Opera Omnia Luigi Einaudi

Sull’economia di mercato, introduzione alla politica sociale

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1949

Sull’economia di mercato, introduzione alla politica sociale[1]

Lezioni di politica sociale, Einaudi, Torino, 1949, pp. 3-36

 

 

 

 

1. Che cosa è un mercato.

 

Siete mai stati in un borgo di campagna in un giorno di fiera? In mezzo al chiasso dei ragazzi, alle gomitate dei contadini e delle contadine le quali vogliono avvicinarsi al banco dove sono le stoffe, i vestiti, le scarpe ecc. da osservare, confrontare, toccare con mano ed alle grida dei venditori, i quali vi vogliono persuadere che la loro roba è la migliore di tutte, la sola che fa una gran bella figura quando l’avete addosso, la sola che vi farà prima infastidire voi di portarla che essa di essere frustata, quella che è un vero regalo in confronto al poco denaro che dovete spendere per acquistarla? Quella fiera è un mercato, ossia un luogo dove, a giorno fisso e noto per gran cerchia di paesi intorno, convengono a centinaia i camion, carri ed i carretti dei venditori carichi delle merci, delle cose più diverse, dai vestiti alle scarpe, dalle casseruole da cucina ai vomeri per l’aratro, dalle lenzuola alle federe, dalle cianfrusaglie per i ragazzi ai doni alla fidanzata per le nozze. Sulla fiera si offre di tutto; e ci sono sempre molti che offrono la stessa cosa. E sulla fiera convengono da ogni parte, da gran cerchia di villaggi e di casolari posti attorno al grosso borgo, dove ci sono piazze ed osterie atte ad ospitare e dare da mangiare a tanta gente, migliaia, moltitudini di compratori, desiderosi di rifornirsi delle cose che ad essi mancano. Specialmente nella fiera di pasqua e in quella dei santi l’afflusso dei compratori e dei venditori è grande. Arrivano a torme i compratori perché sanno che dove c’è grande concorso è sempre più facile trovare ciò di cui si ha bisogno e trovarlo alle migliori condizioni di prezzo: e giungono numerosi i venditori, perché sanno che, dove c’è grande moltitudine di gente desiderosa di comprare, è sempre più agevole vendere la merce e venderla bene. I compratori desiderano di acquistare a buon mercato ed i venditori di vendere a caro prezzo. Spinti da motivi opposti essi si affrettano verso lo stesso luogo, verso la fiera, il mercato.

 

 

Anche la bottega è un mercato. Di botteghe dove si vendono le stesse verdure, la stessa carne, le stesse qualità di pane o di panni o di scarpe, ce ne sono molte nello stesso rione della città, spesso nella stessa via, se questa è un po’ frequentata. La gente passa dinnanzi alle vetrine, guarda qualità e prezzi e confronta. Se il cliente si decide ad entrare può darsi che egli si trovi solo a faccia a faccia col bottegaio. Ma in realtà né l’uno né l’altro è solo. Il bottegaio sa che accanto a lui ci sono altri bottegai, venditori della stessa merce, pronti a portargli via il cliente se egli pretenda un prezzo troppo alto. Il cliente ha già osservato e confrontato e sa che non gli conviene tirare troppo sul prezzo perché tanto egli non troverebbe la roba altrove a più buon mercato. I concorrenti, venditori e compratori, non sono lì presenti a strapparsi l’uno all’altro i clienti o la roba; ma sebbene invisibili, ci sono.

 

 

Forse vi sarà accaduto anche di passare un qualche mattino, tra le undici e il mezzogiorno, dinnanzi ad un palazzo su cui è scritto «BORSA». Se la curiosità vi ha spinto ad entrare nel salone centrale o ad avvicinarvi al padiglione vetrato che sta in mezzo al cortile d’onore, avrete osservato gran folla di signori, abbastanza ben vestiti, che ogni tanto tirano fuori di tasca un taccuino ed una matita e segnano qualcosa. Alcuni sono seduti e silenziosamente annotano in seguito a segni impercettibili che essi colgono a volo sulle labbra di qualche collega. Altri sono congestionati in volto e urlano parole che voi non capite a persone che stanno lontane ed urlano anch’esse parole incomprensibili. Ragazzi, fattorini e commessi corrono incessantemente tra il gruppo della gente silenziosa o vociferante e certe cabine poste lungo le pareti del salone e che voi scoprite essere cabine telefoniche e portano avanti e indietro messaggi verbali o rapidamente tracciati a matita su pezzi di carta. Anche quello è un mercato. Non vi si vedono le merci negoziate; perché per comprare e per vendere non è sempre necessario, come si fa sulle fiere e nelle botteghe, vedere e toccare con mano la merce. Nelle borse si vendono titoli di stato, azioni di società anonime, obbligazioni di comuni o di istituti di credito fondiario, ossia pezzi di carta aventi un valore più o meno alto ma tutti uguali, quelli della stessa specie, gli uni agli altri. Non è necessario vedere e toccare, perché il venditore non può consegnare, quando sia giunto il momento di eseguire il contratto, se non quel preciso pezzo di carta con su scritte quelle certe parole e non altro. Ci sono borse nelle quali, invece che pezzi di carta, si negoziano derrate e merci; frumento, granoturco, seta, lana, cotone, argento, rame, stagno, zinco, piombo, ghisa ecc. ecc. Qui parrebbe necessario vedere e toccare; ma sarebbe un grosso imbroglio per centinaia e migliaia di venditori arrivare in borsa ciascuno con un grosso carico, anche se si tratti di minuscoli campioni da distribuire ai compratori in pegno della qualità della merce che dovrà essere consegnata. I campioni ci sono; ma sono ideali e sono già fissati dai regolamenti della borsa. Ad esempio, quando si negozia frumento, compratori e venditori si riferiscono tacitamente ad un certo tipo o ad un certo altro tipo di frumento, d’inverno o di primavera, duro o tenero, di un certo peso specifico, per es. 78 kg per hl, con un certo grado di impurità, ovvero sia di materie estranee, supponiamo l’1 percento. Quello è il frumento che si contratta e che deve essere consegnato al prezzo convenuto. Si capisce che non sempre si potrà consegnare frumento di quella precisissima qualità. Forse il peso specifico sarà di kg 78,30, ovvero di 77,50 invece dei convenuti 78; ovvero le impurità saranno del 2 o del 0,50% invece che dell’1 percento. Ma il regolamento della borsa, conosciuto da tutti preventivamente, stabilisce già quali aumenti o quali diminuzioni percentuali si debbano apportare al prezzo convenuto se la qualità effettiva è alquanto migliore o peggiore di quella «tipo».

 

 

Si potrebbe continuare negli esempi; ma ormai pare abbastanza chiaro che cosa sia un mercato. È un luogo dove convengono molti compratori e molti venditori, desiderosi di acquistare o di vendere una o più merci. Invece di merci, si possono negoziare quelli che si chiamano servigi. Alla mietitura o alla vendemmia, tutti sanno che di gran mattino, fra le quattro e le sei, su certe piazze del borgo convengono i mietitori e le vendemmiatrici che intendono andare ad opera a servigio altrui e convengono altresì gli agricoltori i quali hanno il frumento in piedi da far mietere o le uve da staccare nella vigna. Nelle città il sistema è mutato un po’ e ci sono gli uffici di collocamento, privati e pubblici, dove convengono datori di lavoro che hanno bisogno di operai ed operai che desiderano trovare lavoro. Il punto essenziale da tenere in mente è che il mercato è un luogo dove convengono molti compratori e molti venditori. Bisogna aggiungere subito alla parola convengono anche qualche altra parola: è un luogo dal quale compratori e venditori possono uscire quando ad essi non convenga stipulare il contratto. Se ad es., il mietitore o la vendemmiatrice giunti sul mercato fossero presi per il collo, per modo di dire, dal carabiniere o costretti ad andare a lavorare a mietere per 30 lire al giorno quando il prezzo di mercato è 50; o a vendemmiare per 10 lire invece che per 20, quello non sarebbe più un mercato, ma uno strumento di schiavitù. Qui vogliamo spiegare che cosa sia un mercato e non che cosa furono in passato, o possono essere al presente in certi paesi, gli ergastoli degli schiavi. Parimenti, quando si tratta di merci, perché ci sia un vero mercato, occorre che il venditore possa rifiutarsi a vendere o il compratore possa rifiutarsi di comprare senza troppo grave suo danno. Certo, è sempre meglio, se conviene, vendere o comprare subito invece che aspettare; ma, entro certi limiti, l’aspettare può essere conveniente. Perché ci sia vero mercato, occorre però che le due parti siano libere di non mettersi d’accordo. Se il venditore dispone di una merce ingombrante e pesantissima che costerebbe l’ira di Dio a ritrasportare in magazzino, o di frutta o verdura che, se non è venduta subito, marcisce, non è che il mercato non ci sia più. Esso esiste sempre; ma comporta per una delle parti alcuni rischi di cui conviene tener conto preventivamente se non si vuole essere presi per il collo dall’altra parte.

 

 

2. Perché non si deve parlare di prezzo giusto od ingiusto.- Il prezzo di mercato.

 

Sebbene ciascuno si faccia un’idea propria di ciò che sia la giustizia, compratori e venditori, arrivando sul mercato aspirano ambedue, gli uni a pagare e gli altri a riscuotere il prezzo giusto. Innanzitutto bisogna ficcarsi bene in mente che l’aggettivo giusto, appiccicato dietro al sostantivo prezzo, è un corpo estraneo, il quale in verità non ha niente a che fare col mercato di cui ci occupiamo. Sul giusto e sull’ingiusto dà la sentenza il giudice, dinnanzi al quale vanno due i quali litigano intorno alla proprietà di un pezzo di terra od intorno al diritto di tenere aperta una finestra sull’orto del vicino. Il giudice può dare una sentenza, perché egli si può basare sul codice, sulle leggi, sui regolamenti, sui contratti scritti e verbali, sulle testimonianze, le quali lo istruiscono sul punto litigioso. Egli può dire ad uno dei due: tu sei nel torto e non hai il diritto di aprire la finestra sull’orto del vicino; oppure può sentenziare che egli è nel giusto ed il vicino ha torto a non volergliela lasciare aprire. Ma che cosa potrebbe dire il giudice a proposito di due contadini di cui l’uno pretende per la sua vacca 2.000 lire e l’altro non la vuol pagare più di 1.800 lire? Essi hanno amendue torto ed amendue ragione. A meno che una legge od un regolamento od una commissione, nominata in base ad una legge, eccezionalmente, come accade in tempo di guerra, dica che quella vacca vale 1.900 lire, il giudice non sa dir niente in materia. Ciascuno dei due contraenti ha le sue idee intorno al prezzo delle vacche. Il primo le ha sempre vendute, le vacche di quella razza peso ed attitudine a dar latte ed a far vitelli, a 2.000 lire e gli pare che gli si farebbe torto a dargli un soldo di meno. Oppure egli sa di averla comprata, quand’era una piccola manzetta, a 500 lire e poi gli è costata tanto fieno, tanta crusca, tanti mangimi a tirarla su ed a portarla al punto in cui si trova che proprio non può darla a meno di 2.000 lire, senza subire, come dice lui, una perdita. Oppure ha rifiutato alla fiera passata 2.100 lire, quando per quelle vacche tutti pagavano 2.150 lire, ed ora se si decide a darla a 2.000 lire è proprio per un tratto di amicizia verso il compratore che egli conosce da tanto tempo. In fondo in fondo, a pensarci bene, il venditore considera prezzo giusto per lui quel prezzo che gli darebbe il mucchio di denaro più grosso possibile compatibilmente con le idee che lui e gli altri si sono fatte sulla possibilità di ottenere un buon guadagno. Il venditore vorrebbe, arrivando sul mercato, non vedere nessuna altra vacca in giro o vederne il minor numero possibile. Per lui ci sono sempre troppe vacche in vendita. Il suo ideale è la scarsità.

