un supposto minimo le esigenze imposte dal progresso incessante di una grande città moderna, il fabbisogno per opere straordinarie si assomma in 34 milioni di lire, così distribuite: Nuovo arsenale militare e permute relative 12.500.000 lire; fognatura lire 2.500.000; nuovo contributo alla questione ospitaliera lire 1 milione; risanamento dei quartieri centrali lire 3 milioni; piano regolatore edilizio lire 3 milioni; nuovi edifici scolastici lire 5 milioni; diverse lire 7 milioni. I milioni, si sa, nei bilanci dei comuni moderni, ballano una ridda fantastica e bisogna oramai abituarsi alle cifre grosse. Come far fronte a questo fabbisogno di 34 milioni in sei anni? Con alienazioni di patrimonio per 10 milioni anzitutto, risponde la giunta; e la risposta sembra ragionevole, poiché il municipio di Torino è venuto negli ultimi anni, per via di permute, che diconsi fortunate, in possesso di un ingente demanio edilizio, che sarebbe antieconomico lasciare troppo a lungo inutilizzato. Che in parte sia conveniente alienarlo a poco a poco, in guisa da valorizzarlo al massimo, non è in via di massima contestabile. Per altri 10 milioni e mezzo di lire si faran dei debiti, dice ancora la giunta. E su questo punto non è sorta quasi alcuna opposizione, perché i contribuenti trovano sempre assai comodo di compiere l’opera pubblica, quando può averla col solo carico degli interessi sul capitale preso a mutuo. La giunta può addurre a sua giustificazione la circostanza che i debiti non si fanno per spese di consumo, ma per impieghi immobiliari, come l’acquisto dell’arsenale, la fognatura, gli edifici scolastici, il piano regolatore, il risanamento dei quartieri centrali. Magra giustificazione addotta, oltreché a Torino, da quasi tutti i municipi, per spiegare la corsa al debito. In parte agli acquisti di nuovi immobili corrisponde già l’alienazione di immobili vecchi (per 10 milioni di lire) e per il resto, come la costruzione di nuovi edifici scolastici e il piano regolatore, si tratta di spese che si possono chiamare straordinarie solo con figura retorica, essendo invece spese che ricorrono ogni anno e continueranno a ripetersi almeno fino al giorno in cui continuerà ad aumentare la popolazione della città. Far debiti per spese ricorrenti è pericoloso, specie ove avesse ad arrestarsi il progresso della città e con esso dovessero inaridirsi le fonti tributarie necessarie al servizio del debito.
Poiché con 10 milioni di lire di alienazioni di patrimonio e con 10.500.000 lire di mutui si arriva appena a 20.500.000 ed il fabbisogno cosidetto straordinario e di milioni di lire, al resto si spera di provvedere con disponibilità di bilancio. Le quali sono calcolate in lire 2.500.000 l’anno per i tre anni dal 1910 al 1912 e in lire 2 milioni l’anno per i tre anni dal 1913 al 1915. Avere disponibilità di bilancio significa avere un uguale supero di entrate ordinarie (compresi gli avanzi di cassa degli anni precedenti) sulle spese ordinarie. La disponibilità si ebbe a mala pena negli ultimi anni per circostanze eccezionalmente favorevoli; né sarebbe possibile senza adeguati provvedimenti, averla negli anni futuri se si pensa al crescere continuo delle spese pubbliche, fra cui e notabile l’incremento dovuto agli organici da lunga data promessi agli impiegati municipali. Da sola la maggior spesa presunta per i nuovi organici si calcola in lire 486.687 l’anno; onde si presenta il dilemma: o nuove imposte od di attuare contemporaneamente il nuovo organico e il programma dei 3 milioni di lire di opere straordinarie. Come è stato posto dalla giunta Rossi, il problema è semplice. Occorre ogni anno una disponibilità di bilancio di 2, 2 e mezzo milioni di lire per compiere il programma sessennale delle opere straordinarie. Questa disponibilità a stento la si ha oggi; ma non la si avrà più appena saranno approvate le nuove spese ordinarie, fra cui il mezzo milione di lire per gli impiegati. Quindi se si vogliono aumentare gli stipendi agli impiegati e non si vuole nel tempo stesso diminuire la disponibilità di bilancio per le opere straordinarie, occorre un aumento di imposte per circa mezzo milione di lire all’anno.
