di Luca Tedesco
Un fil rouge della riflessione einaudiana primonovecentesca era la convinzione che solo l’esistenza di ceti medi moralmente ed economicamente solidi ed indipendenti dallo Stato fosse una sicura garanzia di stabilità sociale e progresso civile.
Fin dagli anni del take-off giolittiano, infatti, i numerosi interventi di Einaudi su «La Riforma sociale», «L’Unità» di Salvemini e il «Corriere della Sera» di Albertini testimoniavano l’esigenza di un rinnovamento della borghesia e dei ceti produttivi che si affidasse ai meccanismi della libera concorrenza e della competizione. Durissima, al contempo, era la requisitoria nei confronti dei capitalisti «parassitari» che ricorrevano agli strumenti del protezionismo e delle commesse statali per garantirsi la sopravvivenza; capitalisti che, come noto, vennero sprezzantemente definiti trivellatori in un articolo del 1912, con evidente allusione non solo alle perforazioni in territorio libico ma anche ai «saccheggi» perpetrati a danno del bilancio dello Stato[1].
La caduta dei «pilastri» del successo economico delle nazioni civili, ovverosia i valori della «parsimonia» e dell’«operosità» individuali, era stata poi per Einaudi definitiva all’indomani della conclusione del primo conflitto mondiale, allorquando tutti i ceti sociali, e quello imprenditoriale in misura perfino maggiore di quello operaio, avevano iniziato ad «elemosinare» aiuti e provvidenze a carico delle casse statali[2]. Di fronte alla prassi invalsa che vedeva lo Stato sopperire ai costi degli errori degli industriali mediante alti prezzi di fornitura e sussidi «impallidivano – difatti – le esorbitanze dei cooperatori e dei leghisti rossi, se pure anch’essi decisi all’assalto della pubblica pecunia»[3]. A tale assalto i ceti produttori che non avevano nello Stato il proprio committente, quelli che Einaudi definisce le «antiche classi indipendenti»[4] costituenti «il volto di una democrazia rurale e cittadinesca»[5], non si erano opposti, palesando la loro estraneità alla vita della comunità nazionale. Mancava nei ceti medi indipendenti la consapevolezza «di esser essi medesimi lo stato, che fa considerare ingiuria propria quella arrecata allo stato»[6]. La «maggioranza, laboriosa, ma passiva ed ignara […], la solita maggioranza che fatica e tace», aveva poi assistito impotente anche all’invasione delle terre e all’occupazione delle fabbriche da parte di contadini e operai, «incitati dall’esempio dei capi dell’industria e della finanza»[7].
L’origine della crisi veniva individuata in fattori di ordine etico, non economico. Il «veleno» che corrodeva l’Italia nel primo dopoguerra, scriveva l’economista piemontese, «era morale e operò per vie morali, che si chiamano invidia, odio, superbia, lussuria, rapina, miseria, vendetta, ignoranza»[8] ed era un prodotto del conflitto bellico che «aveva inoculato nelle classi dirigenti e nel popolo germi di malattia morale più distruttivi di quelli che producevano guasti economici»[9]. Il «collettivismo» bellico, grazie all’inflazione monetaria, aveva reso popolare l’idea, che «in germe esisteva già prima, dello Stato garante della felicità e della sicurezza per tutti»[10]. Da qui la tentazione da parte dei vari ceti sociali, inclusi gli industriali e i banchieri, di «rinunciare alla propria indipendenza economica» e di «associarsi allo stato nella vana speranza di accollare» a quest’ultimo «i rischi della propria impresa, conservando per sé i benefici»[11].