 

 

Il compratore parte da idee opposte. Quando l’altro gli dice che non può dare la vacca a meno di 2.000 lire perché altrimenti perderebbe soldi in confronto alle sue spese, egli tra sé e sé pensa: «Costui dice di perdere; ma, anche se fosse vero, e non e`, perderebbe solo perché non conosce le sue bestie e le alleva male. In mano mia, con meno crusca e meno farinetta, che son troppo care, ma più fieno ed erbe passate al trinciaforaggi, più digeribili e meno sprecate, ne avrei tirato su una gran bella bestia spendendo meno. Non è giusto che egli pretenda tanto, solo perché non si intende di vacche. La si sarebbe potuta vendere a 2.100 lire la fiera passata? E che colpa ne ho io, se si è lasciata sfuggire l’occasione quando di vacche sul mercato ce n’erano poche e valevano molto? Adesso ce n’è abbondanza e sono ribassate». Il compratore è dunque colui che vorrebbe sempre l’abbondanza in giro, per pagare poco la roba.

 

 

Che cosa c’entra il giusto o l’ingiusto tra le due schiere che vengono sul mercato: i produttori, o venditori i quali vorrebbero la scarsità perché i prezzi fossero alti ed i consumatori, o compratori i quali sono fautori dell’abbondanza, perché i prezzi siano bassi?

 

 

Tra i due decide il mercato, il quale non afferma che un prezzo sia più giusto dell’altro; ma dice semplicemente: quello è il prezzo. Il prezzo che si paga sul serio, effettivamente; non il prezzo basso di abbondanza desiderato dai consumatori o compratori e neppure il prezzo di scarsità che sarebbe l’ideale dei produttori o venditori.

 

 

3. Come si fa il prezzo di mercato e che cosa esso vuol dire.

 

Il prezzo che si fa sul mercato, il prezzo che per usare il qualificativo più breve possibile possiamo chiamare prezzo di mercato, non è né giusto né ingiusto. È quello che è; è un prezzo fatto. Ecco tutto. E quale è il prezzo che si fa sul mercato? Supponiamo che per una data fiera dei santi (1 novembre) o di san Martino (11 novembre) siano arrivati 10.000 cavoli che i contadini e anche i non contadini sono soliti ad acquistare in quell’epoca per metterli in una fossa nell’orto ben coperti di terra e di frasche e consumarli a poco a poco d’inverno e sino a quando l’orto famigliare non abbia ricominciato a dare verdura fresca. I 10.000 cavoli sono giunti di gran mattino e sulla piazza c’era già un po’ di gente. Si cominciano a barattare parole, richieste ed offerte. Da 70 centesimi di offerta ed 1,20 di richiesta, finisce che in un batter d’occhio tutti i 10.000 cavoli sono venduti suppergiù a 90 centesimi l’uno. Certo, quello pareva un prezzo fatto, un prezzo di mercato. Capita tuttavia quella volta che, non appena la provvista esistente è finita, arrivano altri compratori, parecchi e parecchi altri compratori, e cominciano a gridare alla camorra: non essere giusto che quei primi arrivati abbiano accaparrato essi tutti i cavoli a 90 centesimi, e che essi, i nuovi venuti, ora li debbano pagare 1,20 ricomprandoli da coloro che li avevano accaparrati artificiosamente. Camorra sporca, perché i venditori si erano messi d’accordo coi pochi accaparratori per sbarazzare il mercato e non far più trovare niente in vista.

 

 

I compratori disillusi vanno dal sindaco o dall’assessore delegato per lamentarsi che non si sono fatte le cose per bene. Per impedire le beghe e le recriminazioni, il sindaco o l’assessore avrà però di solito previsto il caso; e sarà probabilmente stato approvato un regolamento, il quale dirà che non possono iniziarsi le contrattazioni prima di una certa ora. Che cosa significa ciò? Che non solo occorre, perché ci sia un mercato, che esistano molti compratori e molti venditori, che ognuno sia libero di comprare o di vendere o di andarsene senza aver concluso nulla, ma occorre anche che tutti, o almeno tutti coloro che hanno l’abitudine di arrivare sul mercato in ore ragionevoli possano dire la loro, sicché non ci siano favoritismi per l’uno o per l’altro degli intervenuti.

 

 

Se queste condizioni, ed altre che sarebbe troppo lungo e complicato enunciare, si verificano, noi possiamo dire che sul mercato le merci, le derrate ed i servigi sono negoziati e scambiati ad un prezzo, dato il quale, in quel giorno e nelle ore fissate dai regolamenti o dalla consuetudine, la quantità domandata è uguale a quella offerta. Se al prezzo di 1 lira, dopo che la campana od il banditore abbia dichiarata aperta la fiera, tutti i 10.000 cavoli offerti sono venduti, se alla tariffa di 50 lire al giorno tutti i mietitori disposti a lavorare a quel salario hanno trovato da collocarsi presso agricoltori pronti a pagare quel medesimo salario, noi diciamo che il prezzo di 1 lira l’uno per cavolo, ed il salario di 50 lire per la giornata di lavoro del mietitore sono quei tali prezzi e salari, i quali hanno fatto sì che tutti i venditori disposti a vendere i cavoli a 1 lira l’uno o meno e tutti i lavoratori disposti a lavorare alla mietitura a 50 lire o meno, trovassero compratori o datori di lavoro pronti a pagare quel prezzo o quel salario.

 

 

Il prezzo di mercato non ci dice nulla intorno alla giustizia in astratto di pagare 1 lira l’uno i cavoli o 50 lire la giornata i lavoratori. Ci dice solo che a quel prezzo il mercato si è vuotato. I compratori i quali hanno pensato che i cavoli fossero troppo cari ad 1 lira se ne sono tornati a casa; i venditori i quali sperano di venderli poi a 1,10, li hanno riposti in qualche magazzino e sulla fiera non è rimasta merce invenduta. I mietitori ai quali la giornata di 50 lire è parsa insufficiente, se ne sono tornati a casa, probabilmente perché hanno pensato che non ne valesse la pena di patire tutto quel caldo e quel sudore quando essi avevano una giornata meno faticosa assicurata per 30 lire. Gli agricoltori, a cui pagare 50 lire al giorno per la mietitura parve eccessivo, se ne sono andati pensando che in fin dei conti potevano ricorrere all’alternativa di sudare e mietere essi stessi un po’ più a lungo fino a notte inoltrata. La luna c’è e fa chiaro; e se anche si tira in lungo un giorno di più, il tempo volge al bello e il rischio della grandinata sul raccolto pendente non pare tale da spingere a tirar fuori di tasca le 50 lire. Ognuno ha fatto i propri calcoli individuali e ne è risultato che i cavoli che si sono venduti, hanno barattato padrone ad 1 lira ed i mietitori, che si sono allogati, hanno convenuto 50 lire: ed il resto se n’è andato con Dio. La piazza è pulita. Un altro prezzo non avrebbe vuotata la piazza. Se per esempio, il prezzo della giornata del mietitore fosse inizialmente di sole 45 lire, invece di 100 mietitori offerti e collocati a 50 lire, ce ne sarebbero 90 soli offerti e 110 domandati. Se fosse di 55 lire, ci sarebbe una offerta di 110 mietitori ed una domanda di soli 90. La situazione sarebbe falsa, non stabile, gli economisti direbbero squilibrata. Perciò il prezzo di una lira per cavolo o di 50 lire per giornata di mietitura che rende la domanda uguale all’offerta e vuota la piazza, si dice prezzo di mercato, o prezzo fatto. Sui libri scritti dagli economisti si chiama anche prezzo di equilibrio. Nel parlare comune, è più semplice dirlo prezzo di mercato.

 

 

4. In un mercato in concorrenza il prezzo tende al costo.

 

Quale è il significato o meglio il contenuto del prezzo di mercato in un mercato di concorrenza, ossia in un mercato dove intervengono molti compratori e molti venditori, dal quale tutti possono uscire senza comprare o senza vendere, un mercato in cui nessuno dei compratori o dei venditori sia così grosso e prepotente da dettare la legge agli altri, in cui tutti possano dire la loro uniformandosi ai regolamenti pubblici noti, in cui si sia sicuri che i contratti stipulati vengano adempiuti?

 

 

Il significato sostanziale ed essenziale è che quel prezzo tende ad essere quello che compensa le spese necessarie a produrre la merce, se si tratta di merci, o compensa, secondo il giudizio dato dagli interessati nelle condizioni in cui si trovano, la fatica del compiere il lavoro, se si tratta di servigi ossia di prestazioni di lavoro manuale o intellettuale. Se i cavoli costano per fitto del terreno, spese di coltivazione, concimi, raccolta e trasporto solo 80 centesimi l’uno, alla lunga 80 centesimi sarà il prezzo e non 1 lira. Al prezzo di una lira i coltivatori guadagnano troppo e ci sarà chi estenderà la coltura dei cavoli; e questi arriveranno sulle fiere dei santi in quantità aumentata. Se si vorrà venderli tutti bisognerà ridurre il prezzo ad 80 centesimi. Se la giornata di mietitura a 50 lire è superiore al compenso normale richiesto per quel genere di lavoro, la buona novella si diffonderà rapida come il lampo e dalle montagne e dai villaggi lontani arriveranno sul luogo nuovi mietitori che al paese guadagnavano soltanto 20 lire al giorno e sono disposti ad affrontare sulla piana il solleone di luglio per guadagnare anche solo 40 lire. Può darsi allora che per sbarazzare la piazza, data la maggior abbondanza di mietitori, occorra ridurre la giornata del mietitore a 45 lire: e quello sarà il nuovo prezzo di mercato.