Il mezzo milione lo si ricaverebbe per 50.000 lire da un dazio di lire 10 per ogni ettolitro e di 10 centesimi per ogni bottiglia di acque minerali, per 50.000 lire (per il solo secondo semestre 1910) da un dazio di lire 40 per capo sugli equini mantenuti nel territorio fuori cinta, che ora sfuggono al dazio sui foraggi e per 450.000 lire da un rimaneggiamento dei dazi sui materiali da costruzione. Il primo dazio non ha incontrato opposizione, perché ricade sulle persone agiate e lusinga i viticultori, combattendo i surrogati del vino. Il dazio sugli equini nel forese pare sia stato altresì accolto con favore, come quello che si propone di togliere il favore di cui godono i proprietari che, per sfuggire al dazio sui foraggi, tengono i loro animali fuori cinta.
Opposizioni vivissime ha incontrato invece il terzo proposito della giunta torinese: il rimaneggiamento del dazio sui materiali da costruzione. In sostanza la giunta vorrebbe sostituire all’attuale metodo di percepire il dazio sui materiali da costruzione all’atto della introduzione in città la percezione a misura sugli edifici già costruiti. Il sistema è già in uso in parecchie grandi città italiane, tra cui Milano, ed avrebbe il grande vantaggio di perequare le condizioni del suburbio, che oggi nulla paga, a quelle dell’entro cinta. Chi ricorda come io sia stato convinto partigiano dell’allargamento della cinta daziaria a scopo di giustizia e di perequazione tributaria, troverà logico il consenso alla assai più modesta riforma, che si propone d’attuare, almeno parzialmente, il medesimo lodevole principio. La battaglia che oggi si conduce contro il nuovo metodo proposto per esigere il dazio sui materiali da costruzione, più che su questioni di principio, si fonda su argomenti secondari:
1) Si dice innanzi tutto che la proposta è illegale perché l’articolo 15 del testo unico di legge sui dazi interni di consumo vieta ai comuni di aumentare i dazi o di imporne dei nuovi su molti generi, tra cui appunto i foraggi ed i materiali da costruzione, a meno che essi procedano contemporaneamente a sgravi su altri consumi. Poiché la giunta spera di ricavare col nuovo metodo 450.000 lire di più, e non vuole concedere alcuno sgravio, si tratta manifestamente di un aumento di dazio ed anzi, per il fuoricinta, di un dazio affatto nuovo, che sarebbe perciò illegale. In virtù di un articolo 7 del regolamento generale sui dazi di consumo del 17 giugno 1909, i comuni, i quali hanno abolito il dazio sui farinacei, hanno tuttavia la facoltà di imporre un dazio sui materiali impiegati nella costruzione di edifici nuovi o in notevoli rifacimenti di edifici già esistenti mediante liquidazione da farsi, a fabbrica o lavoro ultimato, in base alle quantità accertate con computo metrico. È appunto il metodo che vorrebbesi adottare a Torino e che sarebbe consentito perciò alla nostra città, la quale ha a suo tempo abolito i dazi sui farinacei. Perché il nuovo metodo fosse illegale, sarebbe d’uopo dimostrare la incostituzionalità del regolamento daziario del 17 giugno 1909.
2) Non più forte è un argomento messo innanzi da taluni interessati nell’industria dei lavori in legno per costruzioni. Il dazio attuale, riscosso all’entrata nella cinta, concede ai fabbricanti entro cinta, che importano il legname greggio e lo lavorano, una protezione contro i fabbricanti del suburbio e delle altre città, che importano serramenta per porte e finestre, palchetti in legno ecc., già lavorati. È chiaro che, essendo il dazio per l’avvenire riscosso sui lavori in legno già posti in opera, esso colpirà egualmente tanto il fabbricante torinese quanto il suburbano o l’importatore da altre città, togliendo ogni protezione al fabbricante entro cinta. Circolò di questi giorni una protesta con la quale gli industriali si lamentavano della concorrenza che in futuro sarebbe loro stata mossa dagli industriali stranieri … voglio dire suburbani, piemontesi, milanesi, liguri, ecc. Il nuovo metodo deve lodarsi grandemente appunto per aver spazzato via gli avanzi di un protezionismo che arma gli industriali di una città contro gli industriali del suburbio o delle città vicine e crea tanti mercati chiusi quante le città murate d’Italia.
