Opera Omnia Luigi Einaudi

Il dovere degli italiani durante la guerra

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1920

Il dovere degli italiani durante la guerra

«Corriere della Sera», 26 ottobre 1914[1]; 28 maggio[2], 6 giugno[3], 11 agosto[4], 6 settembre[5] 1915; 21 luglio 1916[6]; 24 aprile[7], 3 novembre[8] 1917

«Minerva» 16 aprile 1916[9]

Prediche, Laterza, Bari, 1920, pp. 43-92[10]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 31-38; 192-202; 360-364; 579-581

 

 

La moratoria, la quale fu in Italia una necessità dolorosa per mettere una diga al panico, che minacciava di travolgere tutta l’organizzazione economica del paese, ha dato luogo ad alcune manifestazioni strane e quasi direi allarmanti. Nessuno avrebbe supposto mai, prima della moratoria, che in Italia vivesse tanta gente provvista di depositi alle casse di risparmio e di conti correnti alle banche. Nessuno più pagò, perché le banche non rimborsavano i depositi o li rimborsavano solo nella misura fissata dai decreti governativi; e sovratutto non pagarono coloro, i quali in vita loro non erano mai stati titolari di conti correnti attivi alle banche e che non sapevano come fossero fatti i libretti di assegni. Coloro che non avevano mai ottenuto credito e che non avevano mai avuto bisogno di chiederne, subitamente, avendo visto che il governo aveva autorizzato alcune moderate emissioni di biglietti di banca, si immaginarono che i biglietti si potessero fabbricare per regalarli ai richiedenti; e cominciarono a reclamare ad alta voce emissioni di centinaia di milioni, di miliardi di lire di biglietti, per fornire fondi a classi di persone che finora non si erano sognate mai di diventare clienti delle banche di emissione.

 

 

È venuto il momento di dire che una delle migliori maniere con cui gli italiani possono servire il proprio paese, in quest’ora solenne della sua storia, è di compiere fino all’ultimo il proprio dovere. Viviamo in un’epoca in cui tutti debbono fare sacrifici e debbono essere disposti a farne dei maggiori; in cui è strettissimo dovere di tutti di chiedere allo stato, ai comuni, ai consociati di meno e non di più di quanto si era soliti chiedere prima; in cui a priori deve essere biasimato e non lodato quell’uomo politico o capo di rappresentanze sociali od economiche, il quale si fa iniziatore di nuove richieste al governo; in cui possono essere tollerate od ammesse solo quelle domande, le quali sono dettate dall’estrema necessità di salvare il paese da un pericolo grave e non quelle le quali hanno per iscopo di ottenere un vantaggio o di diminuire una perdita degli individui singoli.

 

 

A chiarire la tesi sopra sostenuta, mi proverò anch’io ad enunciare, ad imitazione di quanto fecero taluni autorevoli giornali esteri, un decalogo dell’italiano nel momento presente. Sarà un decalogo esclusivamente economico, la cui osservanza mi pare doverosa per tutti quelli, i quali non si trovino nella impossibilità assoluta di obbedire ai suoi precetti.

 

 

  • 1) Pagate i debiti più puntualmente di quanto non usavate fare prima. Chi si intenerisce della sorte dei debitori è, in tempi normali, il nemico acerrimo di coloro che hanno bisogno di credito; poiché l’inosservanza degli impegni induce i prestatori, e bene a ragione, ad aumentare il saggio dell’interesse per compensare il rischio dei ritardati o mancati pagamenti. Tanto più ciò è vero in tempo di guerra; poiché la mancata osservanza degli impegni da parte dei debitori antichi impaurisce i capitalisti ed i banchieri, già timorosi nelle circostanze odierne, e li spinge a nascondere il capitale che sarebbe disponibile. Di qui il rincaro enorme degli interessi, il mancato afflusso dei capitali alle industrie, la disoccupazione e la rovina dei debitori medesimi.

 

 

  • 2) Pagate i fitti con maggiore puntualità del solito. È risaputo che una delle cause più gravi della maggiore altezza relativa dei fitti piccoli in confronto ai grossi è la minore puntualità nei pagamenti e quindi il maggior costo d’esazione dei fitti piccoli degli operai, impiegati, piccoli commercianti. Il mercato, che adegua tutti i redditi, rialza i fitti piccoli per compensare l’industria edilizia del maggior costo che essa risente per la non puntualità e la insolvenza dei minuti inquilini. Quindi tutta la propaganda la quale si va facendo per ottenere la moratoria nei fitti non può non portare ad una conseguenza dannosissima alla classe più povera: ossia ad un ulteriore rialzo dei fitti piccoli.

 

 

  • 3) Pagate le note scadute ed in corso dei negozianti e procurate per l’avvenire di pagare tutto per contanti. Anche qui l’esperienza normale dei tempi di pace prova che gli acquisti a credito rincarano le merci, arenano il commercio e rendono difficile la vita alle industrie. Nei momenti, nei quali le difficoltà di far muovere il meccanismo economico crescono a mille doppi, ogni ritardo nei pagamenti da parte della clientela è un impedimento al giro della ruota economica. Il negoziante che non incassa non può pagare il grossista; questi a sua volta non paga il fabbricante e cessa di dare ordinazioni nuove. Il fabbricante, esaurite le ordinazioni vecchie e privo di incassi, cessa di lavorare: sicché cresce la disoccupazione.

 

 

  • 4) Depositate i fondi disponibili presso le casse di risparmio e le banche. Si pretende che banche e casse rimborsino i depositi al 100% e poi i risparmiatori trattengono in cassa gelosamente i denari disponibili. Nei tempi normali, le banche fanno fronte ai rimborsi dei vecchi depositi con gli incassi dei nuovi depositi. Se questi non si fanno più, come possono le banche fronteggiare le domande di rimborsi? Debbono vendere i titoli, in cui hanno investito i fondi dei depositanti o riscontare o non rinnovare le cambiali che con gli stessi fondi avevano comprato. Ma, vendendo i titoli, li deprezzerebbero, cagionando panico e disastri; riscontando le cambiali presso gli istituti di emissione, li costringerebbero ad emettere troppa carta-moneta, facendo crescere prezzi ed aggio; mentre la mancata rinnovazione delle cambiali scadute metterebbe spesse volte l’industria ed il commercio sull’orlo del fallimento.

 

 

  • 5) Continuate a fare i soliti vostri affari con le banche. Le considerazioni sovra fatte spiegano come non si possa lodare il contegno di quegli industriali e di quei commercianti, i quali, dopo aver ottenuto il rimborso di tutto o quasi tutto il proprio conto corrente, non portano più le proprie tratte all’incasso presso la banca, ma cercano di fare le esazioni direttamente od a mezzo posta, con metodi forse più costosi, allo scopo di tenere in cassa il ricavo. Il buon funzionamento del meccanismo economico richiede che le banche aiutino il commercio, ma impone anche che il commercio dia aiuto alla banca. Un servizio unilaterale consistente nel dare sempre e non ricevere mai è inconcepibile e non può non portare al disastro.

 

 

  • 6) Non fate provviste oltre il necessario. Oggi questo inconveniente si è assai ridotto: poiché si è visto che la guerra non era la carestia e che si poteva continuare a comprare ed a vendere come prima. Ma, poiché i tempi potrebbero farsi più gravi, non è inutile avvertire che la condizione essenziale per seguitare a comprar a prezzi normali è di non allarmarsi e non fare incette. Le incette dei negozianti non sono temibili; poiché son fatte da gente che, per guadagnare, ha assoluta necessità di rivendere: mentre sono pericolose le incette dei timorosi che si asserragliano in casa, provvisti di cibarie, come se avesse a tornare il tempo degli unni, e come se tornando gli unni costoro non trovassero assai comodo di fare man bassa anche sul ben di Dio ammucchiato dalla gente morta di spavento innanzi tempo.

 

 

  • 7) Non chiedete aiuti agli enti pubblici, quando è possibile trovar lavoro in città od in campagna. Gli enti pubblici e principalmente lo stato hanno compiti gravissimi da soddisfare. Tutte le forze finanziarie dello stato devono intendere ai fini supremi imposti dall’interesse nazionale. Pensano a ciò le comitive di uomini pubblici, di cooperatori, ecc. ecc. che vanno chiedendo lavoro allo stato ed appalti governativi? Pensano essi che, così facendo, indeboliscono finanziariamente lo stato e ne diminuiscono la forza la quale dovrebbe rimanere intatta? Hanno davvero essi cercato ogni via per procacciar lavoro ai disoccupati innanzi di ricorrere all’aiuto governativo? Sono sicuri che molti dei disoccupati non preferiscano di rimanersene in città a godersi la minestra ed i buoni di cibo gratuiti del comune piuttosto che andarsene a cercare lavoro dove il lavoro è offerto? Durante la vendemmia i contadini dovettero in molti luoghi pagare le vendemmiatrici, scarsissime, anche a 3 lire al giorno con l’aggiunta del consumo libero dell’uva. Può darsi che i disoccupati delle città considerino troppo vile il salario delle 3 lire al giorno: ma certamente il fornire minestre e cibi gratuiti nelle città a coloro che potrebbero trovare lavoro remuneratore nelle campagne è atto non conforme al pubblico interesse.

 

 

  • 8) Non chiedete denari a prestito, quando ciò non usavate fare prima e quando la vostra azione può provocare il deprezzamento della carta-moneta. Negli anni scorsi non s’era mai saputo in Piemonte che i compratori d’uva usassero ricorrere per somme enormi alle banche per ottenere i fondi per i loro acquisti. Improvvisamente si scopre quest’anno che sono necessarie diecine e centinaia di milioni e vi è chi chiede che li fabbrichi il governo stampando biglietti e li dia in prestito ai negozianti, affinché questi possano comprare le uve a 15 e 20 lire il quintale. Le centinaia di milioni di biglietti fortunatamente non si stamparono e ciononostante i viticultori poterono vendere le uve a prezzi rimuneratori. Prova evidente che i biglietti conclamati avrebbero servito solo a malsani gonfiamenti di prezzi.

 

 

  • 9) Pagate le imposte esistenti con maggiore zelo del consueto. Tutti abbiamo bisogno dei nostri redditi consueti; ma nessuno ne ha oggi maggiore urgenza dello stato. Il privato oggi può vivere col reddito dimezzato, rinunciando ai consumi non assolutamente necessari alla vita fisica; lo stato deve ottenere redditi crescenti, perché i suoi scopi sono oggi più ardui, più vasti, più costosi. Ognuno deve sentire che il pagamento delle imposte è qualcosa di più di un dovere ordinario: è il dovere più alto e più urgente del momento presente, è il mezzo per la conservazione dello stato e per il raggiungimento dei fini ideali che in questo momento storico hanno il sopravvento sui fini materiali.

 

 

  • 10) Confortate del proprio assenso il governo, quando intenda stabilire imposte nuove. Che siano necessarie imposte nuove per provvedere alle cresciute spese pubbliche era manifesto da un pezzo; e l’esazione di alcune di esse era già stata autorizzata dal parlamento. Ma le spese straordinarie occorse in questi mesi e quelle che occorreranno in avvenire ci costringeranno ad imitare la Germania, che aveva stabilito l’imposta di guerra del miliardo, ed i due paesi neutrali, Stati uniti e Svizzera, che hanno istituito or ora imposte straordinarie per sopperire alle minori entrate ed alle maggiori spese provocate dalla crisi odierna. Tutti debbono essere persuasi che, oggi, il pagare imposte maggiori per fornire allo stato i mezzi necessari alla sua vita è un bisogno più urgente di quello di provvedere a molti bisogni ordinari della vita: che si può e si deve rinunciare al vino, al caffè, al cinematografo, all’automobile, ai teatri, ai divertimenti, si deve far durare più a lungo un abito vecchio, si devono portare le scarpe rappezzate, rinunciando all’acquisto di un paio di scarpe nuove; ma non si deve rifiutare il consenso volonteroso e pronto al pagamento di imposte nuove. I bisogni dell’individuo come singolo diventano secondari di fronte ai bisogni dell’individuo come parte della collettività. Questa subordinazione, che nei tempi normali vorrebbe dire decadenza civile e dominio della burocrazia, nei tempi straordinari è richiesta dalle esigenze più urgenti della conservazione e dell’incremento di quei beni ideali, dai quali in sostanza dipende la possibilità di conseguire poi più larga messe di beni materiali.