 

 

5. Perché si paga un prezzo anche per i doni di Dio.

 

Il mercato non produce solo questi effetti: di uguagliare i prezzi che si fanno e le mercedi che si pagano per le diverse specie di lavoro. Si disse sopra che i cavoli possono costare solo 80 centesimi a produrli, perché tanto bisogna spendere per la coltivazione, la concimazione, la raccolta, il trasporto e per il fitto del terreno.

 

 

Che cosa è il capitolo di spesa che si chiama fitto del terreno? Si capisce subito che si debba pagare il necessario per il lavoro dei contadini che zappano il campo dove sono piantati i cavoli, che lo mondano dalle cattive erbe, che attendono al raccolto ed al trasporto del prodotto. Si capisce che si debba pagare il necessario per il lavoro di direzione e di amministrazione dell’agricoltore che corre il rischio di anticipare le spese e non sa se poi i cavoli potrà venderli bene od in perdita. Ma non si capisce perché si debba pagare qualcosa per l’uso della terra dove si piantano i cavoli. La terra non è forse un dono di Dio, un regalo della natura?

 

 

Due sole riflessioni in merito. Non è vero che la terra, almeno quella che noi conosciamo nei paesi civili e in particolare in Italia, sia un dono della natura. Un grande italiano, un grande patriota dell’epoca del risorgimento, Carlo Cattaneo, ha scritto che la terra non è una creazione, è una costruzione. Nella natura non esistono terre coltivabili; ci sono soltanto paludi, foreste, deserti, terre incolte improduttive. Il terreno che noi conosciamo in Italia è frutto di secoli, anzi di millenni di fatica, di intelligenza, di sacrifici delle generazioni passate degli italiani. Se gli uomini d’oggi si ostinassero a non voler pagare nulla per il suo uso, chi vorrebbe ancora far risparmi ed impiegarli a mantenere nello stato attuale ed a migliorare continuamente la terra? In pochi anni – bastano pochissimi anni a distruggere il lavoro di generazioni – la terra ritornerebbe allo stato selvatico improduttivo.

 

 

In secondo luogo se non si pagasse nulla per l’uso della terra allo scopo di coltivare cavoli, chi ci direbbe se sia meglio coltivare quella terra a cavoli od a patate?

 

 

6. Il mercato registra domande e non bisogni; ed indirizza la produzione in corrispondenza della domanda.

 

Qui siamo arrivati al punto centrale del discorso. Il mercato non è solo un mezzo per stabilire dei prezzi che soddisfino contemporaneamente produttori e consumatori e diano a ciascuno di coloro che hanno contribuito alla produzione un compenso proporzionato ai loro costi ed alla loro fatica, né più né meno del sufficiente a tale scopo, ma è sovratutto uno strumento, un meccanismo per mezzo del quale gli uomini indirizzano, guidano la produzione in guisa che si producano precisamente quelle cose, quei beni e precisamente di quella qualità e in quella quantità che corrisponde alla domanda che essi effettivamente fanno. Badisi bene che, affermando essere il mercato lo strumento adatto per indirizzare la produzione nel senso di produrre beni e servigi, precisamente nella quantità e della qualità corrispondenti alla domanda degli uomini, non si afferma che il mercato indirizzi altresì la produzione a produrre beni e servigi nella quantità e nella qualità che sarebbe desiderata dagli stessi uomini. Questi fanno quella domanda che possono, con i mezzi, con i denari che hanno disponibili. Se avessero altri e maggiori mezzi, farebbero un’altra domanda: degli stessi beni in quantità maggiore o di altri beni di diversa qualità. Sul mercato si soddisfano domande, non bisogni. Una donna che passa davanti una vetrina sente un bisogno intenso del paio elegante di calze che vi è esposto; ma non avendo quattrini in tasca, o non avendone abbastanza, non fa alcuna domanda. Il mercato è costruito per soddisfare domande, non desideri.

 

 

Gli uomini fanno domanda di cavoli e patate? Cavoli in tale quantità e patate in tale altra quantità? Disponendosi a pagare i cavoli 1 lira l’uno e le patate 100 lire al quintale, i compratori dicono agli agricoltori che hanno i terreni adatti: fate in modo da destinare ai cavoli i terreni che servono meglio a produrre cavoli ed alle patate i terreni che sono più adatti a produrre patate. Se gli agricoltori si sbagliano e coltivano patate in collina, in terreni aridi invece che in montagna, e cavoli in montagna invece che in pianura, i terreni male usati non lascieranno nessun margine dopo pagate le spese. Il coltivatore, l’affittuario non potrà pagare il fitto al proprietario del terreno e farà fallimento. Il fallimento è la sanzione, la pena, necessaria e vantaggiosa, per quegli affittuari, per quegli industriali, per quei negozianti che non sono capaci a fare il loro mestiere, che utilizzano male terre, capitali, materiali, macchine, impiegati, operai. Il fitto del terreno diventa massimo quando ogni terreno è destinato a quella coltivazione o a quella rotazione (successione di coltivazioni diverse in successivi anni o successive stagioni) che su di esso dà il miglior risultato. Ogni proprietario è interessato in questo modo a cercare ed a trovare precisamente quella coltivazione che per il suo fondo dà i risultati migliori. Se si pagasse ugualmente zero o cento o mille lire all’anno di fitto per tutte le specie di terreni, quale ragione vi sarebbe ancora di cercare la utilizzazione migliore dei terreni?

 

 

Nella stessa maniera il consumatore dà l’indirizzo alla migliore produzione industriale. Chi deve decidere se si devono produrre più locomotive ferroviarie o più vetture automobili? L’industria non ha per iscopo di fabbricare locomotive ed automobili. Essa è fatta invece per soddisfare la domanda degli uomini. Non sono le macchine e le cose che debbono comandare agli uomini; ma sono gli uomini i quali debbono dire che cosa si deve fabbricare per soddisfare ai loro desideri, a quei desideri che si manifestano con una domanda effettiva. Gli uomini viaggiano di più in ferrovia? Affollano i treni? Crescono perciò gli incassi delle ferrovie? E i dirigenti di queste daranno alle fabbriche competenti ordinazioni di vetture o di locomotive ferroviarie; e la gente viaggerà meglio in ferrovia, più rapidamente e più comodamente. Appunto come desiderava. Gli uomini preferiscono invece l’automobile? Si aspira a possedere, come in qualche paese ci si è già arrivati, almeno un’automobile per ogni famiglia? E gli uomini prenoteranno automobili, e i produttori le sforneranno a milioni all’anno. Tecnici, operai, ingegneri, contabili, verranno, coll’offerta di migliori salari, spostati da altre industrie verso quella automobilistica; ed i capi delle imprese automobilistiche faranno domanda di risparmi nuovi per acquistare macchine, allargare stabilimenti, comprare materie prime e porteranno via i risparmi ad altre imprese con l’offerta di un interesse più alto. Nella stessa maniera come i terreni capaci di fruttare i fitti più alti sono destinati alle colture più adatte, alle derrate più domandate dai compratori, così la necessità di pagare un interesse per i capitali fa sì che i risparmi si impieghino nelle industrie, che sono capaci di fruttare almeno quell’interesse e non nelle altre che non riescono a tanto; il che vuol dire che la necessità di pagare un interesse e il desiderio da parte degli imprenditori (industriali ed agricoltori) di guadagnare, oltre l’interesse da versare ai risparmiatori – capitalisti, il profitto più alto possibile per se stessi, spingono gli imprenditori a dedicarsi alla produzione di quei beni, di quei servigi per cui i compratori sono disposti a pagare prezzi più allettanti, ossia ancora precisamente quei beni e quei servigi che sono più domandati, con maggior relativa intensità di domanda da parte del compratore. Naturalmente, se taluni dei consumatori o compratori fossero meglio provveduti di mezzi d’acquisto (denaro), ed altri avessero a propria disposizione mezzi meno abbondanti, amendue farebbero domande diverse da quelle che fanno. Gli uni soddisferebbero, con una domanda maggiore, più largamente a certi loro bisogni che oggi debbono comprimere. Gli altri dovrebbero contentarsi di chiedere meno roba; lasciando insoddisfatti certi desideri, ai quali oggi indulgono.

 

 

Il mercato, che non conosce bisogni, ma domande, è il servo ubbidiente della domanda che c’è. Soddisfa quelle domande, che non rimangono nella sfera platonica dei desideri, ma si manifestano effettive, corroborate dal possesso di una corrispondente potenza d’acquisto (denaro). Esso indirizza la produzione nel senso di soddisfare la domanda esistente. Se cambiasse il tipo della domanda, il mercato, che è uno strumento e non un fine, si adatterebbe da sé, automaticamente, a soddisfare la nuova domanda. Non possiamo chiedere al mercato di darci più di quello che esso può dare, di dare ad esempio, del denaro (potenza d’acquisto) a chi non ne ha o ne ha poco per consentirgli di far domanda di cose atte a soddisfare desideri da lui sentiti magari intensamente, ma non potuti soddisfare; né di togliere denaro a chi ne abbia moltissimo e può far domanda di cose atte a soddisfare certi bisogni, che di solito si considerano dai più semplici capricci.

 

 

Il compito, caso mai ciò si creda opportuno, spetta non al mercato, ma ad altre istituzioni o ad altri meccanismi; ad es. alle imposte progressive sui grandi redditi da un lato, o alle indennità di infortunio, per citare un esempio, dall’altro lato. Il mercato registra quello che esiste. Muta la domanda? ed ecco il mercato registrare la domanda nuova, fissare nuovi diversi prezzi, nuovi diversi salari, dare nuovo diverso indirizzo alla produzione.

 

 

7. Non confondiamo il meccanismo del mercato col meccanismo della distribuzione della ricchezza.

 

Ci sono alcuni scrittori, tecnici o propagandisti, i quali immaginano di aver fatto una grande scoperta, col dire che la produzione in avvenire non dovrà più essere indirizzata allo scopo di dare un profitto agli imprenditori, bensì allo scopo di rendere servigio agli uomini, di soddisfare i bisogni veri dei consumatori. Costoro fanno una grande confusione. Essi confondono due meccanismi diversi che soddisfano a due diverse esigenze. L’un meccanismo è quello che, data la domanda che c’è, cerca di soddisfare a questa nel miglior modo possibile. Questo meccanismo, questo strumento è noto da secoli e non attende affatto di essere scoperto: quello strumento, quel meccanismo si chiama mercato ed è quello che, purtroppo con eccessiva brevità, si è cercato di descrivere sopra. Ed è anche il solo meccanismo efficace all’uopo, provato e riprovato da una esperienza secolare, anzi millenaria.

 

 

Esso è, si aggiunga, il solo efficace se ci si tiene fermi al principio che il padrone delle decisioni da prendere sia l’uomo medesimo, il quale, avendo desideri, aspirazioni e bisogni, cerca di soddisfarli, nella misura dei mezzi che egli ha a disposizione, e nel modo da lui stesso stabilito.