3) Veniamo da ultimo all’argomento principe degli oppositori del nuovo metodo di tassazione per i materiali da costruzione. Non tedierò con molte cifre e troppo complicate disquisizioni tecniche di computi daziari per metro cubo ed a peso. Basti il dire che il dazio attuale, a detta degli oppositori, può calcolarsi in 20 centesimi circa per metro cubo di muratura; e rende per il solo entro cinta 420.000 lire. La giunta vuole portarlo ad 80 centesimi; talché, se si riflette al numero probabile di metri cubi costruiti entro e fuori cinta, il dazio, col nuovo metodo, verrà a dare 1.200.000 lire circa: 800.000 lire di più e forse anche un milione, secondo altri e non solo 450.000 lire come è previsto dalla giunta. Onde si fa a questa rimprovero di non aver detto la verità, tenendo bassa la previsione del gettito della tassa, per far passare la riforma più facilmente. E si nota che l’aumento del quadruplo entro cinta del dazio e da zero ad 80 centesimi fuori cinta rincarirà indubbiamente il costo delle costruzioni e sarà un ottimo pretesto ai padroni di casa di aumentare i fitti con conseguenze incomportabili in un momento di ascesa di tutti i prezzi, compresi i prezzi degli alloggi.
Ribattono i difensori della giunta osservando che, anche con un dazio di 80 centesimi a metro cubo, superiamo di poco i 75 centesimi del socialista municipio di Alessandria, rimaniamo al di sotto delle 1,20 del radicaleggiante comune di Vercelli e restiamo assai inferiori alle 2 lire entro cinta ed agli 80 centesimi fuori cinta di Milano. Replicano gli oppositori che a Torino i dazi sono già altissimi e giungono all’82% delle entrate comunali, mentre a Milano, ad esempio, gittano solo il 60% delle entrate totali. Il che non ha un senso preciso, o se l’ha, significa, non che i dazi siano eccessivamente alti a Torino, ma che sono basse le altre imposte. Ed invero, secondo l’ultimo annuario delle città italiane, il dazio comunale a Milano rende lire 26,03 per abitante, mentre a Torino rende lire 27,29, differenza troppo tenue per poter servire a confronti odiosi. Notisi che a Venezia, il dazio rende lire 28,27, a Roma lire 28,71 ed a Genova lire 44,05 per abitante.
Tutto sommato può conchiudersi che, anche in rapporto alla gravezza comparativa dello stesso e degli altri dazi, sia giustificata la proposta della giunta intesa ad estendere al suburbio il pagamento del tributo e ad aggravarne alquanto la misura. Ma pare altresì certo che si sia calcata un po’ troppo la mano nella misura. Se è vero che la giunta ha bisogno solo di mezzo milione di lire, gli 80 centesimi per metro cubo sono troppi; e se il fabbisogno è superiore lo si spieghi apertamente e senza reticenze. I torinesi sono preparati al peggio, ma vogliono veder chiaro nel bilancio, e reputano che ogni tergiversazione sia segno di una politica desiderosa di fare approvare spese che non riuscirebbero mai ad incontrare il suffragio dell’opinione pubblica qualora questa fosse contemporaneamente avvertita della necessità di mettere nuove imposte per farvi fronte.
18 gennaio 1910.
2.
I lettori del «Corriere» vorranno concedermi venia se ritorno sulla questione finanziaria di Torino. I problemi municipali interessano sempre tutto il paese in generale, sovratutto in un momento in cui la questione tributaria urge ed è di ardua risoluzione appunto per i legami strettissimi che corrono tra le finanze dello stato e le finanze dei municipi. Ma stavolta il problema tributario torinese tocca davvicino i più grandi interessi nazionali, perché sulla questione tributaria locale si è innestata una questione di protezionismo industriale, la quale non può e non deve essere risoluta senza aver di mira gli interessi della nazione intiera. Inaspettatamente, con alcune modificazioni alle sue primitive proposte, la giunta municipale torinese ha posto sul tappeto un grande problema nazionale, che rientra in un campo che dovrebbe essere di spettanza esclusiva dello stato.
E valga il vero. Le primitive proposte della giunta torinese erano, come i lettori ricorderanno, queste: sostituire all’attuale metodo, con cui si tassano i materiali da costruzione nel momento dell’introduzione in cinta, l’altro metodo con cui i materiali stessi si tassano in opera, quando la casa è costrutta e finita. La proposta era sembrata approvabile, perché rispondeva a due principii incontroversi: 1) l’uno di giustizia tributaria, perché il metodo attuale lascia esenti le costruzioni del fuori cinta, mentre quello proposto dalla giunta aveva il vantaggio di parificare le condizioni tributarie delle due parti della città; 2) l’altro di politica economica, perché l’attuale metodo di tassare i lavori in metallo, in legno, in marmi e pietre da taglio all’atto dell’introduzione in cinta concedeva una protezione agli industriali interni contro gli industriali di Moncalieri, Susa, Milano, ecc. ecc., la quale è manifestamente contraria all’unità dello stato italiano e trasferiva ai municipi i compiti di politica economica che universalmente si ritengono riservati allo stato.