 

 

II

Ora che la guerra è cominciata, diventa concreto il problema, che, già presente agli italiani, non ancora doveva essere risoluto senza indugio: come ci dobbiamo comportare nelle faccende ordinarie della nostra vita materiale ed economica?

 

 

Una formula ebbe grande voga in Inghilterra nei primi otto o nove mesi della guerra:

 

 

operate e vivete come se la guerra non fosse; attendete tranquillamente ai lavori vostri e continuate serenamente nel vostro genere ordinario di vita e di spese, senza preoccuparvi della guerra. In tal modo voi servirete il vostro paese; il quale ha d’uopo che il meccanismo della vita economica funzioni regolarmente e senza scosse, che la terra seguiti a fruttificare, che le industrie lavorino in pieno, che il traffico segua le sue vie, e che il popolo non sia malcontento per la disoccupazione.

 

 

Ma l’esperienza dei primi nove mesi di guerra ha dimostrato che la formula, sebbene contenesse una parte di verità, non era compiuta e poteva diventare pericolosa. Nell’Inghilterra stessa, l’opinione pubblica ha dovuto persuadersi che la vita ordinaria della popolazione doveva mutare per adattarsi alle necessità urgenti e pressanti della guerra; e che un non piccolo coefficiente di vittoria stava appunto nella capacità del popolo di adattarsi alle mutate condizioni ed esigenze della vita in tempo di guerra.

 

 

Sì, fa d’uopo che ognuno, il quale non sia chiamato sotto le armi, continui a lavorare nel suo mestiere e nella sua professione; e questo è certo il miglior modo per servire il paese. Gli industriali, i commercianti, i professionisti, gli agricoltori che attenderanno con la consueta cura ai propri lavori e negozi, contribuiranno a far funzionare senza scosse il meccanismo della vita del paese; e daranno opera alla vittoria; meglio che non abbandonando il proprio mestiere ed offrendo la propria collaborazione a servizi bellici, od ausiliari, a cui possono essere disadatti.

 

 

Ma lavorare come prima non basta. Bisogna lavorare meglio e più di prima. In un momento in cui milioni di uomini robusti e giovani sono chiamati a difendere il paese, occorre che il vuoto lasciato dalla loro chiamata sotto le bandiere non sia avvertito. I comitati di preparazione che sono sorti in tante città e si stanno costituendo nelle campagne fanno e faranno opera benemerita se contribuiranno a far penetrare nella mente e nel cuore di tutti gli italiani il convincimento che ognuno deve lavorare meglio e più di prima. Ognuno stia al suo posto; ma dia opera con raddoppiato zelo al lavoro di tutti i giorni. Il contadino sappia che se, coll’aiuto delle donne, dei ragazzi, dei vecchi di casa sua, riuscirà, in assenza del figlio soldato, a portare in salvo il fieno e le messi, a curare le viti, ad allevare il bestiame, egli si sarà reso benemerito della patria. L’impiegato pensi che le pratiche d’ufficio debbono ora essere definite ancor più rapidamente di prima, sebbene parecchi suoi colleghi siano stati richiamati. Volendo, è sempre possibile far in modo che il lavoro sia sbrigato: si viene più presto in ufficio, si va via più tardi e non si pensa ad altro che al lavoro che deve essere fatto. Né si chiedano compensi per ore straordinarie. L’operaio sappia che il successo della nobile e dura impresa nazionale dipende anche dalla diligenza del suo lavoro, dall’essere egli pronto a sacrificare ogni svago, e talvolta a rinunciare alla domenica, pur che il lavoro si faccia.

 

 

Lavorare come prima non sempre però è possibile. Vi sono industrie, di cui lo smercio diminuisce o cessa in tempo di guerra. Sono le industrie di lusso, quelle le quali lavorano per le cose non indispensabili all’esistenza. Sarebbe strano che lo stato, mentre deve rivolgere i suoi sforzi più intensi alla condotta della guerra, disperdesse i suoi mezzi finanziari nella medesima quantità, ad esempio, di lavori pubblici di prima. Gli operai e gli industriali addetti a questi lavori chieggano che sia fatto ogni sforzo affinché sia impedita la loro disoccupazione; ma si rassegnino a mutare genere e località di lavoro. I servizi ausiliari della guerra, le officine di armamento e di riparazione, le fabbriche di forniture militari avranno tali urgenze di lavoro che i disoccupati potranno facilmente trovar lavoro. Occorre che essi si adattino a compiere quei lavori che sono necessari e non si agitino per ottenere la prosecuzione di opere utilissime in tempo di pace, ma prorogabili in tempo di guerra. La guerra ha messo forzatamente in vacanze molti professori e ridurrà molto il lavoro dei professionisti. Già si sono costituiti comitati di questi «intellettuali» per avvisare ai mezzi di scrivere opuscoli, fogli volanti, di tenere letture e fare propaganda per innalzare il tono e lo spirito di sacrificio del paese. Molte cose utili si possono fare in questo campo, purché non si faccia della rettorica: spiegare ai soldati perché essi sono chiamati a combattere, quali sono le regole igieniche che devono osservare per non cadere vittime di malattie evitabili, organizzare invii di giornali e di libri ai soldati nelle trincee. L’esperienza fatta da ambe le parti nelle trincee di Francia e del Belgio ha dimostrato che i soldati sono avidissimi di letture e di quanto possa ricordare loro i parenti, gli amici ed i cittadini della patria per cui combattono.

 

 

Sì, fa d’uopo che ognuno continui a spendere quanto spendeva prima. Ma non come prima. Sarebbe un delitto verso la patria. Non forse la guerra ha dimostrato la necessità di sopprimere o di ridurre al minimo il consumo di bevande alcooliche? A tacer della Russia, che ha dato al mondo il magnifico esempio di un governo il quale rinuncia ad un’entrata netta di forse 1 miliardo e 800 milioni di lire, pur di sopprimere il flagello dell’alcoolismo; dappertutto, in Germania, in Francia, in Inghilterra i governi hanno fatto sforzi perseveranti per ridurre il consumo delle bevande alcooliche. E come delle bevande, così sarebbe necessario ridurre il consumo di tutto ciò che non è necessario per l’esistenza. Ognuno giudichi e valuti per conto suo le necessità della vita. Ma chi spendeva 100, rifletta che egli ha il dovere di ridurre la spesa, quando lo possa fare senza detrimento della sua salute fisica, a 90 ad 80 a 70 per consacrare il risparmio a spese pubbliche. La spesa più urgente che oggi ogni cittadino consapevole deve fare è quella dell’imposta. Pagare puntualmente le imposte dovute vuol dire soddisfare oggi ad una spesa altrettanto urgente come quella del pane o della minestra e certamente più urgente di quella da farsi per un vestito nuovo, od una scampagnata domenicale o per la villeggiatura. Chi può, rinunci quest’anno alla villeggiatura; e si dia dattorno per fare qualche cosa lungo i mesi estivi. Talvolta, il modo migliore di rendersi utile sarà di attendere alla sorveglianza dei lavori di campagna, quando fattori e contadini siano sotto le armi. In tal caso, quando la collaborazione agricola sia una cosa seria, anche la villeggiatura potrà moralmente essere spiegata. Altrimenti sarebbe una spesa deplorevole e dannosa.

 

 

Tutto il margine di risparmio ottenuto sulle spese sia dato allo stato. Le guerre costano; e costerà gravi sacrifici di uomini e di denari anche questa nostra guerra per la liberazione d’Italia. Un prestito sarà necessario per somma grandiosa. Tutti devono sottoscrivere, anche con piccole quote; e tutti devono fare ogni sforzo affinché nella spesa dell’anno entri l’acquisto di qualche cartella del nuovo prestito nazionale. Nel suo ultimo discorso sul bilancio, il signor Lloyd George disse che quest’anno gli inglesi devono risparmiare il doppio degli anni scorsi: 800 milioni di lire sterline invece di 400; 20 miliardi invece di 10 miliardi di lire italiane. Così dovrà avvenire, mutate le cifre, anche in Italia.

 

 

Resecate le altre spese; ma tenetevi pronti a dare allo stato quanto più potrete! è in gioco la ragione più alta della nostra vita, e della vita dei nostri figli e nepoti; ed in confronto a ciò, appaiono ben piccola cosa le rinunce a qualche godimento materiale od intellettuale!

 

 

Né si tema, così operando, di favorire la disoccupazione. Senza volere fare discussioni troppo precise e minute, è chiaro che tutto ciò che noi forniremo allo stato a titolo di imposta o di prestito convertirà immediatamente in domanda di merci e di prodotti utili all’esercito e quindi in domanda di lavoro. Dopo, ritorneremo a impiegare i nostri mezzi, gli uni nello spendere, gli altri nel migliorare terre o fabbricare case. Per ora, tutti gli italiani debbono rinunciare a qualunque altra meta che non sia la difesa della patria comune.

 

 

Così hanno fatto, è d’uopo dirlo anche ora, i tedeschi; e ciò ridonda a loro grande onore. Così dobbiamo fare pure noi, se vogliamo dimostrare al mondo che la nostra causa è giusta. Una meta così alta, come il compimento della unità d’Italia, non si tocca senza dolore e sacrificio. Affrontiamoli con cuore saldo e coi nervi tranquilli; e la meta sarà raggiunta. Se avremo fiducia in noi stessi, la battaglia sarà vinta; e sia fiducia senza jattanza, austera e piena.

 

 

III

 

Tutti noi abbiamo potuto verificare che il telegramma dell’ on. Cavasola ai prefetti è una fotografia esattissima della verità. «Constato con soddisfazione – dice il ministro – che in tutta l’Italia regna la calma degna di un paese cosciente della propria forza. Gli affari si svolgono dovunque come in tempi ordinari e confido che i mezzi posti con larghezza a disposizione degli istituti di credito, delle casse di risparmio, delle casse rurali, delle cooperative per assicurare il loro regolare funzionamento colle rispettive clientele, contribuiranno a rinsaldare quella pubblica fiducia che in questo momento costituisce un giusto vanto del paese. Sono certo che i signori prefetti presidenti delle camere di commercio spenderanno la loro vigile influenza per mantenere tale elevato spirito pubblico».

 

 

Noi sappiamo che la guerra si combatte ai confini, vediamo che i soldati partono per il teatro della battaglia, leggiamo le notizie intorno agli avvenimenti bellici; ma poi si ritorna tutti alle proprie occupazioni od ai propri affari, come se lo stato di guerra non esistesse. La calma e la forza del paese rispondono degnamente alla fiducia ed alla forza dell’esercito e del governo. Se si eccettuano alcuni sporadici episodi, ben presto repressi dall’autorità e dall’opinione pubblica, di caccia allo straniero, l’Italia non dà alcun segno di quelle eccitabilità ed impulsività che si prognosticavano e noi stessi dubitavamo essere proprie dei popoli meridionali. Si desidererebbe, è vero, sapere qualcosa di più intorno agli avvenimenti della guerra che si combatte così vicina a noi; ma subito si aggiunge: «il governo fa benissimo a dirci soltanto quelle cose che lo stato maggiore giudica opportuno di divulgare». Ed il commerciante ritorna ai propri negozi, l’industriale ai suoi lavori ed ai suoi operai, senza nulla chiedere di più, persuaso che la riservatezza ed il silenzio sono condizioni essenziali di successo nella grande impresa in cui si lotta per l’avvenire d’Italia.