 

 

C’è o si desidera poi che esista un altro meccanismo, grazie al quale gli uomini, per soddisfare i loro desideri, abbiano una diversa, talvolta maggiore (e qui il pensiero va sovratutto ai poveri) e talvolta minore (e qui il pensiero corre ai ricchi e ricchissimi) disponibilità di mezzi d’acquisto, di mezzi atti a trasformare i desideri ed i bisogni in domanda effettiva? Che qualcosa ed anzi che molto possa farsi all’uopo è opinione diffusa. Ma per raggiungere l’intento, non giova distruggere il meccanismo esistente di mercato, costrutto per conseguire un dato scopo, quando invece si vuole raggiungere un altro scopo, anch’esso importantissimo. Giova invece creare un meccanismo separato non facile ad essere congegnato, probabilmente composto di pezzi numerosi e svariati, il quale sia atto a raggiungere il nuovo diverso scopo. Scopo il quale poi, in sostanza, è quello di una distribuzione dei mezzi d’acquisto, di quella che comunemente si chiama ricchezza e meglio direbbesi reddito, più ugualitaria, con minore miseria in basso e minore dovizia in alto.

 

 

Confondere idee diverse, vuol dire non concludere niente. Confondere, come qui si fa da tanti, meccanismi diversi, vuol dire fracassare amendue. Senza nessun costrutto.

 

 

8. Si può affidare a qualcun altro la decisione intorno ai bisogni degli uomini?

 

C’è un gruppo di questi confusionari i quali per meglio soddisfare i bisogni degli uomini, hanno cominciato a fare una bella pensata: quella cioè che gli uomini non sapessero quel che si facevano o facessero cioè domande non corrispondenti ai loro veri desideri, ai loro veri bisogni; e fosse perciò necessario che qualcun altro si incaricasse di decidere lui, per conto degli uomini, quel che costoro dovessero acquistare e comperare. Naturalmente, se noi partiamo dal principio che non gli uomini debbano, ognuno per conto proprio, decidere, in ragione dei mezzi posseduti, quel che essi vogliono acquistare; ma la decisione debba essere presa da qualcun altro, possiamo fare a meno del mercato. In certi casi può essere ragionevole, e può anche rispondere alla necessità e persino ad un vantaggio sociale, che la decisione su quel che l’uomo deve consumare spetti non a lui ma a qualcun altro. Si può e si deve anzi affermare che il campo entro il quale la decisione spetta a qualcun altro, diverso dall’interessato, in certe epoche storiche e in certe circostanze è stato grande e potrà di nuovo acquistare in avvenire importanza notevolissima.

 

 

Nel medioevo fiorivano i conventi e durano ancora oggi. Chi sono i monaci e le monache se non persone le quali hanno abdicato in mano dei loro superiori ad ogni facoltà di manifestare desideri, alla libera scelta delle loro soddisfazioni? Mangiano, vestono, dormono, vegliano, abitano così come vuole la regola e come ordina il padre guardiano. La loro economia non è di mercato: ma di ubbidienza agli ordini venuti dai superiori. Se essi sono felici di vivere così, perché non rispettare la loro volontà? Di solito, però gli uomini amano vivere a loro talento e non come i monaci del convento.

 

 

In una città assediata, in un paese, piccolo o grande, circondato da nemici, il mercato non può funzionare, perché se anche i consumatori richiedono maggior quantità di pane e niuna quantità di giornali, i produttori non possono seguire le loro indicazioni. Pane non se ne può produrre, tra un raccolto e l’altro, se non entro i limiti in cui esiste frumento, e di giornali se ne può produrre tutto quel numero che è consentito dalla disponibilità di carta da giornale. Perciò, accade che qualcun altro, e in questo caso il governo dica: affinché il pane duri fino alla fine dell’assedio o della guerra e affinché nessuno muoia di fame, occorre che ognuno consumi non più di grammi 100 o 150 o 200 al giorno di pane, – e occorre istituire razioni, tessere, ecc. Poiché qualcun altro, ossia di nuovo il governo, ha interesse che esistano giornali e si stampino le notizie e i comunicati da esso desiderati, può darsi che si ordini che le cartiere seguitino, con cellulosa di pioppo o paglia o altre materie prime, che potrebbero essere destinate a scopi forse ritenuti più urgenti dai compratori, a fabbricare carta da giornali per stampare e vendere molti giornali, con nomi diversi, ma tutti uguali l’uno all’altro, quando basterebbe un unico bollettino quotidiano su un foglietto di dimensioni ridotte a divulgare le notizie desiderate dal pubblico. Il qualcun altro fa per il pane quel che tutti desiderano, per i giornali quel di cui, se fossero liberi di decidere a loro talento, tutti farebbero probabilmente volontieri a meno. Se la necessità dell’assedio o della guerra impone razionamenti e tessere non è evidente però che, non appena sia possibile, tutti tireranno il fiato quando il mercato potrà essere ristabilito?

 

 

Talvolta, il qualcun altro non vuole, per ragioni che la opinione pubblica considera normalmente buone, che i consumatori possano liberamente manifestare i loro gusti sul mercato e così indirizzare la produzione. Ad es. quasi tutti gli stati perseguitano con imposte, proibizioni, limitazioni di orario e di vendita, rispetto a certi gruppi di persone (ad es. i giovani e le donne), la vendita delle bevande alcooliche; tutti vietano e puniscono l’acquisto e la vendita di stupefacenti. Limitano e sopprimono il mercato, per ragioni di igiene di moralità di salvezza delle nuove generazioni, di tutela contro le terribili malattie provenienti dall’uso degli stupefacenti e dall’abuso delle bevande alcooliche.

 

 

Per la maggior parte dei consumi, le scelte sono tuttavia innocue, non recano danno né a chi le fa né ad altri e possono perciò essere lasciate liberamente agli interessati. Tutto al più gioverà che qualcun altro, enti pubblici istituzioni religiose o filantropiche od educative, dia opera allo scopo di insegnare ai consumatori a fare scelte buone dal punto di vista della sostanziale utilità, giudicata con criteri scientifici obbiettivi, della merce e allo scopo di dissuaderli dall’acquisto di merci la cui utilità oggettiva, nutritiva, fisiologica ecc. è minore della perdita che si sostiene rinunciando ad altre cose che si potrebbero acquistare allo stesso prezzo. Il pubblico si lascia non di rado guidare da una pubblicità interessata e giova che una educazione scientificamente imparziale e oggettiva, attenui gli errori commessi dagli uomini nel distribuire il reddito tra i vari consumi, pur lasciando ad essi la decisione ultima.

 

 

Può anche darsi che il qualcun altro sia persuaso che molti uomini spendono male il loro reddito, consumando ad esempio troppe bevande o facendo troppo lusso inutile di frivole aggiunte al vestito o sprecando denari nell’adornarsi o nella toletta, e dedicando troppa poca parte del salario alla casa. Se l’uomo di stato ritiene che la buona vita famigliare, che il possesso di una casa anche piccola e di un modesto orto, sia saldo fondamento di una società sana e prospera, si può ammettere che lo stato, ad incoraggiare l’accesso delle classi operaie alla proprietà della casa e dell’orto, costruisca strade adatte prolungando le tranvie, faccia gli impianti necessari di illuminazione acqua fognatura e favorisca così la formazione, nella vicinanza della città, di borghi operai ameni ed attraenti. All’uopo esso li fornirà anche di giardini pubblici, di scuole, di servizi pubblici, di campi di divertimento, di chiese e simili.

 

 

Si può pensare che lo stato sussidi anche la costruzione delle case, cosicché queste possano essere vendute a prezzo inferiore al costo con concessione di lungo tempo per il pagamento a rate. Siccome probabilmente queste case saranno molto richieste e probabilmente in numero maggiore di quelle offerte, bisognerà trovare qualche altra regola diversa da quella del mercato per scegliere coloro che dovranno avere la casa: e si darà la preferenza per es. ai padri di famiglia con prole numerosa, agli anziani, ai più assidui al lavoro, ai domiciliati da più tempo nella località ecc. ecc.

 

 

9. Gli uomini non intendono rinunciare al loro diritto di scegliere le cose che vogliono acquistare.

 

Tengasi però bene in mente che si tratta di eccezioni, che sono approvabili ed anche utili sinché sono una eccezione. L’eccezione può anche diventare imponente senza abolire la regola della libertà degli uomini di indirizzare la propria domanda nel senso preferito individualmente da ciascuno di noi. Se diventasse regola, ciò vorrebbe dire che noi accettiamo il principio che gli uomini non possono più decidere essi quel che vogliono acquistare, ma deciderebbe sempre qualcun altro. È probabile che la grande maggioranza degli uomini desideri spendere i mezzi che possiede come meglio crede, senza lasciarsi dettare la legge da nessun altro, ossia desideri la continuazione del mercato, unico mezzo finora scoperto per ottenere lo scopo.

 

 

10. I monopolisti ed i prezzi di monopolio.

 

Non sempre però il mercato è quello che sopra fu descritto. I compratori per lo più sono sempre molti e si fanno concorrenza nel comperare e spingere su i prezzi, ma non sempre i venditori sono molti e pronti a farsi concorrenza. Capita che il fabbricante di una merce sia uno solo e domini il mercato. Oppure sono molti, ma ce n’è uno o alcuni tanto grossi che si dice che i prezzi sono «fatti» da essi. Forse avete sentito parlare di quel fabbricante di mattoni e tegole che nel proprio paese, dove è lui solo a venderli, vende i mattoni a 150 lire al mille, e le tegole a 200 lire (sono prezzi di qualche anno fa, prima della guerra presente): ed invece nei paesi un po’ più lontani, dove deve tener conto della concorrenza di altri mattonai, vende gli stessi mattoni e le stesse tegole a 120 e 150 lire rispettivamente. Bella giustizia, bel rispetto dei compaesani! dice la gente del luogo, far pagare cari i mattoni e le tegole a noi e darli a buon mercato ai forestieri!

 

 

Eppure, dal punto di vista del mattonaio, la cosa è naturale: in paese è egli solo a vendere, fuori c’è la concorrenza. La concorrenza, che è la salvaguardia del consumatore, in paese non c’è più; ed i clienti sono presi per il collo. Questi produttori che sono soli o quasi soli si chiamano monopolisti o quasi-monopolisti. Può darsi che essi siano parecchi ed anche abbastanza numerosi, ma capita che si mettano d’accordo ad agire come uno solo; ed in questo caso al loro complesso si dà il nome di consorzio, sindacato, trust, cartello.