Ai progetti della giunta un appunto solo mi sembrava possibile fare: ed era la manchevole giustificazione della tariffa elevata (0,80 centesimi per metro cubo) proposta per la tassazione delle costruzioni. Pareva ai più difatti che potesse ottenersi un mezzo milione di lire (fabbisogno confessato dalla giunta) con una tariffa più mite.
Senonché quelli che erano i pregi chiarissimi delle proposte furono appunto quelli che fecero sorgere le più vive opposizioni. Il fuori cinta, minacciato di parificazione tributaria all’entro cinta, si agitò e trovò aiuto, come al solito, nei socialisti. Gli industriali, a cui veniva tolta la protezione daziaria, si agitarono ancor più, spalleggiati dagli operai, a cui si faceva balenare lo spettro della disoccupazione. Circolano a Torino di questi giorni memoriali degni di essere gelosamente conservati perché non mi accadde mai di leggere documenti così interessanti e curiosi:
Gli industriali in legno fanno osservare che Torino si trova in condizioni specialissime, per cui le industrie cittadine, che devono soddisfare a bisogni locali, specialmente quelle sussidiarie dell’industria edilizia, sono esposte alla più incalzante concorrenza da parte delle industrie della provincia e più ancora da parte di quelle della Lombardia, favorite da migliori condizioni naturali, da maggiore potenzialità economica e da un minore aggravio di pesi e di tributi. Tanto ciò è vero che, nonostante la protezione daziaria, la cifra delle importazioni cresce ogni giorno più e che quasi quotidianamente si impiantano a Torino agenzie e rappresentanze di industrie della provincia e di Lombardia, concorrenti di industrie cittadine. Ora, se si toglie l’ultimo ostacolo allo svilupparsi di questa concorrenza, è certo che un grave danno subirebbe la classe industriale nostra e di contraccolpo anche la classe operaia, aumentando la crisi di disoccupazione che già esiste nella nostra città.
Gli industriali in ferro, metalli, marmo, pietre e cemento rincalzano:
Tempo addietro gli industriali di provincia e gli stessi proprietari di case venivano in città ad assumere direttamente i lavori, pei quali naturalmente potevano fare condizioni migliori, trovandosi i materiali sul posto di lavorazione, colla mano d’opera inferiore quasi della metà, colle pigioni, forza motrice e spese generali infinitamente meno costose di quelle della città. Si fu allora che gli industriali ed operai torinesi domandarono alla civica amministrazione un dazio protettore contro le introduzioni di fuori [leggi delle altre parti d’Italia], e questa, riconosciutene la necessità e l’importanza, ne accoglieva la domanda. Si poté tosto constatare il primo successo dell’accordata protezione, dal notevole incremento che assunse l’industria, che si ampliò, si perfezionò: si impiantarono nuovi stabilimenti, si accrebbe la maestranza e si sanò completamente la piaga della disoccupazione, tanto che oggigiorno non v’è un solo disoccupato. È quindi indiscutibile che se si abolisse ora il dazio all’entrata in città dei materiali, si ricadrebbe inevitabilmente nel primitivo marasma, coll’aggravante che i dolorosi effetti si ripercuoteranno su una quantità ben maggiore di stabilimenti e su una maestranza assai più numerosa. In questi ultimi anni poi sono noti gli sforzi che già fecero molti industriali di fuori [e cioè italiani del Piemonte, della Lombardia], sia direttamente sia a mezzo dei loro rappresentanti, per conquistare il mercato torinese, sforzi che tornarono vani solo per la protezione del dazio. Abolita questa, l’industria torinese dovrà necessariamente perire soffocata dalla loro concorrenza e diversi milioni all’anno se ne andranno da Torino a portare il benessere nelle vicine città, mentre che agli industriali torinesi non rimarranno che le tasse da pagare, colle spese che loro incombono.