 

 

Neanche si vede che la mobilitazione abbia finora disorganizzato imprese, interrotto lavori, aumentato il numero dei disoccupati. Non si è mai sentito parlare tanto poco di disoccupazione come oggi. Tutti si erano, in silenzio, preparati al grande evento, durante i lunghi mesi trascorsi di incertezza e di aspettativa. Le donne hanno sostituito in parte gli uomini; si vedono molti giovanetti compiere lavori e funzioni, prima riservati agli uomini adulti; si sa che le ore di lavoro straordinario negli uffici, nelle banche, nelle fabbriche sono cresciute allo scopo di provvedere, con il personale scemato, a compiere regolarmente il lavoro necessario. Nessuna inquietudine si è manifestata presso i depositanti, ed i correntisti delle banche e delle casse di risparmio; tutti essendo persuasi che, nei dieci mesi decorsi dall’agosto 1914, banche e casse hanno provveduto a migliorare e a rafforzare la liquidità dei loro impieghi, sì da esser pronte a soddisfare qualsiasi domanda. Noi eravamo così preparati alla guerra; poiché in fondo la vera preparazione consiste nella volontà determinata di non lasciarci turbare e di cercare ogni mezzo di adattarci alla mutata e più difficile situazione in cui noi siamo entrati dall’inizio delle ostilità. A me sembra che in questa volontà e non in altro consista lo spirito di organizzazione di cui hanno dato splendida prova i tedeschi. Noi sappiamo, come cosa certa, che l’esercito è magnificamente organizzato, che nulla è stato risparmiato per renderlo uno strumento efficace e potente delle azioni volute dai suoi capi.

 

 

Affinché alla organizzazione bellica risponda l’organizzazione civile basta che ognuno abbia la volontà fermissima di fare il proprio dovere.

 

 

È certo che noi abbiamo questa volontà.

 

 

Negli ultimi giornali tedeschi che giunsero in Italia prima della interruzione postale, una delle note più insistenti era quella dei grandi progressi economici compiuti dall’Italia nell’ultimo trentennio. Alcuni noti giornali pubblicarono su questo tema lunghi articoli, che si sarebbero persino potuti chiamare simpatici, se essi non avessero avuto l’intento, manifesto anche nei discorsi di Bethmann Hollweg e di Tisza, di dimostrare la nostra stoltezza nel rivoltarci contro il mondo tedesco, il quale aveva dato a noi quella organizzazione e quella spinta, grazie alle quali noi avevamo potuto toccare così ragguardevole meta nel campo economico. Non è questo il momento di apprezzare quale sia il nocciolo di verità che può essere nelle affermazioni tedesche. Chi riconosca, come in ossequio alla verità dobbiamo riconoscere, che durante il lungo periodo di pace dal 1871 al 1914 la collaborazione economica tra le nazioni europee era stata grandemente intensificata, non può negare che noi abbiamo ricevuto benefici dalla collaborazione tedesca, mentre la Germania altresì qualche giovamento ha tratto dalla nostra opera. È assai discutibile se la collaborazione tedesca sia in Italia stata davvero e sempre utile e se davvero l’Italia abbia compiuti i maggiori e più sani e duraturi e spontanei progressi precisamente nei rami in cui fu maggiormente palese il concorso dei capitali e delle intelligenze straniere. È certo ad ogni modo che quel concorso, che io non voglio oggi ingiustamente svalutare ma che andrebbe apprezzato non oltre il suo esatto valore, sarebbe stato vano se gli italiani non fossero stati adatti alle grandi trasformazioni economiche dei tempi moderni. Io ho l’impressione che i maggiori progressi nostri si sono compiuti tacitamente, senza collaborazione diretta altrui, nell’agricoltura, nelle industrie agricole, nella organizzazione creditizia delle casse di risparmio, delle banche popolari, delle cooperative, dei consorzi, ecc.; e si siano compiuti per uno sforzo tenace della nostra volontà. Io credo che nessuna impresa commerciale, bancaria od industriale sorta sotto la guida di dirigenti stranieri, anche molto benemeriti, possa reggere al paragone del superbo spettacolo delle «terre nuove» che il genio italiano ha fatto balzar fuori dalle paludi malariche delle province di Ferrara e di Ravenna. Quelle «terre nuove» rimarranno nei secoli come rimase la pianura lombarda, «creata» dal nulla con secoli di lavoro paziente delle nostre popolazioni. Il fattore principale di quei progressi economici – non diciamo neppure, ché non giova mai insuperbire, che i nostri progressi siano stati «grandi» come ora, per darne a se stessi tutto il merito, dicono i tedeschi – è stato dunque un nostro sforzo di volontà.

 

 

Questa «capacità di volere» è oramai entrata nel nostro sangue, si è fatta carne della nostra carne. Durante gli anni di pace, la esuberanza della nostra volontà di agire ci ha portato ad accapigliarci, operai contro padroni, leghe di contadini contro leghe di braccianti, rossi contro gialli e gialli contro rossi. Ora, finché dura la guerra, tutte le contese sono e rimangono sopite. La nostra «capacità di volere» sia rivolta soltanto a mantenere in perfetto stato di efficienza il meccanismo economico, affinché esso dia un rendimento sincrono ed integratore del meccanismo bellico. Come dice il ministro d’agricoltura, «i mezzi posti con larghezza dal governo a disposizione degli istituti di credito, delle casse di risparmio, delle casse rurali, delle cooperative per assicurare il loro regolare funzionamento colla rispettiva clientela devono contribuire a rinsaldare quella pubblica fiducia che in questo momento costituisce un giusto vanto del paese». Conservando quella fiducia in noi stessi, di cui noi oggi diamo una così lieta prova, noi avremo compiuta la migliore e più efficace opera di organizzazione. Fiducia vuol dire attendere alle proprie occupazioni; vuol dire attendervi con raddoppiato zelo; vuol dire compiere quel lavoro che è un anello degli infiniti lavori di cui vive la intiera comunanza sociale; vuol dire quindi collaborare nel miglior modo possibile al raggiungimento del fine, che solo brilla dinanzi ai nostri occhi. Di fronte alla organizzazione tedesca, di cui tante cose si sono lette ed a cui tante e meritate lodi abbiamo tributato, non bisogna però lasciarci cogliere dallo stupore e dall’inerzia disperante, come se quella organizzazione fosse qualcosa di sovrumano e di irraggiungibile. Pensiamo che essa consiste sovratutto nella deliberata volontà di ognuno di fare più del proprio dovere, ciascuno nel proprio, anche limitatissimo, campo. In questi primi tempi della guerra, abbiamo saputo tenere i nervi tranquilli ed abbiamo seguitato a lavorare. Continuiamo così, crescendo via via i nostri sforzi, a mano a mano che cresce lo sforzo militare; ed avremo compiuto il nostro ufficio verso la patria.

 

 

IV

Ho letto in questi giorni l’annuncio che per la sesta volta il prof. Riccardo Bachi pubblica intorno all’Italia economica[11] nell’anno trascorso, con tanta soddisfazione ed utilità dei lettori italiani. È una vera cronistoria dell’anno, la quale ci passa dinanzi; sicché il possessore di questa e delle annate precedenti è messo in grado di conoscere, con rapidità e sicurezza, tutti i fatti che si sono verificati nell’anno intorno al commercio internazionale, al traffico ferroviario e marittimo, al movimento delle banche e delle borse, ai prezzi delle merci e delle derrate, all’andamento delle industrie agricole ed industriali, al mercato del lavoro ed alla finanza dello Stato. Chiunque conosca le difficoltà, spesse volte insormontabili dai privati, di procurarsi notizie attendibili intorno a ciò che è successo in passato e su cui si desidererebbe di essere informati per gli opportuni confronti col presente, saprà grado al Bachi di essersi assunto il compito di riassumere in un compatto volume di 300 pagine tutti i dati ed i fatti ed i progetti che in materia economica e sociale si sono verificati e presentati e discussi di anno in anno. Se il favore del pubblico la sosterrà e se nell’autore durerà la pazienza, fra qualche decennio la raccolta di questi annuari sarà una miniera preziosissima per lo storico dell’Italia economica. Frattanto essa dovrebbe essere un manuale indispensabile per la consultazione di ogni uomo politico, giornalista, banchiere, amministratore di società anonime, industriale, segretario di associazioni operaie, di federazioni e di leghe. All’estero, vi sono taluni annuari consimili che hanno una fortuna grande; e sono divenuti uno strumento di lavoro indispensabile per le persone che appartengono alle classi dirigenti. In Italia quanti presumono dirigere altrui e specialmente amministrare o controllare la cosa pubblica, dirigere l’opinione, guidare associazioni, e tuttavia non si curano di saper nulla intorno ai fatti, su cui quotidianamente discorrono e deliberano!

 

 

Quest’anno l’Annuario del Bachi porta un sottotitolo: Le ripercussioni della guerra europea sull’economia nazionale. Ed in verità l’anno 1914 presenta per gli statistici e per gli storici un carattere imbarazzante: i dati si interrompono, si contorcono, assumono un andamento profondamente diverso e spesso profondamente bizzarro a partire dall’agosto. Ogni serie statistica deve, nel 1914, dividersi in due parti: primi sette mesi, ultimi cinque mesi. E le due parti non hanno nulla di comune fra di loro.

 

 

Tuttavia un nesso si può ritrovare, ed il Bachi lo ha messo bene in luce.

 

 

Fu fortuna somma che i primi sette mesi del 1914 fossero stati nel mondo in generale e particolarmente in Italia mesi fiacchi, di liquidazione di una crisi che si andava trascinando da anni. «Proseguiva in quei mesi il rallentamento nell’attività di varie grandi industrie e specialmente andavano declinando la produzione del ferro, l’estrazione del carbone; la domanda di metalli era discesa; il livello generale dei prezzi diminuiva: si attenuava alquanto il movimento degli scambi internazionali; il grado di occupazione della mano d’opera in varie industrie era piuttosto depresso; il traffico marittimo, dopo vari anni di brillante ascesa, subiva un regresso così che l’offerta di tonnellaggio risultava eccedente la domanda ed il livello dei noli declinava tanto sensibilmente da provocare fra gli armatori schemi di intese internazionali per il parziale disarmo. Le quotazioni dei titoli di credito nelle borse erano orientate al ribasso. La scarsa tendenza del capitale a nuovi investimenti si traduceva in una certa abbondanza di denaro per impieghi a breve scadenza e così nel mite saggio degli sconti; il movimento bancario era generalmente fiacco: il volume dei portafogli tendeva a ridursi».

 

 

Fu fortuna somma che la guerra europea sia caduta in un momento di languore economico. «La improvvisa rovina sarebbe risultata ben più vasta, la scossa ben più sussultoria, se la guerra fosse avvenuta in un punto di forte ascesa per l’economia italiana, in una fase di febbrile intensa attività come era, per esempio, l’anno 1905: in un istante di ardita speculazione, di audaci iniziative, di moltiplicazione d’imprese, di ascese nelle quotazioni di borsa, il sobbalzo sarebbe stato più spaventevole, la ruina più vasta, maggiore la catastrofe».