 

 

Il risultato è sempre lo stesso: il monopolista non è più costretto dalla concorrenza a fissare un prezzo uguale al costo di produzione; ma può fissare lui la quantità di merce che vuol produrre o vendere ovvero il prezzo che vuol farsi pagare; epperciò il prezzo tenderà naturalmente ad essere quello che gli dà il massimo guadagno netto. Non sempre la cosa gli riuscirà completamente; perché un po’ di concorrenza c’è sempre ed egli può temere che, a guadagnare troppo come potrebbe, si risvegli la voglia in altri di impiantare una fabbrica concorrente. Ma in generale egli aspira e tende ad ottener il massimo guadagno netto.

 

 

11. Col monopolio si produce di meno e si distribuisce peggio il minor prodotto.

 

Ciò facendo, il monopolista è cagione, oltrecché di altri, sovratutto di due grossi malanni. In primo luogo, per guadagnare di più egli deve aumentare i prezzi, di poco o di molto, in confronto ai prezzi di concorrenza; e perciò, a prezzi più alti, egli vende e produce meno roba. Se al prezzo di 8 si domanda e si produce e si vende un milione di kg di una data merce, al prezzo di 10 la domanda e perciò la produzione e la vendita diminuiscono, ad es., ad 800.000 kg. C’è un bel numero di compratori, quelli che consumavano i 200.000 kg, i quali rimangono a bocca asciutta e devono stringersi la cintola; e ci sono coloro, i quali continuano a consumare gli 800.000 kg. rimasti, ma li devono pagare 10 invece di 8. In secondo luogo, nascono i profitti e guadagni di monopolio. Prima, quando il mercato era in concorrenza, i produttori si dovevano accontentare di guadagnare quel che era “necessario” per indurli ad arrischiare i loro risparmi e quelli presi a prestito dalle banche e per indurli ad organizzare e dirigere le imprese, che è una specie di lavoro indispensabile e assai produttivo. Ora, essi insaccano grossi guadagni supplementari, non più dovuti al merito di lavorare, organizzare ed arrischiare, ma dovuti al demerito di avere sbarazzato il campo di tutti i concorrenti o di essersi messi, gli antichi concorrenti, d’accordo per taglieggiare i consumatori.

 

 

12. Due specie di monopoli e due metodi di lotta contro di essi.

 

Si può dire perciò che, mentre il mercato in concorrenza è benefico e rende servigio, il mercato in monopolio è dannoso e rende disservigi alla generalità degli uomini. Siccome in queste pagine si vuole soltanto descrivere il mercato e spiegarne nelle somme linee il funzionamento, non è il luogo di descrivere anche i mezzi adatti a far venir meno o a diminuire i danni dei monopoli. Basti accennare che la lotta contro i monopoli deve essere considerata come uno dei principali scopi della legislazione di uno stato, i cui dirigenti si preoccupino del benessere dei più e non intendano curare gli interessi dei meno. La battaglia contro i monopoli può essere condotta lungo due direttive. Ci sono dei monopoli, la maggior parte a parere di taluni, i quali sono dovuti precisamente ad una legge dello stato. Se lo stato ha stabilito dei dazi doganali, dei contingentamenti, delle proibizioni contro le importazioni estere, dei divieti di stabilire nuove fabbriche ecc. ecc., lo stato con la sua legge medesima ha ridotto o distrutto la concorrenza che potrebbe venire dall’estero o da nuovi fabbricanti. In questi casi è chiaro che basta abolire la legge che ha creato il monopolio, perché questo sia distrutto. In altri casi il monopolio è dovuto a cause indipendenti dalla legge, a cause quasi tecniche. Ad es., la concorrenza in una stessa città e negli stessi rioni di molte tranvie, di molte imprese di acqua potabile o di gas o di luce elettrica, ed, entro certi limiti, la concorrenza di parecchie ferrovie tra le stesse città, non è possibile e, se tentata, non dura. Siccome qui il monopolio si può dire quasi naturale, non lo si può più abolire, e bisogna regolarlo. Lo stato interviene per fissare le tariffe massime, il genere dei servizi, ovvero può decidersi ad esercitare lui stesso l’industria monopolistica, facendosi rimborsare il puro costo. Purché non ci pigli troppo gusto. Secoli fa, quando si introdusse in Europa la foglia del tabacco, alcuni stati dissero appunto di voler esercitare essi quell’industria a tutela dei consumatori. Finì come tutti sanno, che il tabacco è venduto da certi stati a 3, 4 e in certi casi fin 10 volte il costo della produzione dei sigari e delle sigarette.

 

 

Capitò per accidente che i governi, profittando del monopolio del tabacco per farci su un guadagno enorme, fecero cosa inappuntabile. L’imposta che i governi percepiscono per mezzo del monopolio del tabacco è una delle migliori imposte che si possano immaginare. Dato che non possiamo fare a meno di imposte, è meglio che esse colpiscano una merce che è diventata di larghissimo consumo e per molti è necessaria quasi come il pane, ma la quale può tuttavia essere considerata indice di una disponibilità di reddito volontariamente destinato a soddisfare un bisogno considerato dal legislatore di intensità minore di quella da lui attribuita ai bisogni pubblici, disponibilità che perciò lo stato può senza troppo scrupolo colpire con imposta anche forte. Ma non bisogna generalizzare l’andazzo di monopolizzare questa o quella produzione a favore dello stato. Ebbe buoni effetti il «chinino di stato» che del resto non è un monopolio; ma li ha dannosi il monopolio del sale che è un alimento di prima necessità. E non è accaduto forse recentemente, quando le vetture automobili e gli autocarri cominciarono a fare una viva concorrenza alle ferrovie con grande vantaggio del pubblico, che parecchi stati proprietari delle ferrovie invece di rallegrarsi del vantaggio generale, si allarmassero per il danno alle proprie finanze e mettessero ogni sorta di bastoni fra le ruote alla benefica concorrenza dei nuovi sistemi automobilistici?

 

 

Nessun rimedio esiste contro questi pericoli, all’infuori di una vigile illuminata opinione pubblica, capace di scoprire la verità in mezzo all’imbroglio di pretesti o di frasi fatte con cui si riesce ad ingannarla.

 

 

13. I prezzi di mercato non sono arbitrari, né in potestà dei produttori.

 

Prezzi di un mercato dominato dalla concorrenza, prezzi di un mercato monopolistico e prezzi dei tanti altri tipi di mercato, nei quali non c’è più la perfetta concorrenza e non esiste ancora un monopolio perfetto, hanno in comune una caratteristica: quella di non essere arbitrari.

 

 

Una delle idee più comunemente diffuse è che i prezzi siano fatti da chi vende, da chi produce, da chi porta la roba sul mercato. Certo il produttore desidera vendere al più alto prezzo possibile. Ma di desideri è lastricato anche il pavimento dell’inferno. Tutti desideriamo qualche cosa che non abbiamo; ma poi ci adattiamo a fare quel che si può. Così anche i produttori, così i venditori. Persino il monopolista che vorrebbe vendere a 10 lire, deve poi adattarsi a vendere ad 8, se a 10 lire i compratori sfumano in troppi ed egli perde di più col vender poco di quanto guadagni coll’aumentare il prezzo. Se egli potesse prendere per il collo i compratori e costringerli a comprare quanta merce egli vuol loro accollare al prezzo da lui fissato, la sua prepotenza non avrebbe limiti. Fortunatamente per essi, i consumatori hanno una via di scampo: di piantarlo in asso, lui e la sua merce o, se non piantarlo, ridurre le compere, ricorrere a surrogati. Un bel giorno, accadde ad uno dei governi italiani di incoraggiare un sindacato siciliano degli zolfi, che aumentò i prezzi a carico degli inglesi e degli americani, gran consumatori di zolfo. Tanto sono ricchi – si diceva – e possono pagare! Invece quelli si inferocirono e cominciarono prima ad estrarre lo zolfo dalle piriti, e poi cercarono zolfo per mare e per terra e, cerca cerca, finirono per trovarne nel Texas, e, per giunta, estraibile a più buon mercato di quello siciliano. Ai brasiliani saltò in mente, un altro bel giorno, di valorizzare il caffè ossia di pretendere un prezzo del caffè di semi-monopolio. Siamo noi – dicevano – i principalissimi produttori di caffè del mondo; e converrà pure che gli americani del nord, francesi, italiani, ecc., gran bevitori di caffè, si indirizzino a noi! Mal gliene incolse loro; perché in altri paesi si estese la coltura del caffè e sovratutto, per l’attrattiva dell’alto prezzo artificiale, si estese nel Brasile medesimo. Ad un certo punto ci fu sul mercato tanto caffè che ai prezzi della così detta valorizzazione non fu più potuto vendere; e si ebbe lo scandalo, di cui tutti i giornali parlarono, del caffè gettato in mare od utilizzato come combustibile nelle caldaie delle locomotive ferroviarie. Non fu affatto uno scandalo; ma la logica conseguenza dell’errore di aver preteso, costituendo un monopolio, far pagare ai consumatori un prezzo troppo alto. Lo scandalo, sia detto tra parentesi, fu un altro: che i governi di certi paesi consumatori resero nello stesso tempo il caffè inaccessibile ai propri connazionali, sia col colpirlo all’entrata con dazi altissimi sia addirittura col proibirne la importazione.

 

 

In un mercato libero nessuno fa quel che vuole, né i produttori, né i consumatori. Il governo aumenta l’imposta sulle case? E tutti dicono: i proprietari non soffrono nulla, bastando ad essi aumentare i fitti. Errore. I proprietari desiderano sì aumentare i fitti; ma se l’avessero potuto fare li avrebbero aumentati senza aspettare lo stimolo dell’accresciuta imposta. Se non l’avevano fatto, ciò era accaduto perché gli inquilini non si possono prendere per il collo. Se i fitti aumentano, ci si restringe in appartamenti di un numero di stanze minore; si rinuncia a certe comodità; si va a vivere nei sobborghi. Vengono fuori alloggi sfitti; e se si vogliono affittare, i proprietari devono pure decidersi ad abbassare i canoni di locazione. La questione dell’influenza delle imposte sui prezzi è certamente più complicata di quel che ora si è detto. Basti qui avere osservato che, anche in questo caso, i proprietari non possono fare quel che vogliono.