Gli anni della Grande Depressione avrebbero poi portato Einaudi a identificare sostanzialmente keynesismo ed esperienza corporativa fascista e a rafforzarsi nella convinzione che uno sviluppo equilibrato risiedesse nella piccola impresa, meglio se familiare, e non nelle grandi imprese tendenti al monopolio. Rivelatore in questo senso è un articolo dell’autunno 1932 in cui l’economista piemontese ipotizza che il flusso annuo del reddito nazionale sia frutto non tanto della grande impresa «regolata, disciplinata, vincolata», bensì di quella piccola e media avente il suo fulcro «nella infrangibile unità familiare»[12]. È stato giustamente osservato che è proprio la crisi degli anni Trenta a far incontrare Einaudi e gran parte della cultura cattolica sul terreno del rifiuto della nuova realtà industriale mono-oligopolistica statunitense, giudicata da entrambi pericolosamente massificante e livellatrice dei gusti e dei consumi[13]. La resistenza a identificare «sviluppo capitalistico e grande dimensione taylorizzata, – quindi – secondo lo stereotipo che è divenuto dominante nella cultura europea tra le due guerre, rendeva il modello einaudiano estremamente idoneo a interpretare una fase di sviluppo orizzontale dell’economia del paese, quale si produrrà dopo il 1945»[14].
Una delle prime misure che adottò Einaudi nella sua veste di ministro del Bilancio fu quella di ripristinare nel luglio 1947 il Comitato interministeriale per il credito e il risparmio che, varato dalla legge bancaria del 1936, era stato abolito nel 1944 e che aveva come compito quello di vigilare in materia valutaria, di tutela del risparmio e di esercizio della funzione creditizia. Tale comitato decise nell’agosto l’introduzione, a partire dal 30 settembre successivo, di un sistema di riserve bancarie obbligatorie. Einaudi difendeva la sua decisione di procedere a una contrazione del credito appellandosi alla necessità improrogabile della «tutela dei risparmiatori», concepita come il fine principale dell’azione di governo[15]. «Le banche – scriveva sulle colonne del «Corriere della Sera» – hanno il torto di incolpare il Tesoro e la banca d’Italia di una restrizione di credito che è il risultato fatale della condotta da esse tenuta nei 14 mesi decorsi: avendo dato alle industrie tutto e, anzi, qualcosa di più di tutto ciò che esse hanno ricevuto dai depositanti, le banche sono giunte ad un limite d’impiego […] che sarebbe pericoloso, anzi folle, superare»[16]. Già poche settimane prima del suo ingresso nella compagine governativa, Einaudi aveva ricordato come il conflitto bellico e la successiva svalutazione monetaria avessero colpito duramente i redditi di «milioni di medi e piccoli risparmiatori»[17].
In occasione del «prestito della ricostruzione», varato nell’autunno del 1946 e conclusosi nel gennaio 1947 con il consenso pressoché unanime di tutti i partiti, aveva poi affermato che il suo successo fosse da ascrivere a «quelle api dal ronzio sommesso che si chiamano “risparmiatori”». Se la realtà aveva superato non solo il «probabile» ma anche il «verosimile», ciò andava attribuito a quello che veniva solennemente definito il «patriottismo dei sottoscrittori»[18]. In effetti, tramite questa operazione furono raccolti 231 miliardi tra denaro liquido, buoni del tesoro e conversione di debiti statali rateizzati per le forniture militari, un risultato non disprezzabile secondo Einaudi anche se al di sotto delle necessità finanziare indispensabili per la ricostruzione.
In un intervento parlamentare dell’ottobre 1947 il ministro del Bilancio tesseva un altissimo elogio dei meriti storici dei risparmiatori ed affermava lo strettissimo legame esistente tra il risparmio e l’opera di ricostruzione in cui era impegnato il Paese: «il risparmiatore italiano, con i suoi mezzi, ha provveduto a che si ricostruissero le ferrovie, si rifacessero le strade; ha compiuto un’opera che, domani, quando sarà considerata nel suo complesso, dovrà essere definita grandiosa. Esso, bisogna riconoscerlo, non avrebbe potuto ricostruire – risparmiare vuol dire ricostruire, è la premessa e la sostanza medesima della ricostruzione – se non fosse stato aiutato nel frattempo a vivere, a mangiare e vestire, dai soccorsi americani. Ma gli italiani non si sono adagiati passivamente ai soccorsi altrui. Se ne sono dimostrati degni, faticando a ricostruire, risparmiando, per potere in avvenire fare da sé»[19]. Tramite le misure di restrizione dei crediti all’industria e al commercio e di drastica riduzione della liquidità bancaria promosse dal governo nell’ottobre 1947 la velocità di circolazione della moneta rallentò e gli industriali furono costretti a riversare sul mercato le scorte, contribuendo così a raffreddare i prezzi.