 

 

Il languore di parecchie industrie fece sì che in alcuni casi l’improvvisa domanda di forniture militari potesse essere soddisfatta con le riserve invendute e pesanti sul mercato e risanasse una situazione divenuta oramai cronicamente malata; in altri casi consentì ed incoraggiò ad una trasformazione tecnica e commerciale, per cui si poterono soddisfare i bisogni di guerra trascurando altri bisogni privati meno urgenti e prorogabili. Il marasma delle borse fece sentire meno gravemente il danno della loro chiusura; e mancando le domande di capitali per altri impieghi, fu possibile al risparmio disponibile ed a quello nuovo accorrere ai prestiti di guerra ed alle industrie intente a provvedere ai bisogni improvvisamente cresciuti dello Stato.

 

 

Insomma, l’adattamento alle nuove condizioni di vita fu reso più agevole dallo stato di liquidazione e di attesa che il mercato mondiale, ed il nostro con esso, attraversava nella prima metà del 1914. Non mancarono gli sforzi intesi ad impedire l’adattamento, ed in specie fu grande, all’estero ed in Italia, il clamore di coloro i quali invocavano una energica ed audace politica di credito allo scopo di consentire alle industrie di continuare nelle usate produzioni, agli enti locali di seguitare negli iniziati lavori pubblici, agli operai di trovare occupazione negli ordinari impieghi.

 

 

Tentativi che, se fossero approdati, sarebbero stati cagione di gravissimo danno; poiché ciò che importava, dopo lo scoppio della guerra, e ciò che massimamente importa ancora adesso, non è già di continuare a produrre come prima, ma di produrre diversamente, sebbene con maggiore intensità, per soddisfare ai nuovi bisogni che la guerra ha fatto sorgere. Produrre per produrre è un insigne errore; il quale conduce ad avere i magazzini ricolmi e prepara le crisi prossime, le perdite di capitale, le disoccupazioni operaie. A costo di qualche momentaneo squilibrio, a costo di qualche crisi passeggera di disoccupazione operaia, era ed è necessario che si interrompa e languisca la produzione delle cose non urgenti e che tutti gli sforzi siano rivolti a quei lavori, i quali appaiono indispensabili per la difesa del paese.

 

 

A più riprese ritornano nel volume del Bachi le lodi ai reggitori della cosa pubblica e delle banche d’emissioni per avere – attraverso a quelle piccole e formali concessioni che in un paese democratico e di scarsa cultura economica sono indispensabili per colmare pericolose querimonie d’indole politica ed elettorale – resistito «agli inconsulti e petulanti richiami che da molte parti si levarono perché una espansione della circolazione cartacea e una dilatazione del credito venissero a stimolare le speculazioni, ad eccitare patologicamente un movimento economico che era provvido lasciar languire».

 

 

Ed è bene che le lodi siano ripetute e si insista negli incoraggiamenti, a proseguire, entro i limiti del politicamente possibile, nella severa via della restrizione del credito alle industrie non utili, direttamente od indirettamente, alla guerra; poiché non mancano gli incitamenti a battere una via diversa, che sarebbe funesta per il paese e per le masse lavoratrici.

 

 

Non, è molto, la lega nazionale delle cooperative diramava un questionario, in cui, fra l’altro, era esposto il pensiero che fosse necessario iniziare «una coraggiosa politica finanziaria che aumenti la circolazione, che faciliti l’esecuzione dei lavori pubblici, che aiuti l’agricoltura, che sproni le rallentate attività dell’industria e del commercio».

 

 

Meraviglia assai, non già che simili propositi sieno manifestati, sibbene che trovino largo consenso tra uomini politici, sindaci, consiglieri comunali, uomini responsabili insomma, i quali hanno il dovere di badare alle conseguenze delle loro parole e dei loro consensi.

 

 

Non già che si debba essere contrari ad ogni costo ad aumenti nella circolazione dei biglietti. L’esperienza di un secolo, culminante nei risultati di celebri inchieste eseguite nel principio del secolo XIX sul regime monetario e bancario inglese, ha dimostrato che non bisogna aver timore di offrire biglietti in quantità illimitata, purché l’offerta sia fatta coll’unico intento di calmare il panico, di inspirare fiducia e di evitare che pubblico, industriali e commercianti accettino sul serio l’offerta. Offrire biglietti in quantità illimitata allo scopo di non doverne emettere di fatto se non quantità minime: ecco la politica monetaria additata dall’esperienza e riconosciuta efficace ed utile.

 

 

Questa politica è in tutto contraria all’altra delle effettive emissioni di carta-moneta, voluta dalla lega delle cooperative per facilitare l’esecuzione dei lavori pubblici, aiutare l’agricoltura, spronare le rallentate attività dell’industria e del commercio. Questa è politica rovinosa, la quale nel momento attuale ha un unico e ben sinistro significato: indebolire le forze di resistenza del paese di fronte al nemico.

 

 

Aiutare l’agricoltura. – E perché di grazia? Gli agricoltori, in quest’anno di guerra, si aiutano già abbastanza da sé vendendo a prezzi folli la maggior parte delle derrate di cui dispongono. Frumento, granoturco, bestiame, persino il vino, tutto è aumentato di prezzo; tutto si vende con facilità grandissima, procacciando a proprietari e fittabili guadagni insperati, di gran lunga superiori al danno subito per l’aumento di prezzo della mano d’opera. Forse i soli danneggiati furono quelli che hanno terreni in cui è prevalente la cultura del gelso. Ma per gli altri il raccolto si annunzia rimuneratore, se non per quantità, per i prezzi. Gli agricoltori si lamentano sempre per una loro inveterata abitudine, ma sta di fatto che una commissione agraria, costituitasi a Torino, sotto l’egida del comitato di preparazione, allo scopo di avvisare ai mezzi di rimediare alla mancanza di mano d’opera nelle campagne, credette opportuno sciogliersi, dopo avere constatato che alla mancanza gli agricoltori avevano provveduto da sé, senza l’aiuto di Comitati e di poteri pubblici. Facciamola finita con la brutta mania di voler aiutare della gente, che sa benissimo il proprio conto ed il cui desiderio più vivo è forse quello di non essere frastornata da pretesi salvatori!

 

 

Spronare le rallentate attività dell’industria e del commercio. – Per molte branche dell’industria e del commercio non v’è affatto bisogno di sproni e di incitamenti. Tutti questi industriali e quei commercianti, i quali fabbricano cose utili all’esercito o necessarie per la popolazione civile hanno più lavoro di quanto non ne possano eseguire. Ad essi non mancano il credito e la clientela. Mancano talvolta gli operai ed i mezzi tecnici per eseguire le ordinazioni ricevute. All’uopo non occorre però affatto stampare biglietti. Occorre invece che continuino a languire ed anzi, se è possibile, si sospendano del tutto le altre industrie, le quali producono merci di lusso, cose inutili ed il cui consumo per il momento è prorogabile. Occorre che gli operai di queste industrie si adattino a compiere il breve tirocinio necessario ad imparare un altro mestiere (ad esempio maneggiare torni); ed è necessario perciò che né i comuni, né lo Stato, né le organizzazioni operaie e cooperative si mettano in capo di trovare un rimedio alla loro disoccupazione, diverso dalla ricerca e dall’apprendimento di altri lavori più utili nel momento attuale. Occorre che gli industriali si rassegnino a non più produrre e si ingegnino a trarre il miglior partito possibile dai propri macchinari per produrre diversamente da prima. A Ciò non servono tuttavia le chiacchiere intorno a nuove emissioni di biglietti; bastando e facendo d’uopo spirito di organizzazione, buona volontà di imparare, spirito di sacrificio per superare gli ostacoli dei necessari spostamenti di lavoro.

 

 

Facilitare l’esecuzione dei lavori pubblici! – Ostacolarla invece fa d’uopo, dico io, con ogni energia e con una viva opera di propaganda. Se v’è una politica, la quale nel presente momento sia deleteria è quella dei lavori pubblici. È utile compiere lavori pubblici nei periodi economici in cui il saggio di interesse è basso, in cui languono le industrie private ed in cui si può pensare ai lavori di lunga lena, i quali saranno produttivi fra qualche decennio o fra qualche generazione. Costruire una ferrovia la quale e` destinata a non rimunerare il capitale e quindi non può essere costruita senza un largo sussidio governativo, può essere utile quando lo Stato crede in tal modo di conseguire un vantaggio generale per la collettività od un rendimento economico lontano, fra 30 o 40 anni. Ma occorre che lo Stato non abbia altri fini più urgenti e più alti da conseguire. Nel momento presente, in cui lo Stato ricorre ai risparmiatori per procacciarsi, pagando circa il 5%, il capitale necessario per compiere l’unità italiana, fare dei debiti – e le sovvenzioni ferroviarie, le emissioni di biglietti per sovvenire le cooperative di lavori pubblici sono veri e propri indebitamenti, ben più onerosi del prestito nazionale – per costruire una ferrovia è un atto economicamente e politicamente assurdo. Seguendo i consiglieri della larga politica di lavori pubblici, lo Stato: 1) rincara il prezzo del risparmio, che gli è necessario per la condotta della guerra, e rende quindi più grave il peso finanziario della guerra stessa; 2) distoglie operai, capitecnici, imprenditori da quelle industrie, a cui oggi è necessario dedicarsi; 3) rende più difficile all’agricoltura, di cui si è tanto teneri a parole, di procacciarsi mano d’opera; 4) aumenta la circolazione dei biglietti ed inasprisce l’aggio, con conseguenze gravissime per la collettività e massimamente per i lavoratori.

 

 

Con le quali osservazioni non si vuol dire che i lavori pubblici debbano essere del tutto abbandonati. No. Devono essere ridotti al minimo possibile: a quelli che: 1) possono essere politicamente necessari per tener tranquilla la parte più facinorosa della classe politica, quella che non è capace, neppure nel momento attuale, di sacrificare i propri piccoli interessi elettorali sull’altare della cosa comune. Sarà d’uopo ricordarsi, a cose calme, di queste insistenze per ottenere lavori pubblici e per sottrarre mezzi al solo scopo, il quale oggi deve essere in cima al pensiero di tutti; 2) sono più vicini al loro compimento e per cui una interruzione od un rallentamento potrebbe essere più costoso del risparmio per tal modo conseguito. Il che vuol dire: non cominciare lavori nuovi, se non per eccezione di urgenza immediata; sospendere quelli per cui si è ancora nei primi stadi della esecuzione e per cui la sospensione non danneggia il valore del lavoro già fatto; e continuare invece, con la massima economia, quei lavori già iniziati per cui la sospensione riuscirebbe di danno grave o distruggerebbe il valore della parte già eseguita. Queste le regole che il buon senso, l’interesse pubblico ed il vantaggio reale delle classi lavoratrici impongono di seguire in materia di lavori pubblici.

 

 

V

Quanto più la guerra procede, tanto più cresce l’importanza della campagna a favore dell’economia iniziata dai più autorevoli giornali inglesi, fatta propria dal governo di quel paese, ed a cui anche in Italia si rivolge oggi il consenso crescente dell’opinione pubblica. Dall’osservanza della più rigida economia ha finora tratto gran giovamento sovratutto la Germania, la quale deve ad essa se ha sentito scarsamente gli effetti del blocco alimentare ordinato ai suoi danni dall’Inghilterra; il pane kappa, il razionamento della popolazione la campagna per utilizzare i rifiuti della cucina e della casa recarono notevole vantaggio alla resistenza economica tedesca contro gli alleati. E poiché le risorse economiche non sono inesauribili in nessun paese, neppure in Inghilterra, è naturale che anche lì si sia ripetuto il grido: fate economia! Dal successo di questa campagna dipende, più che non si creda, la capacità di resistenza bellica delle nazioni alleate. Se l’Inghilterra deve mantenersi in grado di aiutare finanziariamente i suoi alleati, uopo è che essa riduca al minimo i suoi acquisti all’estero a scopo di consumo ed il consumo medesimo delle cose prodotte all’interno; così da diminuire la formidabile e crescente sbilancia commerciale, e da frenare l’ascesa del cambio, che anche là comincia a farsi sentire. Da un calcolo istituito dal signor Hobson nell’ultimo numero dell’«Economic Journal» risulta che nei primi nove mesi di guerra l’Inghilterra dovette vendere circa 125 milioni di lire sterline (3 miliardi e 350 milioni di lire nostre) di titoli stranieri da essa posseduti per provvedere allo sbilancio economico causato dalla guerra. Se non si pone riparo con l’economia agli eccessivi dispendi, arriverà il giorno in cui le vendite dovranno essere aumentate molto al di là di questa cifra ed il mercato nordamericano sarà incapace di assorbire le enormi partite di titoli venduti. Di qui il fervore con cui uomini di governo, giornalisti, propagandisti vanno inculcando agli inglesi la necessità di porre un freno alle loro abitudini spenderecce.