 

 

Devono ubbidire al mercato, il quale automaticamente, per il gioco dell’affluire dei venditori quando i prezzi, rialzando, lasciano un margine attraente di profitto e dell’uscire dei compratori quando il rialzo li costringe a non far seguire ai desideri una domanda effettiva, e per il corrispondente gioco dell’uscire dei venditori ed affluire dei consumatori a prezzi calanti, fa sì che si stabilisca quel tal prezzo, dato il quale la quantità domandata è uguale alla quantità offerta. E così si stabiliscono automaticamente i prezzi del lavoro (salari e stipendi), dei capitali (interessi), delle terre (fitti). Forse che il proprietario di un’area fabbricabile nel centro di Milano o di Roma esercitava un arbitrio quando chiedeva ed otteneva (parliamo di una diecina di anni fa quando i prezzi in lire avevano un significato) un prezzo di 20.000 lire al metro quadrato, nel tempo stesso in cui in certe regioni italiane certi terreni agricoli valevano, sì e no, 10 centesimi all’uguale metro quadrato (1.000 lire all’ettaro)? No, il mercato compiva automaticamente, nel contrasto fra compratori e venditori, un processo che si chiama capitalizzazione dei redditi. È vero che l’area fabbricabile di Milano o di Roma non fruttava nulla, neppure una spiga di grano; laddove il fondo della Basilicata produceva qualche po’ di grano. Ma l’aspirante compratore dell’area faceva i suoi conti sul reddito del palazzo che avrebbe potuto costruire a sei ad otto o dieci piani e sul reddito netto che ne avrebbe potuto cavare affittandolo a negozi, uffici e appartamenti di abitazione; e se il calcolo gli dava come frutto netto da imposte, spese di gestione, assicurazione, riparazioni, ammortamento ed interesse sul capitale investito nella costruzione dell’edificio un residuo di 100 lire per metro quadrato e per piano, ossia moltiplicato per dieci piani, di 1.000 lire per metro quadrato, egli era disposto a pagare l’area a 20.000 lire al metro quadrato, perché avrebbe ricavato dall’investimento un frutto del 5%, che era quello corrente per quel tipo di impiego. Invece l’aspirante acquirente del fondo basilicatese se, fatti i conti dello stato del fondo, dei capitali scorte vive e morte da investire, del rendimento in frumento, dei costi di coltivazione, raccolta, trasporto, imposte, ecc. ecc., riusciva al risultato, possibilissimo, di un reddito netto di 50 lire all’ettaro, non era disposto a pagare, capitalizzando il reddito al saggio di interesse, supponiamo, del 5%, un prezzo capitale maggiore di 1.000 lire all’ettaro e cioè di 10 centesimi per metro quadrato. A formare questi due prezzi così diversi di 20.000 lire e di 10 centesimi per la stessa superficie (ma in luoghi diversi) di un metro quadrato, la volontà del proprietario detentore del terreno non c’entra né per cicca né per berlicca. Il mercato sovranamente decide e decide sulla base di un dibattito nel quale tutti i fattori rilevanti di decisione vengono messi in piazza da chi ha interessi contrastanti e non vuole lasciarsi mettere nel sacco: prospettive di prodotto, di costi, di incertezze di riuscita, probabilità di avvenimenti futuri. Tutto viene dosato e pesato; e dal tira e molla del mercato esce fuori in tempo talvolta brevissimo, quasi istantaneo (prezzi dei titoli in borsa), e talvolta lentissimo, defatigante, con un andirivieni di intermediari ripetuto le decine e centinaia di volte, a distanza di giorni, di mesi e di anni (prezzi dei terreni agricoli), il prezzo di mercato. A quel prezzo avviene il trapasso della merce, del servigio, del titolo, della casa o del fondo. Nulla sinora è stato inventato a sostituire il meccanismo del mercato, fuori della sua abolizione e della sua sostituzione con un ordinamento regolato dall’alto, in virtù di comandi e di decisioni abbassate dalle autorità supreme a quelle intermedie e da queste a quelle inferiori e finalmente ai cittadini; come è sempre accaduto nelle caserme e nei reclusori.

 

 

Chi non voglia trasformare la società intera in una immensa caserma o in un reclusorio, deve riconoscere che il mercato, il quale raggiunge automaticamente il risultato di indirizzare la produzione e di soddisfare alla domanda effettiva dei consumatori, è un meccanismo che non può essere alla leggera fracassato per vedere, come fanno i bambini per i giocattoli, come è fatto dentro. Esso merita invece di essere studiato attentamente per essere a poco a poco perfezionato. Innanzi all’altra grande guerra esso aveva raggiunto un alto grado di perfezione; e sarebbe un gran bel fatto se in qualche anno potessimo riguadagnare il gran terreno che negli ultimi trent’anni abbiamo perduto!

 

 

14. Quel che sta attorno alla fiera ed influisce su di essa.

 

Fin qui si è parlato del mercato sia di quello benefico in concorrenza, sia di quello dannoso in monopolio, come se fosse qualcosa che sta a sé. Bisogna, nello spiegarsi, per forza far così, per non far nascere confusione nella testa dei lettori. Il mondo vero è qualcosa di così complicato e vario e mutevole che per ordinare le idee e vederci un po’ chiaro, è necessario affrontare la sua descrizione ad un passo per volta. Così si è fatto sin qui per il mercato. Ma tutti coloro i quali vanno alla fiera, sanno che questa non potrebbe aver luogo se, oltre ai banchi dei venditori i quali vantano a gran voce la bontà della loro merce, ed oltre la folla dei compratori che ammira la bella voce, ma prima vuole prendere in mano le scarpe per vedere se sono di cuoio o di cartone, non ci fosse qualcos’altro: il cappello a due punte della coppia dei carabinieri che si vede passare sulla piazza, la divisa della guardia municipale che fa tacere due che si sono presi a male parole, il palazzo del municipio, col segretario ed il sindaco, la pretura e la conciliatura, il notaio che redige i contratti, l’avvocato a cui si ricorre quando si crede di essere a torto imbrogliati in un contratto, il parroco, il quale ricorda i doveri del buon cristiano, doveri che non bisogna dimenticare nemmeno sulla fiera. E ci sono le piazze e le strade, le une dure e le altre fangose che conducono dai casolari della campagna al centro, ci sono le scuole dove i ragazzi vanno a studiare. E tante altre cose ci sono, che, se non ci fossero, anche quella fiera non si potrebbe tenere o sarebbe tutta diversa da quel che effettivamente è.

 

 

15. L’influenza delle abitudini sui prezzi.

 

In poche pagine, non si può descrivere a fondo l’influenza che quel che ci sta attorno esercita sul mercato. Bisogna necessariamente limitarsi ad alcuni casi.

 

 

Perché al contadino ed al borghigiano piace comperare alla fiera? Non solo perché egli vi ha una gran scelta di roba, che di solito nel villaggio non c’è; non solo perché ci sono molti venditori che si fanno concorrenza; ma anche perché egli non conosce personalmente i venditori e non ha alcun timore di offenderli a piantarli lì, se la roba o il prezzo non gli conviene e ad avvicinarsi ad un altro, per vedere se può fare un miglior contratto. Di solito nel paese suo, egli non osa comportarsi così. Suo padre, sua madre si sono sempre forniti in quella bottega. Sono, bottegaio e cliente, amici di famiglia. Se egli facesse risuolare le scarpe da un altro ciabattino, il giorno stesso in tutto il villaggio se ne parlerebbe e sarebbero guai per lui. «Che torto ti ho fatto, – gli chiederebbe o gli farebbe chiedere l’amico ciabattino, – perché tu mi abbia abbandonato? Forse che quell’altro lavora meglio di me?» Cosa rispondergli! Che la risuolatura è costata tre lire di meno? Ma la risposta è pronta: «Tuo padre, tua madre, tu, tua moglie non avete mai dovuto lamentarvi di me. Il mio lavoro è fatto secondo coscienza. Se badi alle tre lire, segno è che non hai riguardo al lavoro ben fatto». Come fare a dirgli che anche l’altro ciabattino lavora coscienziosamente? Sarebbero freddezze, dispiaceri, inimicizie. Il costume ha dunque non di rado grande importanza nel modificare i risultati in confronto a quelli che si otterrebbero in un mercato vero e proprio che è quello in cui compratori e venditori non si conoscono o si comportano come se non si conoscessero ed i prezzi sono determinati esclusivamente dalla convenienza. In un mercato vero e proprio dove nessuno conosce l’un l’altro o meglio, non ha ragioni di amicizia, soggezione o dipendenza verso altri, i prezzi, i salari, i fitti ecc. si muovono più rapidamente e continuamente; mentre dove dominano il costume, la consuetudine, le relazioni di vicinato e di famiglia, si paga per ogni cosa o per ogni servigio quello che si usa pagare, quel che è considerato giusto, quel che nella testa di ognuno corrisponde a quel che si deve pagare. È frequente sentirsi rispondere: «Faccia lei, lei ha più cognizione di me, lei sa quel che ha sempre pagato». La risposta è imbarazzante, e spesso costringe a pagare un po’ di più di quel che si sa essere il prezzo di mercato. Ma si paga per conservare le buone relazioni di vicinato e di saluto. Sarà più facile trovare la roba o ottenere qualche servigio la prima volta che se ne avrà bisogno.

 

 

16. L’influenza della legge sul mercato.

 

Non bisogna dimenticare, fra le circostanze che influiscono sul mercato, la legge. Anche se non conoscete il codice, quello civile o commerciale o penale, siete però probabilmente andati dall’avvocato o dal notaio perché vi redigesse un atto o vi sbrogliasse una vostra faccenda un po’ litigiosa. E vi siete accorti allora che voi non potete fare tutto ciò che volete; non potete nemmeno mettervi d’accordo a fare con altri quello che ad amendue piacerebbe di fare. Ci sono delle regole, alle quali si deve ubbidire; dei sistemi a cui vi dovete uniformare. Non si può, se si vuole fare testamento, lasciar tutta la terra a un figlio solo e niente agli altri; tutto ai figli maschi e niente alle femmine. Ai contadini per lo più parrebbe naturale di lasciar tutto ai figli maschi che hanno sempre lavorato coi genitori. Essi non credono di fare alcun torto alle femmine, lasciandole, nel giorno del gran viaggio ultimo, andare con Dio con la semplice loro benedizione. Perché non si devono contentare della dote che hanno ricevuto al momento del matrimonio? Se i mariti se ne sono accontentati allora, che ragione c’è che oggi vengano a ficcare il naso nella eredità e mettere nei guai i figli maschi, che già avranno tante difficoltà a dividersi tra loro in parti uguali quella poca terra? Eppure, devono rassegnarsi; il codice italiano passato permetteva ad essi di disporre solo della metà del patrimonio; l’altra metà, la legittima, doveva essere per forza divisa in parti uguali tra tutti i figli, maschi e femmine. Il codice nuovo riduce ancora di più la disponibile, fino ad un terzo od a un quarto. Il notaio vi ha forse spiegato che il codice civile vuole ciò per impedire che la terra resti tutta in proprietà dei primogeniti, come si usava una volta. Gli altri figli dovevano andare per il mondo a procacciarsi da vivere, ed il primogenito restava a casa, ben provveduto. Ed accadeva che, per queste ed altre ragioni, ci fossero troppe grandi tenute, troppi di quelli che nell’Italia, da Roma in giù, si chiamano latifondi, male coltivati, perché i proprietari hanno troppa terra. La divisione tra i figli, imposta dal codice, ha avuto per effetto che in parecchie regioni d’Italia, in Francia; in Svizzera, le grosse tenute si sono spezzate; ogni proprietario ha avuto meno terra da coltivare e l’ha coltivata meglio. La produzione dei terreni è aumentata. I contadini lavoranti, meglio richiesti, hanno ricevuto salari migliori e hanno lavorato per un numero di giorni maggiore. Sul mercato, tutto è mutato: salari, fitti e prezzi.