Le ragioni che avevano convinto Einaudi ad adottare tali provvedimenti, ripetiamo, sono pienamente comprensibili solo se si tiene a mente la funzione vitale che egli assegnava alla figura del risparmiatore nel salvaguardare una società economicamente sana. «È troppo comodo – ammoniva il ministro del Bilancio nell’intervento parlamentare citato – conservare in beni reali il frutto dei propri utili e poi chiedere allo stato direttamente o indirettamente sovvenzioni in lire per l’esercizio della propria azienda principale. Il meccanismo è chiaro: chiedendo sovvenzioni, quando si sa che le sovvenzioni non possono essere date se non col mezzo dell’aumento della circolazione, si è praticamente certi che quella sovvenzione, quando sarà restituita, se era di un miliardo come potenza di acquisto, sarà restituita in un miliardo nominale, ma quel miliardo nominale varrà soltanto un mezzo o magari un terzo di miliardo come potenza d’acquisto. Si sarà verificata una trasposizione di fortune, da chi a chi? Dalla povera gente che ha risparmiato, che ha depositato i denari, che ha comperato i titoli del debito pubblico […] a favore di coloro i quali hanno trovato la elegante maniera sovradescritta di sovvenire ai bisogni delle proprie aziende senza proprio sacrificio»[20].
Fin dall’aprile 1945, in un articolo apparso su «Risorgimento liberale», l’economista piemontese aveva illustrato i terribili effetti di disgregazione sociale prodotti dal fenomeno inflazionistico. Da una parte, infatti, «c’è chi resta con le piante attaccate alla terra e sono i percettori di redditi fissi, i pensionati privati, coloro che hanno redditi vincolati. Costoro avevano cento di reddito e, restando con lo stesso reddito, fanno la fame, con i prezzi moltiplicati per dieci, per venti, per cinquanta»; dall’altra vi «sono i borsari neri o commercianti improvvisati, che ad ogni giro di merce guadagnano grosse percentuali di profitto. In mezzo stanno coloro che hanno redditi aumentati, ma taluni meno e taluni più dell’aumento dei prezzi […], tutti si lamentano: i primi a ragione ed i secondi perché invidiosi di coloro che guadagnano di più e timorosi di vedersi portar via quel che hanno guadagnato»[21].
L’inflazione equivaleva quindi per Einaudi a «tragedia sociale», «lotta fratricida», «caos sociale». Ad essa erano infatti principalmente da addebitare la distruzione dei ceti medi, ossatura di ogni società democratica, e l’affermazione dei regimi dittatoriali.
Nel 1946 l’economista piemontese avrebbe riaffermato con forza la definizione di inflazione come flagello, «perché distrugge i ceti medi, perché arricchisce senza merito gli uni ed impoverisce senza colpa gli altri; perché crea l’odio e l’invidia fra classe e classe ed è alla radice delle convulsioni caratteristiche del tempo nostro»[22].
Quasi a parafrasare il Marx del Manifesto, esaltante la funzione storica di quella classe borghese che aveva fatto ben più delle piramidi egiziane, degli acquedotti romani e delle cattedrali gotiche, Einaudi scriveva con linguaggio immaginifico che il ceto medio aveva prodotto «la grandezza delle città greche nell’antichità, delle città medievali italiane e fiamminghe e forma ora il nerbo della civiltà occidentale»[23].
E proprio alla svolta deflazionistica, secondo i suoi sostenitori, andava ascritta la salvezza della moneta italiana dalla rovina iperinflazionistica che aveva colpito all’indomani del primo conflitto mondiale la Germania. La «posizione ortodossa in materia di politica monetaria e fiscale, inclusa la ricostituzione delle riserve valutarie»[24], avrebbe peraltro incontrato, come noto, «forti critiche non solo dalla sinistra, ma anche dall’amministrazione del Piano Marshall»[25]. I funzionari americani, infatti, nel loro Italy-Country Study, pubblicato nel febbraio del 1949 ma redatto nella seconda metà del 1948, ritenevano che obiettivo principale della politica economica dovesse essere l’incremento dell’occupazione[26]. A tale fine era necessario abbandonare la deflazione e intraprendere massicci investimenti pubblici a causa della debole domanda di consumi.