 

 

È un appello, il quale deve, anche fra noi, essere rivolto a tutte le classi sociali. Alle classi alte, ricche ed agiate in primo luogo. Non si lascino esse trarre in inganno dal pregiudizio comunemente diffuso che sia loro dovere di spendere molto per dare lavoro alle masse operaie. Questo dello «spendere per dare lavoro» è un pregiudizio erroneo sempre, e massimamente in tempo di guerra. Gli economisti non affermano che gli uomini siano meritevoli di lode solo quando risparmiamo e siano biasimevoli sempre quando spendono il loro reddito. Ognuno impiega i propri redditi nel modo che ritiene più opportuno; e dal punto di vista economico è fuor di luogo affermare che l’atto del risparmiare sia più virtuoso dell’atto del consumare. Per raggiungere il fine di un progresso economico generale, di un miglioramento costante nella produzione della ricchezza e nel tenor di vita degli uomini, è necessario che sia serbato un certo equilibrio fra il consumo ed il risparmio; fa d’uopo che, per risparmiare denaro, non si riducano gli uomini alla macilenza fisica ed alla sordidezza intellettuale e morale; e d’altro canto non si consumi tutto il reddito in godimenti presenti, occorrendo provvedere all’avvenire. Queste sono verità ovvie; ma non è inutile insistere sul punto che il ricco, il quale spende tutto il suo reddito e forse parte del suo patrimonio, non acquista perciò alcuna maggiore benemerenza, verso i poveri, di colui che risparmia.

 

 

Apparentemente il ricco spendaccione sembra meritevole di maggiore lode dell’avaro parsimonioso; ed invero egli è lodato da servitori, camerieri, cocchieri, negozianti, parassiti, come colui che sa spendere i propri denari a beneficio altrui. Costoro guardano con disprezzo al ricco avaro che tesaurizza e pone in serbo i suoi denari, rifiutando di farne partecipe altrui. In realtà, tutti sanno che questa è solo l’apparenza delle cose. Nel mondo moderno, in cui nessuno tesaurizza in realtà – chi usa ancora riporre sottoterra i denari messi in serbo? – ma tutti risparmiano, risparmiare vuol dire portare i propri denari alla banca o cassa di risparmio o comprare titoli o fare mutui altrui o comprare terre o case. E poiché banche e casse di risparmio non tengono inutilizzati i depositi, ma li danno a mutuo ad industriali, commercianti, comuni bisognosi di compiere opere pubbliche ecc. ecc.; risparmiare vuol dire fare «domanda di lavoro» altrettanto e forse più di quanto non accada consumando. Le 1.000 lire consumate impiegano gli operai che tessono panni o macinano il grano: ma, senza le 1.000 lire risparmiate, industriali tessitori e mugnai non avrebbero potuto fare le provviste di lana o di frumento, o comprare le macchine senza di cui il lavoro sarebbe stato impossibile.

 

 

La quale verità acquista maggior forza in tempo di guerra. Supponiamo vi sia taluno in dubbio se gli convenga acquistare un’automobile ovvero mettere in serbo i denari per la sottoscrizione di cartelle del futuro prestito nazionale. Quali sono le conseguenze delle due diverse maniere di agire? Dannose alla generalità nel primo caso, utili nel secondo. Se egli acquista l’automobile, avrà la scelta fra una marca nazionale od una marca estera. È quasi certo che egli non potrà comperare un ‘automobile nazionale, tutta la produzione interna essendo accaparrata per le necessità militari. Quando vi riuscisse, sarebbe a danno del paese; il quale ha interesse che tutti gli operai ed i capitali dell’industria automobilistica siano impiegati a crescere la resistenza contro il nemico. Egli, aumentando la domanda di maestranze e di materiali così necessari, ne aumenterebbe il prezzo e crescerebbe quindi il costo della guerra per lo stato. Né meno dannoso all’interesse nazionale sarebbe l’acquisto dell’automobile all’estero. Egli dovrebbe pagare all’estero 10 o 20.000 lire e crescerebbe d’altrettanto il debito commerciale dell’Italia verso l’estero. Colla sua azione egli:

 

 

  • impedirebbe all’Italia di acquistare frumento o munizioni da guerra per altrettante somme; ovvero
  • provocando una nuova domanda di divisa estera, farebbe crescere l’aggio dell’oro sulla carta – moneta e contribuirebbe al crescere del prezzo dei cereali, delle carni, delle lane, delle munizioni e di tutte le cose le quali noi dobbiamo comperare all’estero.

 

L’azione di chi compra un’automobile all’estero, come di chi acquista gemme, brillanti, pizzi, vestiti, stoffe di lusso, libri, di cui la lettura è prorogabile, deve dunque essere reputata nociva alla patria. Osservazioni simili si possono fare per i nuovi impianti industriali, edilizi, per i lavori pubblici prorogabili e non ancora iniziati. Crescono, per queste richieste facilmente prorogabili, i prezzi del legname, del ferro, del cemento e di molti altri materiali, di cui il governo ha gran bisogno per le sue occorrenze militari; si distolgono gli operai dall’accorrere a quelle fabbricazioni di panni, di materiali bellici ed a quelle colture dei campi che sono necessarie ed urgenti nel momento attuale. Colui, il quale rinuncia all’acquisto dell’automobile od a qualunque altra spesa, anche di cibo o di vestito, prorogabile od evitabile, compie invece opera utile al paese. Il suo risparmio, consegnato allo stato in cambio di cartelle del prestito nazionale, è dallo stato impiegato forse ugualmente nell’acquisto di automobili o nel riattamento di strade, nell’ampliamento di stazioni ferroviarie o nella costruzione di ponti o di tronchi di ferrovie e quindi è rivolto a richiesta di lavoro nella stessa misura che s’egli consumasse quella somma. Ma le automobili, le stazioni, le opere pubbliche compiute o comprate dal governo servono al fine pubblico della difesa nazionale e non al fine privato di un godimento personale, che nel momento presente è dissolvitore.

 

 

Né è minore il dovere di fare economia per le classi più numerose. Purtroppo, la utilizzazione delle varie sostanze alimentari è imperfettissima nelle masse operaie. Nelle campagne si utilizzano discretamente i rifiuti con l’allevamento di porci, di conigli, di volatili da cortile; ma nelle città si comincia appena adesso a comprendere quali vantaggi si potrebbero ricavare dall’allevamento, anche in piccole proporzioni, di conigli per la produzione della carne e delle pelli. Molta strada potrebbe farsi nelle città altresì con la utilizzazione orticola di tutti gli spazi vacanti, delle aree fabbricabili, che ora non danno alcun frutto a nessuno. Del pari la diffusione di opportune regole di cucina gioverebbe ad insegnare alle madri di famiglia operaie la possibilità di trarre partito da molte sostanze alimentari ora malamente cucinate e di utilizzare gran parte di quelli che sono considerati rifiuti. Si pensi che ogni chilogrammo di farina o di carne consumato in meno o meglio utilizzato è un minor debito del paese, è un prolungamento della nostra capacità di resistenza militare!

 

 

Anche nelle file dell’esercito combattente la campagna per l’economia potrebbe essere feconda di utili risultati. Da lettere ricevute ho ricavato l’impressione che la razione di pane e di carne assegnata ai soldati nella zona di guerra sia in molti casi individuali esuberante. Da un punto di vista generale è bene far così: ma ad evitare sprechi costosi, sarebbe saggio consiglio promuovere tra i soldati l’economia, incoraggiando con opportuni riacquisti l’utilizzazione delle razioni rimaste da consumare.

 

 

Il ritorno della pace sarà accompagnato da uno stato di prosperità economica solo se durante la guerra si sarà diffusa ed accentuata l’abitudine della economia e del risparmio. Ho già altra volta notato come, in tutti i paesi belligeranti, la guerra abbia dato luogo a fenomeni di apparente prosperità economica, dai quali importa non lasciarsi suggestionare. Una parte invero del capitale già risparmiato viene ora mutuata allo stato, il quale la spende di giorno in giorno per la condotta della guerra e la converte così in reddito dei suoi ufficiali, dei suoi soldati, dei suoi fornitori, dei suoi creditori. Ciò che era capitale si trasforma in reddito; e cresce così la quantità delle cose che gli uomini ritengono di potere spendere. Guai a ritenere che sul serio i redditi sieno aumentati permanentemente e sia aumentata la spesa che gli uomini possono fare senza pregiudizio del loro patrimonio! Finita la guerra e finite le spese straordinarie dello stato, i redditi torneranno ad essere quelli di prima. Anzi saranno minori, perché fu consumata una parte del capitale che era stato precedentemente risparmiato e questa parte non può più essere impiegata alla produzione di nuove ricchezze. Fa d’uopo perciò, se non si vuole che il benessere generale scemi al ritorno della pace, che durante la guerra si cerchi di fare la maggiore economia possibile, in guisa da ricostituire i risparmi distrutti per la condotta della guerra. Supponiamo che la guerra costi all’Italia 6 miliardi di lire. Una parte di questi 6 miliardi sarà coperta con i redditi dell’anno, i quali, invece di alimentare operai, contadini, redditieri, alimenteranno soldati, ufficiali, lavoratori nelle fabbriche di munizioni. Una parte sarà prelevata però sul capitale già esistente; ed e questa parte che occorre ricostituire con nuovo risparmio, affinché alla fine della guerra le banche e le casse di risparmio non si trovino nella impossibilità di soddisfare le richieste degli industriali, commercianti, agricoltori bisognosi di capitale circolante.

 

 

Per fortuna, il rialzo nel saggio dell’interesse, cagionato dalle fortissime richieste di somme a mutuo da parte degli stati belligeranti, incoraggia a risparmiare di più. Non forse tutti i risparmiatori, ma certamente parecchi di essi sono maggiormente spinti a risparmiare quando sperano di ottenere un interesse del 5%, piuttostoché solo del 3,50%. È questa una delle principali ragioni per cui i mali cagionati dalle guerre del passato si sono curati più rapidamente di quanto non prevedessero i pessimisti. Nel mondo economico molte malattie provocano il proprio rimedio. Grazie al rialzo del saggio dell’interesse, il risparmio, invece di limitarsi ad un miliardo all’anno, cresce ad uno e mezzo e forse due; sicché in breve volgere di anni le ferite della guerra sono rimarginate. Gli uomini si sono stretti un po’ la cintola, hanno cambiato meno frequentemente vestiti e calzari, si sono divertiti di meno ed hanno risparmiato di più. Il ritorno ad abitudini più frugali di vita non deve però essere considerato soltanto una «dolorosa» necessità. Sotto molti rispetti esso è un beneficio economico e morale. Importa persuaderci che, risparmiando noi non compiamo solo un atto necessario ed economicamente vantaggioso. Così operando, noi adempiamo ad un dovere verso la patria e contribuiamo al perfezionamento morale delle future generazioni.