 

 

Certamente, non sono mutati solo per la ragione ora detta; ma questa ha contribuito in una certa misura al cambiamento. Si vede perciò come una disposizione della legge, come quella che il padre può disporre di una parte sola del suo patrimonio e la parte restante, spesso la maggior parte, deve dividerla ugualmente tra i figli, può influire sul mercato.

 

 

17. L’importanza delle imposte sulle eredità.

 

Voi sapete, anche perché siete andati o i vostri genitori sono andati a pagare qualche tassa all’ufficio del registro, che le eredità non spettano sempre tutte ai figli ed ai parenti, ma che lo stato se ne piglia la sua bella parte, una parte tanto più grossa quanto più grossa è la eredità o quanto più lontano nell’ordine della parentela è il parente beneficato. Ciò non accade solo perché lo stato deve pur vivere ed ha bisogno che i cittadini gli paghino le imposte. Accade anche perché coloro che hanno fatto le leggi hanno creduto bene che i figli ed i parenti lontani non godano tutto il frutto del lavoro e del risparmio dei loro vecchi e per impedire che le fortune rimangano immobilizzate di padre in figlio nella stessa famiglia. Dice il proverbio: il padre fa dei sacrifici, delle rinunce, risparmia e si fa un patrimonio; il figlio lo conserva ed il nipote se lo mangia. In generale ciò è probabilmente abbastanza vicino al vero. Ma i legislatori hanno creduto bene di dare una tal quale spinta a questo processo naturale, anche per arrivare in tempo a far godere almeno in parte la società intiera, rappresentata dallo stato, dei patrimoni accumulati in passato dagli avi, prima che i nipoti ed i pronipoti se li mangino. Mangiare per mangiare, si è detto, è meglio che mangi lo stato, a nome e per conto di tutti. Non bisogna, anche qui, spingere la tesi troppo oltre. L’ideale sarebbe che i patrimoni non li mangiasse nessuno, né i nipoti, né lo stato. E c’è anche l’altro motivo, già detto prima a proposito della legittima, che mettendo una tassa tanto più forte quanto più elevato è il patrimonio, si impedisce il perpetuarsi dei patrimoni troppo grossi e si favorisce il loro frazionamento.

 

 

C’è chi, tenendo conto dell’ora detto, vorrebbe che la tassa di successione fosse ancora modificata nel senso che i patrimoni pagassero di più non solo in ragione della loro grandezza, ma anche in ragione della loro antichità. Per esempio, quel fondo dovrebbe pagare il 10 per cento quando passa dal padre al figlio; lo stesso fondo pagherebbe un altro 40 per cento passando dal figlio al nipote; e finalmente il restante 50 per cento passando dal nipote al pronipote; cosicché il pronipote in realtà, di quel fondo, non erediterebbe più niente. Ma se il nipote ha aggiunto al fondo vecchio un altro nuovo, allora il pronipote pagherebbe su questo solo il 10 per cento e così via. Naturalmente, la tassa colpirebbe il valore del fondo e non il fondo per sé. L’essenziale della idea sarebbe che le eredità siano trasferite solo entro certi limiti da una generazione all’altra, per costringere le nuove generazioni a lavorare invece di perdere il tempo nell’ozio. Comunque sia di ciò, si vede come le leggi sulle eredità influiscano sulla produzione e sulla distribuzione della ricchezza e quindi sui mercati, sui salari e sui prezzi. Le leggi buone producono buoni risultati e quelle cattive li producono cattivi. Le une incitano allo spreco, le altre al lavoro. Sul mercato si formano sempre i prezzi in modo automatico; ma i prezzi che si formano sono diversi a seconda che ci sono pochi o molti proprietari, a seconda che la gente è spinta a lavorare, ad inventare, a progredire, od a seconda che languisce nell’ozio. Perciò grande è l’importanza del fare leggi buone.

 

 

18. L’influenza sul mercato della buona o cattiva moneta, dei buoni governi e di quelli cattivi.

 

Si pensi al danno che i più hanno dovuto sopportare ed ai guadagni che i meno hanno ottenuto a causa della cattiva moneta che i governi hanno stampato e mandato in giro nei diversi paesi.

 

 

Si ricordi quel che è accaduto al marco tedesco, alla corona austro-ungarica e in minori proporzioni alla lira italiana, al franco francese, al franco belga ecc. dopo l’altra grande guerra. I governi per far fronte alle spese pubbliche, non incassando abbastanza imposte e non trovando sufficiente credito, stamparono biglietti, taluni in misura stragrande. I cittadini, trovandosi tutta quella carta in mano – ricevuta per stipendi, paghe, forniture ecc. – cercavano di comprare merci e facevano salire i prezzi. I governi, che dovevano perciò pagare più caro tutto ciò che ad essi bisognava, dovevano stampare carta-moneta in quantità ancor maggiore di prima. Chi la riceveva a sua volta, volendola spendere, doveva pagare tutto ancor più caro. Era un circolo vizioso, senza fine dicendo. In tali condizioni nessuno risparmia. Perché risparmiare, se a mettere da parte 100 marchi o corone o lire o franchi che oggi comprano un litro di olio, domani le stesse 100 unità compreranno solo più mezzo litro di olio e poi un quarto di litro di olio? Ma, se nessuno risparmia, come le industrie troveranno domani i capitali di cui hanno bisogno; come si potranno far lavorare gli operai? Questi debbono ogni mese chiedere un aumento di salario, non per migliorare, ma semplicemente per compensare il crescente carovita; ma più crescono i salari, più la roba costa cara a produrre e bisogna aumentare i prezzi. È una corsa al disordine e alla rovina di tutti. Tutti sono sfiduciati e irritati. Guadagnano solo gli intermediari, gli speculatori, coloro che arrivano a vendere in fretta più cara la loro merce prima che siano aumentate le spese delle loro materie prime e i salari pagati ai loro operai. Cosa vale la fortuna dei pochi in confronto alla rovina del paese? Perché ciò è accaduto? Si potrebbe discorrere molto in proposito; ma la cosa essenziale da tenere in mente è questa: in Svizzera il paese è stato amministrato bene da un Consiglio federale, composto di gente per bene, onesta, che voleva fare l’interesse dei cittadini, dalla cui elezione esso in fondo proveniva. Esso ha fatto fronte ai bisogni della Confederazione (ed i governi cantonali a quelli dei cantoni ed i consigli municipali a quelli dei municipi) con i sistemi ordinari, senza ricorrere al torchio dei biglietti, ossia senza stampare nuovi biglietti, più del necessario. In Italia invece, le cose sono andate come tutti sanno; e mentre si diceva di volere difendere la lira fino all’ultimo sangue, si seguitò a stampare biglietti ed a furia di crescere, quella carta, di cui 20 anni fa ce ne erano in giro solo 20 miliardi ed ora ce ne saranno 200 e la cifra cresce quotidianamente, quella carta è diventata cartaccia e non vale quasi più niente. In Germania e in Austria marchi e corone andarono a finire a zero. Auguriamo e speriamo che in Italia stavolta la corsa al ribasso si arresti prima e che la lira possa essere fermata ad un certo punto. Ma il paragone si impone.

 

 

Ecco l’importanza di un buon governo e di un’amministrazione onesta che sappia ispirare fiducia nell’avvenire e sicurezza nel presente; ed all’opposto di un governo dal quale nascono solo sfiducia, cattiva sicurezza, disordine nei prezzi, nei valori, nei redditi, in tutto ciò che riguarda la vita quotidiana.

 

 

19. La libertà di associazione operaia e di sciopero ed i salari.

 

Un ultimo esempio – ma si potrebbe seguitare a lungo – sulla influenza delle leggi sui prezzi di mercato. Il salario è il prezzo che si paga per una giornata di lavoro dell’operaio. Varia, naturalmente, a seconda della specie del lavoro, della capacità e laboriosità dell’operaio e di molte altre circostanze. Ma varia anche a seconda del codice penale e del modo come esso è interpretato. Prima del 1880 la giornata del contadino bracciante nella valle del Po, nelle province più fertili dell’Italia, stava su una lira per gli uomini e sui 50 centesimi per le donne. Questo l’on. Giolitti, l’antico presidente del consiglio, ricordò più volte al parlamento. Le cause erano molte; ma una merita di essere ricordata; il codice penale di quel tempo considerava reato lo sciopero e reato l’accordo di più lavoratori e ancor più l’incitamento allo scopo di scioperare.

 

 

Come potevano i lavoratori, uno ad uno, far sentire le proprie ragioni? Essi erano, nel contrattare il salario, in condizioni di inferiorità di fronte ai padroni, i quali, essendo in pochi, si potevano, senza farlo sapere a nessuno, mettere facilmente d’accordo e tener bassi i salari. I lavoratori scioperarono lo stesso. Si ebbero alcuni processi celebri, fra cui quello di Mantova, i quali richiamarono l’attenzione del parlamento sull’ingiustizia del codice.

 

 

Un nuovo codice penale, del 1889, detto Zanardelli, dal nome del guardasigilli proponente, abolì il reato di sciopero. Gli accordi diventarono leciti e furono proibiti solo gli atti con cui si fosse tentato di impedire, con la violenza fisica o morale, di andare al lavoro a coloro che non volevano scioperare. Il che è giusto, perché ognuno deve essere libero di lavorare o non lavorare, a suo piacimento, se non si vuol far risorgere la schiavitù. «Il risultato fu che si cominciò a scioperare liberamente ed i salari salirono. I padroni per un po’ si lamentarono, ma alla fine avevano dovuto riconoscere che non tutto il male viene per nuocere. Sotto la spinta di salari più alti, essi, se non vollero andare in malora, dovettero usare macchine più perfezionate ed adottare sistemi produttivi più moderni nelle fabbriche. Nelle campagne provvidero ad usare concimi chimici, ad applicare rotazioni razionali fra le diverse coltivazioni, introdussero falciatrici, mietitrici meccaniche, motoaratrici; e, producendo di più, poterono pagare salari più elevati. Ecco come una modificazione del codice penale ha contribuito a far arrivare più grano, più bestiame sul mercato, a far ribassare i prezzi, a far aumentare i salari».