A leggere le quali cose, io mi sono fregato gli occhi per essere certo di non ingannarmi e di non aver scambiato un memoriale degli industriali torinesi contro la concorrenza piemontese e lombarda con un qualche altro memoriale indirizzato al governo da industriali italiani contro la concorrenza tedesca, francese, ecc. Senza voler far questione di protezionismo e libero scambio, avevo sempre creduto che le norme di politica economica dovessero essere dettate dal parlamento nazionale allo scopo di regolare i rapporti commerciali tra l’Italia e l’estero. Le dogane saranno buone o brutte istituzioni, ma devono essere dogane di stato. Entro i confini d’Italia, avevo sempre ritenuto come assioma incontroverso dovesse esistere unità economica, che l’epoca delle barriere doganali tra città e città, tra staterello e staterello fosse trascorsa per sempre. Ed erano miei concittadini, torinesi, eredi di quelli che avevano iniziato il movimento di unificazione italiana, figli e nipoti di quei valorosi che avevano abbattute le barriere doganali esistenti ai confini degli antichi stati, erano dessi che insorgevano contro una giunta la quale proponeva si abolissero le ultime tracce di un protezionismo campanilistico, deliberato in altri tempi, quando la materia imponibile daziaria era scarsa e costringeva a tassare anche prodotti industriali, e deliberato senza aver consapevolmente di mira la protezione degli industriali interni contro quei terribili ed odiati stranieri che vivono nelle vicine città del Piemonte e della Lombardia.
Il meraviglioso si è che, allarmata da queste strane manifestazioni di municipalismo dal sapore medievale, la giunta si ricredette e fece non uno ma due passi indietro. Mantenne la proposta di tassazione ad opera compiuta solo pei la costruzione muraria propriamente detta, proponendo che fossero perciò abolite soltanto le voci calce, cementi, gesso, mattoni, pietrami, ecc. dalla tariffa dei dazi esatti alla cinta, e riducendo la tariffa unitaria relativa da 80 a 60 centesimi per metro cubo di costruzione, sia entro che fuori cinta. E di aver ridotta la tariffa da 80 a 60 centesimi le va data lode, poiché dimostrò così di arrendersi di fatto alle obiezioni dei competenti, i quali dimostrarono che i 60 centesimi sono più che sufficienti per ottenere il desiderato fabbisogno. Ma, per tutte le altre voci, per i lavori in metallo, legno, marmi, ecc. la giunta deliberò di tornare all’antico, e cioè alla tassazione all’atto dell’introduzione, sì da conservare la sperequazione col fuori cinta, che per questi lavori continuerà a non pagar nulla e la protezione a favore degli industriali interni. Anzi la protezione sarà cresciuta, perché la giunta, a viemmeglio assicurarsi quel mezzo milione, che le è già ampiamente garantito dai 60 centesimi di tassa sulla muratura semplice, propone i seguenti aumenti di dazio:
Per quintale
| Aum. %
| |
Per i lavori in metallo di Prima categoria | da L. 5 a 6 | 20 |
Per i lavori in metallo di Seconda categoria | da L. 1,50 a 2 | 33 |
Per i lavori in metallo di Terza categoria | da L. 0,50 a 0,75 | 50 |
Pietre da taglio lavorate | da L. 0,30 a 0,60 | 100 |
Pietre da taglio non lavorate | da L. 0,10 a 0,30 | 200 |
Marmi lavorati | da L. 2 a 4 | 100 |
Arenarie e gres lavorati | da L. 1 a 3 | 200 |
Marmi ed arenarie greggi | da L. 0,30 a 1 | 230 |
Legname da lavoro | da L. 0,05 a 0,12 | 140 |
Quanto sia grave tutto ciò, non è chi nol veda. Notisi che i lavori in metallo godono già di un’alta protezione, essendoché le materie greggie nulla pagano; che la differenza fra il dazio sul marmo greggio e il marmo lavorato che ora è di 1,70 (2 – 0,30) lire salirà a 3 lire (4 – 1), che il legname da lavoro greggio pagherà, è vero, qualcosa di più (0,12 invece di 0,06), ma gode di una protezione enorme, perché il legno lavorato semplice continuerà a pagare 5 lire al quintale ed i mobili pagheranno sempre da 6 a 20 lire al quintale. L’effetto fiscale di aumenti così gravi nelle tariffe daziarie protettive, aumento che va dal 20 al 230%, quale sarà? Quello di favorire la produzione interna e di rendere a poco a poco nulla l’importazione dal di fuori; ed a mano a mano che questo accadrà, il reddito finanziario del dazio tenderà a zero. Sono questi gli scopi che si deve proporre un dazio di consumo nelle città? Che un dazio doganale sia messo a bella posta per ottenere un rendimento nullo, si comprende, perché lo stato ha adottato una certa politica economica che porta appunto ad annullare l’importazione. Ma che i dazi di consumo debbano essere messi dalle città perché non rendano nulla è tale un controsenso, tale una aberrazione che nulla più.