 

 

VI

Una verità la quale mi sembra non abbastanza penetrata nella pubblica coscienza è questa: che tanto più è probabile la guerra abbia ad avere un esito favorevole per noi, quanto meno noi faremo a fidanza sulle disgrazie dei nemici e quanto più invece attenderemo il successo dai nostri soli sforzi. Formalmente, al sommo della bocca, noi accettiamo questa verità; ma troppo spesso vi contravveniamo coi desideri e coi fatti.

 

 

Pur limitandomi a un solo punto, quello dei consumi, nulla vi è di più illogico del paragone ottimista, che così spesso si legge sui giornali, fra la carestia e la ristrettezza degli alimenti notate nei paesi austro tedeschi e la relativa abbondanza che si osserva con compiacenza nei paesi dell’Intesa. Certamente, governi e stati maggiori debbono scrupolosamente tener conto di tutti gli indici conosciuti e bene assodati intorno alle condizioni economiche dei paesi nemici. Certamente, anche, non si deve negare, perché sarebbe contrario al vero, che la inopia alimentare può essere causa di malcontento in alcuni strati delle popolazioni germaniche è quindi fattore di vantaggio per noi. Ma non bisogna dimenticare che la consapevole rinuncia ai consumi non strettamente necessari, la riduzione delle spese di alimento, di vestito, di divertimento è un fattore inestimabile di resistenza economica e bellica. Il razionamento del pane, della farina, delle carni, del latte, del grasso, le restrizioni nella produzione della birra e nell’impiego delle patate, l’uso di cibi inferiori, come il pane Kappa, non giovarono in Germania soltanto a far bastare alle esigenze della popolazione raccolti che in media pare siano stati nel 1915 scarsi, ma produssero altri risultati purtroppo grandemente utili ai nostri nemici:

 

 

  • 1) resero disponibili per l’esercito masse di alimenti, non solo sufficienti al suo sostentamento, ma di qualità migliore di quella concessa alla popolazione civile;
  • 2) resero disponibili per la fabbricazione di armi e di munizioni gli impianti industriali, prima rivolti a fabbriche merci d’esportazione, con cui si compravano all’estero alimenti ed oggetti, a cui oggi è giocoforza ai tedeschi rinunciare;
  • 3) diminuendo gli acquisti all’estero, grazie alla carestia volontaria o forzata, i paesi centrali scemarono i loro pagamenti verso l’estero, e poterono conservare abbastanza elevato per lungo tempo il valore del loro marco. Non è possibile negare che il blocco inglese, necessario ed utile per tutte le materie belliche, produsse per le altre merci effetti contrari a quelli desiderati dall’Intesa. Meglio sarebbe stato se fosse stata permessa liberamente la importazione nella Germania di tutte le merci non attinenti alla guerra, si da consentire ai tedeschi di spendere come prima.

 

 

Il blocco inglese costrinse le popolazioni tedesche a risparmiare e fu una delle cause per cui il marco tedesco fino al settembre del 1915 perdeva solo l’11 per cento sulla Svizzera. Se la perdita in seguito si accentuò e giunge ora al 25 per cento, una delle cause – che sono parecchie e sarebbe qui fuor di luogo discorrerle tutte – sembra sia stata una più accorta politica del blocco inglese, la quale lasciò infiltrare in Germania merci inutili alla condotta della guerra, ma utili a costituire in debito i consumatori tedeschi. Purtroppo, però, tale causa di scredito agisce stentatamente, e già il governo tedesco corre ai ripari proibendo l’entrata di parecchie merci che riuscivano a passare attraverso le maglie accortamente allargate del blocco inglese;

 

 

  • 4) costrinsero i consumatori tedeschi al risparmio. Anche in Germania e in Austria, a quel che si può sapere da fonti attendibili, la guerra produsse risultati identici a quelli osservati negli altri paesi belligeranti: ossia l’aumento nei redditi di larghissime classi della popolazione. Fornitori, agricoltori, operai, famiglie di richiamati vendettero i loro prodotti a più alto prezzo ed ottennero salari più elevati o cumularono sussidi pubblici con salari nuovi (per le donne, i ragazzi, gli attempati) o cresciuti. E poiché, a causa del razionamento, non poterono spendere in cibi il maggior guadagno, né l’aumento dei prezzi riuscì ad assorbirlo tutto, una parte notevole dei maggiori redditi trovò la via delle casse di risparmio e dei prestiti allo Stato. Citerò questo solo fatto, il quale e da ritenersi sicuro: che mentre in tempo di pace l’aumento normale dei depositi nelle casse di risparmio tedesche era di 1200 milioni di marchi, raggiunse invece i 3185 milioni nei primi 12 mesi dopo lo scoppio della guerra. Senza volere menomamente risolvere il quesito della genuinità dei prestiti – tedeschi intorno a cui nulla di serio può dirsi per il difetto di notizie – certa cosa è che essi sono genuini almeno fino a concorrenza delle sottoscrizioni dei depositanti delle casse di risparmio. Ed a questo risultato contribuirono la carestia, la restrizione volontaria e forzata dei consumi e il razionamento.

 

 

Con le quali osservazioni non si vuole affermare che i popoli dell’Intesa siano in una situazione inferiore a quella dei tedeschi. No. Si vuol dire soltanto che anche noi dobbiamo predicare ed attuare il medesimo vangelo della rinuncia e dell’astinenza. L’impressione mia è che siffatto vangelo sia praticato da una larga maggioranza in Francia ed in Italia, e da una minoranza influente in Inghilterra; ma che purtroppo la maggioranza della popolazione inglese e ragguardevoli minoranze francesi ed italiane non abbiano ancora la consapevolezza dei loro doveri verso il paese. Ecco un quadro delle importazioni ed esportazioni di merci nei tre paesi nel 1915 (in milioni di lire italiane, al pari del cambio: 1 franco = 1 lira, 1 lira sterlina = 25,22):

 

 

  Importazioni al netto delle riesportazioni Esportazioni Sbilancio commerciale
Italia

3.331,5

2.216,4

1.115,1

Francia

8.074,5

3.022,3

5.052,2

Inghilterra

19.040,1

9.700,8

9,339,3

 

 

Notisi che nella cifra delle importazioni inglesi non sono comprese le merci che il governo britannico importò per conto dei suoi eserciti o degli eserciti alleati; sicché lo sbilancio reale risulta forse di qualche miliardo maggiore dei 9 miliardi e ⅓ denunciati dalla statistica. Così pure lo sbilancio italiano probabilmente è maggiore dei 1.115 milioni sopradetti, poiché le statistiche italiane sono ancora basate sui prezzi del 1914; mentre nel 1915 i prezzi aumentarono grandemente e, per la maggior importanza loro, crebbero di più i valori importati che gli esportati.

 

 

Questi sbilanci non avevano nulla di preoccupante in tempo di pace; poiché l’Italia vi faceva fronte con le rimesse degli emigranti e le spese dei forestieri viaggianti a diporto nel regno; la Francia possedeva gran copia di capitali investiti all’estero, da cui ritraeva interessi; e l’Inghilterra, oltreché da questa fonte, ritraeva redditi copiosi dalla sua marina mercantile.

 

 

Scoppiata la guerra, il disavanzo è cresciuto: in Italia da 1.000 milioni circa a forse più di 1300 (reali); in Francia da 1500 a 5.000 indicati sopra; in Inghilterra da 3.500 a 9.500 e forse ad 11.000 milioni di lire italiane. E, mentre il disavanzo commerciale cresceva grandemente, le fonti di compensazione diminuivano: in Italia per la cessazione quasi assoluta delle rimesse degli emigranti e dei forestieri; in Francia per le sospensioni dei pagamenti di interessi e dividendi da parte dei paesi nemici, in cui il capitale francese era interessato, per le proroghe consentite alla Russia e per le moratorie sudamericane; in Inghilterra per le medesime ragioni riguardo ai capitali investiti all’estero. Crebbero i noli a favore della marina mercantile inglese; ma l’aumento dei noli reale fu di gran lunga minore di quello apparente, a cagione: 1) delle fortissime requisizioni da parte del governo inglese; 2) dei contratti a lunga scadenza a noli miti; 3) degli affondamenti per mine e torpedini. Dati sicuri non si hanno; ma si può affermare con minimo rischio di errore che la messe più opima di noli alti fu goduta in passato e sarà ancor più goduta in avvenire dalle bandiere neutrali, e che la parte di guadagno toccata all’Inghilterra, sebbene ragguardevole, è di gran lunga insufficiente a colmare il cresciuto deficit della bilancia commerciale.

 

 

Tutto ciò è rimasto ignoto agli scrittori di argomenti economici sui giornali quotidiani del nostro paese; intorno ai quali tutto è detto quando si osserva che essi hanno inconsapevolmente contribuito a gettare una passeggiera nube nei rapporti tra Italia ed Inghilterra, per il vizio incoercibile di discorrere sovratutto di quella parte dello scibile umano, su cui farebbe ad essi d’uopo apporre la scritta: hic sunt leones. Chi si attenderebbe a discorrere di fisica e di chimica senza conoscerne i primi principi? Eppure di cose economiche discorrono – e non solo in Italia, poiché non senza dolore si veggono divulgatissimi quotidiani inglesi gareggiare in analfabetismo economico con i nostri – specialmente coloro che ne sono affatto digiuni. Eppure, ancora, la principale differenza che vi è tra la fisica e la chimica da un lato e la economia politica dall’altro è questa: che l’economia è scienza più ardua, più complessa, più in via di formazione delle altre scienze; ed i problemi economici, per la loro apparenza semplice e sentimentale, sono a mille doppi più ingannevoli dei problemi fisici e chimici, e richieggono più lungo e ferrato tirocinio logico ed esperienza pratica nell’affrontarli.

 

 

Poiché gli antichi metodi di colmare il disavanzo commerciale non giovano, come possono gli alleati provvedere alla soluzione del problema? In parte coi debiti esteri, grazie ai quali viene prorogato a qualche anno dopo la fine della guerra il pagamento delle merci che ora si acquistano. Ma, ove si faccia astrazione dai prestiti interni tra Italia, Francia, Inghilterra (e Russia), i quali non risolvono il problema, ma solo accollano l’onere della soluzione al più potente (finanziariamente degli alleati, ossia all’Inghilterra, è chiaro che i prestiti si possono unicamente chiedere agli Stati Uniti. I quali sono bensì un paese ricco, ma per molte ragioni sono incapaci a fare nulla più che una quantità limitata di prestiti all’Europa. Sia che si tratti di vendere agli Stati Uniti titoli di debito pubblico europei, sia che si vogliano rivendere loro i titoli nordamericani posseduti da inglesi e francesi, ad un certo momento si incontra un limite alla capacità di assorbimento del mercato nordamericano. I prestiti esteri sono una soluzione, ma una soluzione incompiuta.

 

 

Di qui la necessità e l’urgenza di fare per atto spontaneo di volontà ciò che i tedeschi fecero anche costretti dalla necessità: ossia restringere i consumi.

 

 

Quanto meno la popolazione civile acquisterà di merci e derrate provenienti dall’estero, tanto minore sarà il residuo debito che dovremo pagare. Quanto meno consumeremo altresì dei prodotti nazionali, tanto maggiore sarà la quota parte di questi che rimarrà disponibile per il consumo dell’esercito, e tanto minore l’indebitamento del paese verso l’estero per procacciare gli alimenti e le provviste indispensabili all’esercito. I cittadini italiani pensino che essi hanno il dovere strettissimo di ridurre la razione del pane, di mangiare carne una volta sola al giorno o solo alcuni giorni della settimana, di far rammendare i vestiti, rattoppare le scarpe. I contadini pensino che essi devono, potendo, far mangiare paglia e alimenti di scarto al loro bestiame per avere disponibile foraggio buono da vendere all’intendenza militare. Solo con l’astinenza e col risparmio potremo noi vincere la dura lotta che ci sovrasta.