Coerentemente con l’assunto teorico che qualificava come «equo» il prelievo fiscale sul solo reddito consumato, Einaudi fu poi particolarmente ostile all’ipotesi di tassare gli incrementi patrimoniali, ipotesi giudicata contraria «all’avanzamento economico, alla stabilità sociale, alla solidità familiare» in quanto inibente la formazione della ricchezza e la crescita dei redditi. «Risparmiare e quindi arricchire, incrementare la propria fortuna […], ampliare la fabbrica, migliorare i terreni […] che cosa è? Forse un delitto? […] – si chiedeva retoricamente l’economista piemontese -. Oggi non si sa più quale significato dare al risparmio, all’operosità feconda, all’iniziativa, alla capacità di organizzazione»[27].
L’accenno alla stabilità sociale svelava le ragioni anche politiche sottostanti le misure che Einaudi avrebbe caldeggiato e che avrebbero risposto a quello che è stato definito un indirizzo di stabilizzazione dei rapporti tra le classi sociali, misure però che se tutelavano, nella vasta categoria dei ceti medi, gli strati impiegatizi e i percettori di redditi fissi, contraevano investimenti e ostacolavano l’accesso al credito di artigiani e piccoli imprenditori.
[1] L. Einaudi, I fasti italiani degli aspiranti trivellatori della Tripolitania, in «La Riforma sociale», marzo 1912, pp. 161-193.
[2] Idem, La condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana, Bari-New Haven, Laterza, Yale University Press, 1933, pp. 264-281.
[3] Ivi, p. 279.
[4] Ivi, p. 406.
[5] Ivi, pp. 9-10.
[6] Ivi, p. 26.
[7] Ivi, p. 281.
[8] Idem, Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Einaudi, Torino 1961, vol. V, p. XXXIII.
[9] Idem, La condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana, cit., p. 387.
[10] Ivi, pp. XXIX-XXX.
[11] Ivi, pp. 407- 408.
[12] L. Einaudi, Bardature della crisi, in «La Riforma sociale», settembre-ottobre 1932.
[13] L. Paggi, Strategie politiche e modelli di società nel rapporto Usa- Europa (1930-1950), in Idem (a cura di), Americanismo e riformismo. La socialdemocrazia europea nell’economia mondiale aperta, Einaudi, Torino 1989, p. 97.
[14] Ibidem.
[15] L. Einaudi, Vincoli del credito, in «Corriere della Sera», 7 settembre 1947, p. 1.
[16] Ibidem.
[17] Idem, Il pugno di mosche dei risparmiatori, in «Corriere della Sera», 4 maggio 1947, p. 1.
[18] Idem, Successo del prestito, ivi, 19 gennaio 1947, p. 1.
[19] Idem, Politica economica e finanziaria, in Idem, Interventi e relazioni parlamentari, Fondazione Luigi Einaudi, Torino 1982, vol. II, p. 733 (intervento parlamentare del 4 ottobre 1947).
[20] Ivi, pp. 723-724.
[21] Idem, L’alzamento della moneta, in «Risorgimento liberale», 15 aprile 1945, p. 1.
[22] Idem, La coda della vacca, in «Corriere della Sera», 26 ottobre 1946, p. 1.
[23] Idem, Avvenire dei ceti medi, in «Corriere della Sera», 16 marzo 1947, p. 1.
[24] G. Toniolo, La crescita economica italiana, 1861-2011, in Idem (a cura di), L’Italia e l’economia mondiale dall’Unità a oggi, Venezia, 2013, p. 30.
[25] Ibidem.
[26] M. de Cecco, L’economia italiana vista dall’estero, in G. Toniolo (a cura di), L’Italia e l’economia mondiale dall’Unità a oggi, Venezia, 2013, p. 200.
[27] L. Einaudi, Manomorte tributarie, in «Risorgimento liberale», 1° marzo 1946, p. 1.