 

 

L’analisi del fenomeno, quale l’on. Giolitti usava fare, col solito suo metodo estremamente semplificatore, non era forse in tutto esatta. Non si può affermare che la liceità delle leghe e degli scioperi e l’azione delle leghe e degli scioperi siano state la causa determinante dei rialzi dei salari, dell’adozione delle macchine agricole e del perfezionamento dell’agricoltura italiana dopo il 1890. Anche qui non bisogna cadere nell’errore di credere che basti chiedere qualcosa e scioperare ed organizzarsi per ottenere quel che si vuole. Come gli industriali e gli agricoltori non possono fissare i prezzi che vogliono, così gli operai non possono ottenere i salari che vogliono. In definitiva il mercato comanda ad amendue. A sua volta, tuttavia, il mercato deve tener conto delle mutazioni che si sono verificate nel mondo. Quei contadini del mantovano o della bassa lombarda che erano pagati una lira al giorno erano gente miserabile, che aveva poca istruzione, che aveva sì poche pretese, ma rendeva forse ancor meno. I contadini della nuova generazione, capaci di intendersi e di associarsi, atti ad occuparsi della cosa comune, capaci di resistere con le loro leghe a quelle che essi considerano prepotenze, furono uomini diversi, i quali cominciarono ad apprezzare l’istruzione, anche tecnico-agricola e pretesero di essere meglio pagati sapendo di valere di più! È naturale che i loro salari diventassero più alti.

 

 

Erano altri e diversi i lavoratori i quali arrivavano sul mercato. Erano diversi anche gli agricoltori che li occupavano: capaci di applicare nuovi metodi colturali, di ottenere maggiori prodotti. Mutati i dati del problema, mutarono i risultati e si ebbero salari più alti, prodotti maggiori, redditi della terra cresciuti e prezzi capitali maggiori.

 

 

Dopo, venne un altro governo, che ritolse ai lavoratori il diritto di sciopero e vi sostituì le corporazioni con cui affermava di conciliare l’interesse di tutte le classi. In realtà quello fu un sistema che rappresentò l’interesse e la volontà di una persona sola e del gruppo che gli stava attorno. Pur non volendo qui fare della politica, si deve esprimere per lo meno il dubbio che il nuovo sistema abbia giovato alla nazione, ai produttori, ai lavoratori ed ai consumatori.

 

 

20. L’influenza delle possibilità per tutti di tirocinio e di istruzione.

 

Poiché parliamo di salari, discorriamo ancora di un fatto che forse avrà già attirato la vostra attenzione. Fattorini di banca, commessi di bottega, non quelli anziani, sperimentati, di fiducia, che tengono il negozio, ma quelli giovani, che fanno le corse, i ragazzi degli ascensori degli alberghi che aprono le porte, i portapacchi capaci di correre in bicicletta, sono spesso pagati poco e male. Pigliano dei gran scapaccioni, ma denari pochi. Passano così gli anni migliori della vita e dopo il servizio militare, se la caserma non li ha migliorati, non son più buoni a fare le corse e debbono adattarsi ad ogni sorta di mestiere. Mestieri qualunque che tutti son buoni a sbrigare, che non richiedono grande istruzione, lungo tirocinio e sono i peggio pagati di tutti. Eppure, se non avessero dovuto cominciare a quindici anni a fare il ragazzino delle corse, anche costoro avrebbero potuto imparare a fare qualche buon mestiere, con maggiori esigenze di tirocinio e di istruzione, ma in compenso più sicuro e meglio pagato.

 

 

La spiegazione che si dà è sempre la stessa: i genitori erano poveri ed avevano bisogno di mettere subito il ragazzo a lavorare. Ed i ragazzi, si sa, corrono volentieri in bicicletta e si pavoneggiano ad aprire porte di ascensori in una bella divisa con i bottoni luccicanti; tanto più se in giunta hanno qualche soldo in tasca ed acchiappano mance. Poi da vecchi la spurgano. Non sempre la spiegazione è buona; ché i genitori talvolta non erano tanto poveri quanto ubriaconi o noncuranti dei figli ed incapaci a indirizzarli. Comunque sia, c’è qualcosa che non va nella educazione di tanti ragazzi e di tante ragazze e nei salari che in conseguenza si formano sul mercato. Supponete che, invece di essere costretti o invogliati a lavorare troppo presto, quei ragazzi avessero potuto seguitare a studiare; a frequentare una scuola tecnica o industriale o magari il ginnasio, a seconda della inclinazione. Supponiamo che tutti i giovani volenterosi possano studiare sino a che il loro desiderio di apprendere sia soddisfatto; che senza incoraggiare i poltroni desiderosi soltanto di scaldare i banchi della scuola, si offrano a tutti coloro che lo desiderassero e che dimostrassero, studiando sul serio, di essere meritevoli dell’aiuto loro offerto, modeste sufficienti borse di studio; forse che sul mercato del lavoro non si sarebbero, giunti a diciotto, a venti, a venticinque anni, presentati in qualità di tecnici capaci di disegnare e di dirigere macchine, chimici periti in uno stabilimento, contabili pratici di tener conti, contadini capaci di potare frutta, periti di orticoltura, di floricoltura, di incroci di bestiame e di volatili ecc. ecc., gente insomma capace di contribuire all’incremento della produzione e di meritare salari assai migliori di quelli a cui può aspirare un pover’uomo che non è più in grado di fare le corse e di portare pacchi, ma sa fare solo cose che tutti sono buoni a fare? E si noti che anche quelli che fossero rimasti a portare pacchi ed a fare lavori comuni, trovandosi sul mercato in meno, potrebbero avere lavoro più sicuro e meglio rimunerato. Chi esclude che qualcuno di questi ragazzi, avendo la possibilità di studiare, non faccia qualche scoperta grande? Anche senza esagerare questa possibilità e, pur tenendo conto del fatto che chi ha davvero la scintilla del genio riesce non troppo di rado a trovare la sua strada attraverso le prove più dure, bisogna riconoscere che talvolta le difficoltà per i poveri sono così grandi che nessun volere è potere le può vincere. Ecco perciò come un cattivo o un buon sistema di educazione, come la possibilità offerta a taluni soltanto od a tutti di seguire i diversi stadi d’istruzione, dalla elementare alla media ed alla superiore universitaria, possa influire sulla vita economica, sulla formazione dei prezzi e dei salari e degli stipendi e dei profitti, possa rallentare o stimolare la produzione della ricchezza. Durante il secolo scorso e quello presente si sono, ricordiamolo per non incorrere nell’errore di credere che in passato non si sia fatto nulla, compiuti enormi progressi in materia di istruzione. Dal giorno in cui quasi tutti in Italia erano analfabeti ad oggi in cui l’analfabetismo è un’eccezione, si son fatti dei gran bei passi avanti. Appunto i progressi compiuti ci persuadono di quelli ugualmente imponenti che si debbono ancora fare. È un errore grave credere che sia dannoso mettere tanta gente allo studio. Non ce ne sarà mai troppa, fino a che tra i sei ed i venti – venticinque anni ci sarà qualcuno il quale non abbia avuto l’opportunità di studiare quanto voleva e poteva. Il male non sta nella troppa istruzione, come non sta nel produrre troppa roba. Di roba non ce n’è mai troppa al mondo. Quel che occorre è che non ve ne sia troppa di un genere e troppo poca di un altro. Parimenti, in fatto di educazione, il danno non è che ci sia troppa gente istruita, ma che ci siano troppi avvocati e troppo pochi medici o viceversa; troppi disegnatori e troppo pochi contabili o viceversa; troppi contadini che coltivano cereali e troppo pochi che piantino patate o viceversa; e così via.

 

 

21. Conclusione: il compito del mercato e come lo si può indirizzare.

 

A dare le opportune indicazioni, a dire quel che si deve fare e quel che non si deve fare, a indirizzare i produttori, industriali, agricoltori, commercianti verso i rami di lavoro nei quali esiste una scarsità relativa ed allontanarli da quelli nei quali c’è una relativa abbondanza in confronto alla domanda esistente dei corrispondenti prodotti, ad insegnare ai giovani od ai loro genitori quale è il tipo di istruzione che conviene più seguire in un certo momento, provvede il mercato. Vi provvede facendo ribassare i prezzi delle merci prodotte con abbondanza eccessiva, e rialzare quelli di cui vi è scarsità. Vi provvede facendo rialzare i salari degli operai più richiesti e ribassare quelli dei mestieri troppo affollati; vi provvede dando profitti agli imprenditori i quali scoprono le merci nuove o provvedono a servizi domandati dal pubblico e mandando in malora (fallimento) coloro che producono merci cattive, non richieste od a costo troppo alto.

 

 

Ma il mercato non può essere abbandonato a se stesso. Il legislatore, ossia noi stessi che dobbiamo eleggere coloro che fanno le leggi, dobbiamo sapere che il mercato può essere falsato da monopoli. Fin che si tratta di piccole trincee che ogni produttore scava intorno a sé per proteggersi contro i concorrenti, poco male. Possiamo tollerare, anzi non ci dispiace, che un negoziante gentile, con buone parole, sorrisi cortesi e ringraziamenti cordiali, eserciti una specie di monopolio sulla clientela a danno del burbero e maleducato; ma possiamo impedire che monopolisti veri e propri rialzino i prezzi, scemino la produzione e guadagnino grosso.

 

 

Così pure possiamo e perciò dobbiamo far sì che il mercato utilizzi le sue buone attitudini a governare la produzione e la distribuzione della ricchezza entro certi limiti, che noi consideriamo giusti e conformi ai nostri ideali di una società, nella quale tutti gli uomini abbiano la possibilità di sviluppare nel modo migliore le loro attitudini, e nella quale, pur non arrivando alla eguaglianza assoluta, compatibile solo con la vita dei formicai e degli alveari – che per gli uomini si chiamano tirannidi, dittature, regimi totalitari – non esistano diseguaglianze eccessive di fortune e di redditi. Perciò noi dobbiamo darci buone leggi, buone istruzioni, creare un buon sistema di istruzione accessibile e adatto alle varie capacità umane, creare buoni costumi. Dobbiamo perciò cercare di essere uomini consapevoli, desiderosi di venire illuminati e di istruirci e dobbiamo, in una nobile gara, tendere verso l’alto. Il mercato, che è già uno stupendo meccanismo, capace di dare i migliori risultati entro i limiti delle istituzioni, dei costumi, delle leggi esistenti, può dare risultati ancor più stupendi se noi sapremo perfezionare e riformare le istituzioni, i costumi, le leggi, entro le quali esso vive allo scopo di toccare più alti ideali di vita.

Lo potremo se vorremo.

 

 



[1] Ristampa di Che cos’è un mercato, Locarno, Tip. f.lli Mole, 1944, pp. 44, ripubblicato l’anno successivo col titolo I mercati e i prezzi in Uomo e cittadino, a cura del Comitato italiano di cultura sociale, Gümligen (Berna), YMCA, 1945, pp. 181-225.

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