 

 

Adempiono tutte le classi sociali all’adempimento di questo dovere verso il paese? Gli inglesi, con la ammirabile sincerità di linguaggio e libertà di discussione che è loro caratteristica, hanno cominciato a recitare il mea culpa. Ecco come il radicale Daily Chronicle di Londra dipinge la mania di spendere delle classi e delle masse nel momento presente in Inghilterra: «I teatri sono affollati di spettatori. I cinematografi sono ricolmi. Le strade di campagna sono coperte da una processione di automobili di piacere, spesso guidati da conduttori e da servitori in livrea. Molte botteghe hanno avuto una settimana di Natale quale non ebbero mai, e corrono per la bocca della gente racconti disgustanti di collane di perle di brillanti, pellicce e pianoforti, in cui gli operai si affrettarono ad investire i loro guadagni, la prima volta che a loro capitò la ventura di lucrare qualcosa oltre l’occorrente per le prime necessità della vita. Alcuni pochi risparmiano assai; ma sono quasi tutti gente i cui redditi sono diminuiti o rimasti stazionari». E mentre così spendono i loro redditi, i buoni da una lira sterlina offerti dal tesoro agli operai al 5% rimangono senza acquisitori. Di qui il grido d’allarme lanciato in Inghilterra da coloro che guardano con riflessione alle sorti del proprio paese: spendete di meno, e risparmiate di più!

 

 

Sebbene la popolazione italiana abbia, almeno nelle campagne e nelle classi medie cittadine, tendenze risparmiatrici, pure anche in Italia non è inutile gittare lo stesso grido di allarme, che vuole sovratutto essere un grido di vittoria. Anche in Italia vi è una minoranza che non ha il senso del proprio dovere. Nelle città non ho mai visto le tramvie così affollate di gente, la quale prima usava andare a piedi. Troppi cinematografi e troppi teatri sono rigurgitanti di pubblico; troppo numerosi sono i frequentatori di caffè, dei ristoranti e delle osterie. Troppi negozi di cose inutili fanno buoni affari. Troppe automobili private si vedono in giro; e ancora le signore rinnovano ad ogni stagione i loro vestiti, mentre dovrebbero essere orgogliose di farsi vedere con i vestiti di qualche anno fa, o tutt’al più dovrebbero farli raccomodare, senza impiego di alcun nuovo materiale.

 

 

È necessario ed è doveroso ricordare ancora una volta che coloro, i quali così operano inconsapevolmente tradiscono la patria.

 

 

VII

Il ministro del tesoro ha molto opportunamente nel suo ultimo discorso finanziario ricordato agli italiani il dovere del risparmio. In un momento in cui tutte le forze del paese debbono essere indirizzate alla condotta della guerra, il dovere del risparmio diventa più imperioso del solito e deve essere vivamente sentito da ogni ordine di cittadini.

 

 

Già in tempo di pace tra spesa e risparmio bisogna mantenere un ragionevole equilibrio, che il buon senso, le condizioni familiari, l’età, la natura dell’impiego, il patrimonio posseduto insegnano come debba essere conseguito.

 

 

Fra le ragioni, le quali inducono piuttosto a spendere che a risparmiare, non deve aver luogo il desiderio di «dar lavoro», di «far girare il denaro» e simiglianti spropositi. Chi porta 100 lire alla cassa di risparmio è altrettanto ed anzi più benemerito verso gli operai, il commercio e l’industria, di colui il quale spende le 100 lire in acquisti nei negozi. Questi fa domanda di un vestito e quindi fornisce l’occasione per fabbricarlo; sicché dicesi che egli dia da vivere a sarti, negozianti e fabbricanti di panni, operai tessitori e filatori. Ma, se il primo non avesse recato le 100 lire alla cassa od alla banca e questa non avesse potuto far prestiti ai fabbricanti o scontato le cambiali del negoziante, e se i fabbricanti e negozianti non avessero risparmiato essi medesimi parte del capitale occorrente, come si sarebbero potuti costruire gli stabilimenti, comprare le macchine e le materie prime, anticipare i salari agli operai?

 

 

In tempo di guerra, la necessità del risparmio diventa chiarissima anche ai meno veggenti e la sua importanza per la vittoria ingigantisce. Se Tizio spende 100 lire in un vestito, invece di far durare il vestito vecchio più a lungo, egli reca parecchi danni al paese:

 

 

  • lo stato non ha 100 lire che Tizio avrebbe potuto fornirgli a mutuo, sottoscrivendo ai prestiti nazionali ed ora ai buoni del tesoro; e quindi non può provvedere ad un uguale ammontare di spese di guerra;
  • i fabbricanti di panni, i negozianti ed i sarti sono occupati a fornire vestiti a Tizio od a Tizia, mentre avrebbero potuto rivolgere le loro energie a fabbricare panni e vestiti per l’esercito.

 

 

Tutto ciò è stato detto e ripetuto oramai a sazietà. Sebbene persuasive, queste verità lasciano tuttavia, importa riconoscerlo, adito a dubbi di applicazione. Molti debbono rimanere incerti dinanzi alla domanda: debbo spendere o comperare un buono del tesoro? In generale il dubbio si deve risolvere nel senso del buono del tesoro. Se si sbaglierà, l’errore sarà piccolo; mentre può essere grave, quando ci si decida a spendere.

 

 

I dubbi degni di nota sono quelli posti da coloro che vorrebbero risparmiare; ma, non avendo il coraggio di tagliare radicalmente a fondo e sul vivo, non sanno da che parte cominciare. Su dieci capitoli di spesa, quale il capitolo su cui conviene tagliare prima? Se noi supponiamo che si voglia fare la scelta delle spese da tralasciare avendo l’occhio all’interesse pubblico, ecco alcuni suggerimenti:

 

 

  • a parità di somma, rinunciare al consumo della merce esente da imposta, piuttostoché della merce tassata. Chi rinuncia al consumo di 1 chilogrammo di zucchero, del costo di lire 1,70, e deposita la somma risparmiata sul libretto della cassa postale di risparmio, fa, è vero, allo stato un prestito di 1,70; ma non reca allo stato un vantaggio di 1,70, poiché lo stato avrebbe sullo zucchero riscosso una imposta di 81 centesimi. Il vero nuovo contributo recato dal risparmiatore alla condotta della guerra è perciò solo di 89 centesimi. Lo stesso accade per il tabacco, per cui il risparmio di 1 lira arreca allo stato solo il beneficio di 20 centesimi, essendo tutto il resto imposta; per il sale, di cui forse 45 sui 50 centesimi di prezzo sono imposta. Diminuire di 1 chilogrammo il proprio consumo di sale recherebbe allo stato solo il vantaggio di 5 centesimi. Poiché le merci tassate a beneficio dello stato sono poche (sale, tabacco, spiriti, vino, birra, zucchero, glucosio, caffè e suoi surrogati, petrolio, fiammiferi, gas luce ed energia elettrica illuminante) e per le altre le imposte solo in piccola parte vanno a favore dello stato (per le carni a favore dei comuni nelle città chiuse), il consumatore può vedere quante merci vi sono che egli può con tutta sicurezza evitare di comperare, senza timore di recare allo stato il danno di esigere minori imposte. Citerò il caso degli oggetti di vestiario, di mobilio e d’ornamento, per cui tutto il risparmio si può dire guadagno netto per lo stato.
  • preferire negli acquisti la merce antica alla merce nuova. Se una signora acquista un pizzo antico reca danno allo stato perché le 1.000 lire spese sarebbero certamente state meglio impiegate nell’acquisto di un buono del tesoro. Ma il danno può scomparire se il buono è acquistato, in vece sua, dal venditore del pizzo antico. Forse è bene che le 1.000 lire passino dalla borsa di una testa sventata in quella del venditore, che può essere persona meglio consapevole dell’importanza del risparmio. Alla peggio, le 1.000 lire saranno spese dal venditore del pizzo così come lo sarebbero state altrimenti dalla compratrice. Se questa invece compra un pizzo nuovo, non solo essa reca danno allo stato negandogli il prestito delle 1.000 lire, ma cagiona inoltre forse un danno maggiore, inducendo alcune lavoratrici a perdere tempo nel fabbricarle il pizzo, mentre avrebbero potuto essere utilizzate dallo stato nella confezione di vestiti, camicie, calze per soldati. Salvo i rari casi di ricamatrici assolutamente incapaci a far altro, è sempre possibile spostare il lavoro da un impiego all’altro.

 

 

Per lo stesso motivo, chi abbia assoluta necessità di qualche oggetto, farà bene a comprare oggetti usati d’occasione, evitando di comprare oggetti nuovi. I primi non richieggono mano d’opera; mentre i secondi distolgono maestranze e capitali dagli unici lavori importanti oggi, che sono le industrie di guerra e quelle necessarie a far vivere nella maniera più semplice la popolazione civile;

 

 

  • evitare di servirsi dell’opera di chi può essere utile allo stato. Non v’è nessun male che il ricco seguiti a valersi dell’opera dei domestici, giardinieri, governanti, purché anziani o vecchi ed inabili a compiere altri lavori. Licenziare costoro o non pagare più l’assegno ai servitori a riposo sarebbe una crudeltà inutile, e probabilmente dannosa allo stato ed ai comuni, i quali dovrebbero caricarsi di spese per il mantenimento degli indigenti. Il ricco invece deve licenziare l’autiere giovane, diminuire il numero dei domestici in buona salute, evitare di costruire ville, di comprare automobili, ecc. ecc. Infatti, le persone, ai cui servizi egli così rinuncia, saranno costrette ad occuparsi in qualità di meccanici o manovali in stabilimenti dove si producono cose molto più utili al paese nel momento presente.

 

 

Altri consigli ed altri esempi si potrebbero addurre, se le necessità di guerra non avessero, con vantaggio generale, costretto le amministrazioni dei giornali a ridurre il consumo della carta e quindi lo spazio disponibile per tutto ciò che non è notizia strettamente necessaria.

 

 

Il rialzo del prezzo della carta ha risolto qui spontaneamente i dubbi che in altri campi continuano a manifestarsi. Ricorderò ancora, prima di finire, il caso dei teatri, cinematografi, luoghi di danza e di divertimento.

 

 

A favore di questo genere di spesa si può dire che attori, artisti, cantanti, ballerine, musicanti non sono adatti a fare altri mestieri, sicché, se il pubblico disertasse i luoghi di divertimento e risparmiasse, per ipotesi, 100 milioni di lire di più in un dato periodo di tempo, investendoli in buoni del tesoro, lo stato da un lato incasserebbe 100 milioni, ma dall’altro dovrebbe spendere cospicue somme, o le dovrebbero spendere, il che fa lo stesso, le istituzioni pubbliche di carità, per mantenere tutta una folla di disoccupati.

 

 

Qualcosa di vero v’è in questa tesi. Bandire tutti i divertimenti, anche in tempo di guerra è eccessivo ed è forse dannoso alla condotta della guerra. In quanto i divertimenti offrono una distrazione a soldati ed ufficiali, nessuno vi trova da ridire. Possono anche essere utili ad offrire un sollievo sano alla popolazione civile e renderla più contenta ed atta al lavoro dell’indomani. La domanda ragionevole di divertimenti sarà perciò in grado di assorbire quelli che hanno veramente attitudini specifiche, insostituibili ed inutilizzabili altrimenti. Quanto agli altri, la domanda affannosa di lavoratori nelle industrie necessarie alla prosecuzione vittoriosa della guerra basterà ad assorbirli con vantaggio del paese.