Almeno il danno fiscale, certissimo a non lunga scadenza, fosse compensato da vantaggi economici! Anche qui, però, nulla di più certo che il protezionismo municipale accentua tutti i danni del protezionismo di stato, senza avere alcuno dei benefici che i fautori di quest’ultimo allegano. È certo intanto che in una città sola, su un mercato ristretto, è difficilissimo avvenga quel fenomeno di concorrenza tra le industrie interne che in un grande mercato può verificarsi. Gli Stati uniti sono protezionisti: e che importa, quando il mercato interno è tutto aperto al libero scambio ed è vasto come l’Europa? La concorrenza e lo sviluppo delle industrie sono tali che il prezzo di taluni prodotti all’interno è inferiore al prezzo straniero. In Francia è accaduto in parecchi anni che il prezzo del grano protetto non fosse più elevato che sul mercato libero di Londra. In Italia certe industrie protette vendono a prezzi di concorrenza internazionale. Ma in un mercato ristretto, come quello di una città, questo fenomeno è difficilissimo a verificarsi.
Troppo poche sono le imprese produttrici perché esse non riescano a sfruttare d’accordo tutto il margine di protezione in guisa permanente. Casomai, se la loro produzione sarà esuberante al consumo dell’entro cinta potranno mantenere elevati i prezzi all’interno e sfogare provvisoriamente il sovrappiù nel territorio esterno. Il dazio protettore, insomma, è destinato ad essere pagato e per sempre, dai consumatori interni; e nel caso nostro ad aumentare in modo permanente – ed a beneficio di privati e non del tesoro municipale – il costo di costruzione delle case, del mobilio e di tutto ciò che è il conforto dell’abitazione.
Né io vedo, perché dal punto di vista dell’interesse nazionale e cittadino sia utile favorire artificiosamente la concentrazione delle industrie nelle città. Dal punto di vista nazionale è indifferente che una industria sia esercitata a Torino o a Moncalieri o a Susa o a Milano. Dal punto di vista cittadino l’argomento principe dei memoriali discorsi sopra mi dà ragione. Che cosa vuol dire infatti che fuori, nelle campagne o nelle valli alpine, i salari sono più bassi ed i fitti meno cari? Che conviene di più produrre fuori e che è inutile, dopo tanto lamentarsi di urbanismo crescente, di spopolamento delle campagne, di difficoltà di trovare alloggi nelle città, di minacciosa questione delle case popolari, aggiungere nuovi incitamenti all’inurbarsi progressivo delle popolazioni. Noi ci aggiriamo in un circolo vizioso: i fitti sono cari nelle città, e perciò gli industriali debbono essere messi in grado coi dazi di pagare salari alti agli operai: i salari alti attraggono nuova gente rurale, allucinata dalle grosse cifre dei salari nominali, e la nuova domanda fa aumentare i fitti; e così all’infinito.
Arrivati a questo punto, a me sembra che si imponga l’intervento dello stato. Altri ha invocato l’arma delle leggi per dimostrare l’illegalità dei nuovi provvedimenti in genere proposti dalla giunta. Io la invoco per dimostrare la sconvenienza che il dazio consumo – strumento di tassazione esclusivamente fiscale – venga convertito in un’arma fratricida di lotta tra città e città, tra regione e regione. Lo stato deve dire agli industriali d’Italia: io vi proteggerò, se per varie ragioni lo riterrò opportuno, contro la concorrenza straniera, ma ad una condizione: che il mercato interno sia aperto alla concorrenza, alla emulazione illimitata di tutti voi, a condizione che l’industriale di Torino lotti con quello di Susa, l’industriale di Milano con quello di Brescia colle sole armi dell’ingegno, dell’iniziativa operosa, dell’aiuto bene organizzato della maestranza e non con le armi artificiose di medievali barriere cittadine! Ma forse non è necessario chiedere l’intervento dello stato: a Torino vi sono ancora uomini preclari, industriali arditi che comprendono l’assurdità ed il danno di un campanilismo meschino e sono convinti che noi torinesi possiamo vivere di vita propria, indipendente, senza ricorrere ad armi che il progresso dei tempi ha irremissibilmente spuntate.
24 gennaio 1910.