 

 

VIII

In una classe di persone, la terza sottoscrizione milanese per le famiglie dei richiamati e per altre istituzioni di soccorso di guerra deve trovare un’accoglienza singolarmente alta e larga: in quella degli industriali e delle società, le quali sono o saranno elencate nel ruolo della imposta sui sopraprofitti di guerra. Al dovere di tutti gli altri cittadini, di venire in aiuto delle famiglie dei richiamati e di tutti gli altri dolori che sono connessi con lo stato di guerra, si aggiunge per questa particolare categoria di cittadini un dovere specialissimo derivante dalla circostanza che la guerra ha recato ad essi un beneficio economico. Sia il beneficio dovuto ad uno di quei tratti di fortuna che sono inseparabili da ogni grande commovimento storico, o sia dovuto alla abilità all’ardimento ed al lavoro pertinace, una cosa è certa: che essi escono dalla guerra in condizioni economiche migliori di prima.

 

 

Ma noi, possono costoro rispondere, già paghiamo un tributo speciale, il quale va sino al 60% del sopraprofitto realizzato ed anzi a percentuale maggiore se si tiene conto della imposta ordinaria di ricchezza mobile.

 

 

Questa è anzi una ragione, che alle altre si aggiunge per spingerli a trovarsi primissimi nella nobile gara della solidarietà. Ed invero le sottoscrizioni ai comitati di assistenza civile in occasione della guerra sono considerate come una spesa e detratte dal reddito lordo del contribuente. Il che vuol dire che, se il soprareddito di guerra tassabile fu di 100.000 lire ed il contribuente delibera di concorrere alla pubblica sottoscrizione per 10.000 lire, il reddito tassabile si riduce a 90.000 lire. Il che è giusto e corretto, poiché non sarebbe equo colpire come reddito le somme destinate ad opere di solidarietà sociale, che per il contribuente sono perdute. Ma ciò vuol dire altresì che, delle 10.000 lire sottoscritte, il contribuente avrebbe ad ogni modo dovuto pagare al fisco una buona parte, da 2000 a 6700 lire, a seconda della importanza del sovrareddito, a titolo di imposta. Quindi egli in realtà, sottoscrivendo per 10.000 lire, sopporta un sacrificio minore dell’apparente, il quale al massimo è di 8000 lire e può anche essere solo di 3300 lire.

 

 

Di qui nasce il dovere nel cittadino che ha ottenuto un sopraprofitto di guerra di sottoscrivere una somma doppia ed anche tripla dei cittadini, i quali non ebbero tanta fortuna. Se egli non sottoscrive il doppio od il triplo, in realtà offre di meno degli altri; e l’opinione pubblica dovrà severamente giudicare la sua condotta.

 

 

Notisi ancora che l’ultimo decreto sulla tassazione dei sopraprofitti ha ragionevolmente riparato a talune asperità delle prime norme relative a questa materia, sovratutto consentendo di detrarre dal reddito lordo le somme necessarie per ammortizzare in via straordinaria gli impianti compiuti in occasione della guerra. Anche questo è un concetto corretto; ma fa d’uopo che gli industriali e le società non dimentichino che in tal modo i nuovi impianti sono stati incoraggiati dalla esenzione concessa rispetto all’imposta sui sopraprofitti. Or vi sono impianti materiali che si logorano e devono essere ammortizzati, e vi sono impianti od opere morali e spirituali le quali giovano a rinsaldare i vincoli di solidarietà fra le classi sociali. Si costruisca, occorrendo, un po’ meno o con meno larghezza, se ciò sia compatibile con l’efficienza della produzione bellica; ed il risparmio si dia alla sottoscrizione. Si rifletta che forse non tutti gli impianti ammortizzati e calcolati in spesa, e quindi esenti dall’imposta, saranno distrutti alla fine della guerra; e si dia alla sottoscrizione una parte di ciò che, reputato oggi distrutto, si può ragionevolmente sperare sia conservato alla fine della guerra.

 

 

Un’ultima osservazione importa fare: l’imposta sui sopraprofitti colpisce gli industriali, i commercianti e gli intermediari. Non tocca i professionisti ed i proprietari di terreni. Non pochi di costoro sono stati danneggiati dalla guerra; altri non furono avvantaggiati. Ma indubbiamente alcuni hanno tratto giovamento da cause o clientele più ricche e da prezzi migliori, non assorbiti del tutto dalle maggiori spese. Anche su di essi l’occhio della pubblica opinione dovrà vigilare. Molti sono i professionisti, specialmente giovani, che hanno visto troncata la loro promettente carriera dall’appello alle armi. Il dovere di venire in aiuto alle strettezze forse ignorate e timide delle loro famiglie spetta a quei colleghi che la sorte ha favorito. Il legislatore non volle colpirli con l’imposta sui sopraprofitti perché trattavasi di redditi incerti di lavoro.

 

 

Ma dove il fisco non giunge, deve arrivare la spinta della carità.

 

 

IX

Fiducia e resistenza: questa deve essere la parola d’ordine di tutti gli italiani nel momento presente. Di sentirsi sostenuti dalla volontà concorde di tutti hanno bisogno non soltanto gli eserciti in campo per guardare in faccia il nemico: ne hanno bisogno anche le popolazioni le quali si trovano più vicine al teatro della guerra. I forti abitanti delle regioni friulane e venete sappiano che l’Italia intera è con essi solidale e che a nessun sacrificio essa si sottrarrà nell’ora del pericolo. D’altra parte è dovere delle popolazioni, le quali sentono il rombo del cannone a difesa del suolo della patria, di non rendere più difficile il compito di chi deve provvedere a serbare intatto il ritmo della vita civile ed economica del paese. Qualche episodio – rarissimo d’altro canto, ché la fermezza d’animo degli abitanti delle regioni di confine non si smentisce nemmeno nelle ore tragiche – di ritiro di depositi dalle banche e dalle casse di risparmio richiede tuttavia una parola aperta di incitamento e di consiglio.

 

 

È necessario che l’episodio sporadico non si tramuti in una corsa generale ai ritiri dei depositi bancari e che il pubblico serbi inalterata la fiducia. Lo esige l’interesse del paese, lo consiglia l’interesse dei singoli. Se l’episodio si generalizzasse, se si tramutasse in panico i primi ad esserne danneggiati sarebbero i depositanti. Le banche e le casse di risparmio dovrebbero sospendere i rimborsi e il danno sarebbe inenarrabile. Se i depositanti, invece, conservano l’animo freddo e fiducioso, essi danno modo alle banche e alle casse di risparmio di provvedere anche alle eventualità, che tuttavia abbiamo ferma fede non si verificheranno mai, di dolorosi parziali abbandoni di territorio imposti da esigenze strategiche.

 

 

Con quali mezzi infatti una cassa di risparmio può far fronte al rimborso dei depositi col realizzo delle sue attività – cambiali di portafoglio, titoli, crediti – per mezzo di vendite e di risconti. Ma se tutti, sospinti da un panico ingiustificato, si affollano agli sportelli delle banche per chiedere il rimborso dei depositi, come può la banca o la cassa vendere in furia i suoi titoli, riscontare le cambiali e procurarsi le disponibilità? Anche la cassa più solida rischia di subire perdite fortissime e di non poter far fronte ai suoi impegni.

 

 

Se invece i depositanti conservano il loro sangue freddo, essi non corrono alcun pericolo e non lo fanno correre alla cassa in cui finora giustamente hanno riposto la loro fiducia. Se davvero, per ipotesi che fermamente crediamo non debba verificarsi, qualche altro borgo o qualche altra città dovesse essere sgombrata, già prima le banche o casse, che ivi hanno sedi o succursali, avranno provveduto a mettere in salvo portafoglio, titoli, documenti, riserve monetarie, tutto quanto insomma fa d’uopo e basta per provvedere alle domande di rimborso. Tutti i provvedimenti necessari sono indubbiamente stati presi. Fra le banche e le casse delle regioni friulane e venete e le banche e casse delle altre regioni d’Italia esistono già accordi per scambio di reciproci servizi ed assistenza. Gli accordi certamente saranno ora perfezionati in guisa da parare ad ogni eventualità. Il possessore d’un libretto di conto corrente o di risparmio per una qualunque banca o cassa deve trovar modo di ritirare i suoi depositi in altre città italiane, presso i corrispondenti dell’istituto di sua fiducia. Sono certo che lo Stringher, figlio egli stesso del nobile Friuli, ha già provveduto con paterna cura a dare tutto il sussidio della Banca d’Italia affinché il trapasso dei fondi da luogo a luogo si compia con la maggiore facilità.

 

 

Il panico nuocerebbe, dunque, ai depositanti medesimi; mentre la calma assicura che i sudati risparmi non subiscono alcun deprezzamento. La cosa deve essere guardata ancora da un altro punto di vista. Che cosa ricevono i depositanti quando si presentano agli sportelli della cassa a chiedere i rimborsi dei loro crediti? Biglietti di banca o biglietti di stato. Non oro, dunque, ma biglietti, ossia altri titoli di credito verso altre banche o verso le casse dello stato. Lasciandosi prendere da un senso ingiustificato di ansia, essi però in sostanza trasferiscono soltanto la loro fiducia dall’una all’altra banca, dall’una all’altra cassa. Così facendo, essi provocano vendite affrettate di titoli, deprezzamenti, costringono la Banca d’Italia e lo stato a emettere biglietti in più dell’indispensabile; e finiscono per un altro verso per danneggiare se stessi, contribuendo all’ abbondanza, e quindi al deprezzamento della carta-moneta e al rialzo del prezzo di tutte le cose necessarie alla vita. È certo che la Banca d’Italia e il tesoro dello stato, pur di evitare tutti questi danni, hanno già presi e intensificheranno tutti i provvedimenti che valgano a consentire alle banche e casse friulane e venete di rimborsare i propri depositi nelle altre città d’Italia.

 

 

La calma, che sinora è stata superbamente mantenuta di fronte alla invasione nemica, sarà serbata, dunque, anche nelle cose economiche, nei momenti di prova cui andiamo incontro, e sarà una calma la quale dimostrerà che le popolazioni venete e friulane, primissime tra le italiane nella cooperazione di credito, sanno che la salvezza di ognuno e di tutti sta nel tenersi stretti e fiduciosi attorno agli istituti e alle forze per cui l’Italia è divenuta degna di toccare un alto segno di civiltà economica e sociale.

 

 

 



[1] Con il titolo L’ora del dovere. Il decalogo economico degli Italiani. [ndr]

[2] Con il titolo Il dovere degli italiani nel presente momento economico.Tradotto in francese nello stesso anno Con il titolo Le devoir des Italiens dans le moment présent, in: Voix italiennes sur la guerre 1914-1915, Paris, Berger – Nancy, Levrault, 1915, pp. 37-38 («Pages d’histoire 1914-1915», n. 74). [ndr]

[3] Con il titolo Il dovere della fiducia. [ndr]

[4] Con il titolo Guerra, economia nazionale e lavori pubblici. (A proposito di un annuario economico). [ndr]

[5] Con il titolo, Il dovere dell’economia. [ndr]

[6] Con il titolo Le vie del risparmio. [ndr]

[7] Con il titolo Gli extraprofitti e la sottoscrizione milanese.[ndr]

[8] Con il titolo I depositi nelle Banche e nelle Casse di risparmio. [ndr]

[9] Con il titolo Primo: non consumare. [ndr]

[10] Parzialmente ripubblicato in Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 31-38; 192-202; 360-364; 579-581.

[11] L’Italia economica nel 1914. Anno IV. (Casa Editrice S. Lapi, Città di Castello, un vol. di pagg. XVI 314 Presso L. 4). L’Annuario è dato ogni anno in dono a tutti gli abbonati alla Rivista La Riforma Sociale (F.lli Treves, editori, Milano; abbonamento annuo L. 30), sotto il cui patronato la pubblicazione è compiuta.

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