Opera Omnia Luigi Einaudi

Prefazione

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1961

Prefazione

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. XIII-XXXV

 

 

Il volume è tutto composto di articoli del tempo di guerra. Scrivevo (p. 281) :

 

 

Di fronte alle necessità della guerra cessa il diritto alla critica. Chi di noi oserebbe lamentarsi di fronte anche alla scomparsa totale del naviglio marittimo dal mercato dei trasporti non bellici quando, per ipotesi, ciò fosse necessario per la vittoria?

 

 

Ebbero perciò gran luogo negli articoli del giornale e nel volume sono solo in minor parte riprodotti, per evitare le assai frequenti, allora necessarie, ripetizioni – gli inviti a sottoscrivere ai prestiti che venivano, gli uni dopo gli altri, emessi a procacciar denaro allo stato.

 

 

Chi, tra i risparmiatori italiani, vorrà più tardi incorrere nel muto rimprovero che i suoi figli gli muoveranno di non aver compiuto ogni sforzo possibile, nell’ora solenne, per fare cosa utile ad essi ed insieme alla patria? (p. 108).

 

 

Ad incoraggiare l’afflusso del denaro nelle casse dello stato, plaudivo alla scoperta, (nel 1916), della forma «al portatore» dei buoni ordinari da sei a dodici mesi (p. 356). Fino allora i buoni ordinari erano tutti nominativi; e parve gran novità avere deliberato che essi potevano essere emessi anche al portatore, anche se «per ora» la novità non era estesa ai buoni più brevi, a tre mesi. Si vide poi che i buoni al portatore erano assai meglio accetti al pubblico dei buoni nominativi, i quali in pratica erano acquistati principalmente dalle banche e da enti e non potevano sorpassare una modesta somma (300 milioni di lire) fissata ogni anno nella legge di bilancio per sopperire alle momentanee esigente di cassa del tesoro. Presto si giunse ai miliardi e divenne, quella dei buoni ordinari, la maniera di sopperimento più importante in guerra ed in pace. A promuovere il risparmio, necessario da un lato per ridurre i consumi secondari o superflui e dall’altro lato a fornire allo stato i mezzi per i consumi bellici, divulgai (p. 370) in Italia, fin dal 1916, il metodo primamente usato in Inghilterra dei buoni o certificati, rimborsabili in qualunque momento a richiesta del risparmiatore, fecondi di frutto progressivamente crescente e retrodatato al momento dell’emissione, sicché il detentore avesse interesse, pur conservando la piena continua disponibilità del denaro, a serbarli in portafoglio per il maggior tempo possibile. I buoni furono, col nome di buoni fruttiferi postali, introdotti presto in Italia ed ebbero successo notabilissimo, sicché oggi sono lo strumento preferito di impiego dei risparmi della piccola e media gente, particolarmente nelle campagne.

 

 

In argomento di prestiti, pur riconoscendo che l’Italia non aveva toccato l’ideale, che sarebbe stato quello di coprire il fabbisogno bellico esclusivamente con il provento di nuove imposte e col ricavo di prestiti – ché in tal caso la spesa bellica sarebbe stata fatta con mezzi antichi, ossia con rinuncia ad altrettanti consumi privati e non sarebbe stato necessario stampare biglietti a vuoto, davo lode (p. 526) ai ministri del tesoro e delle finanze di avere

 

 

stabilito nuove imposte a mano mano che l’onere del bilancio cresceva a cagione dei debiti contratti.

 

 

In tal modo la pratica italiana, sebbene meno austera di quella inglese, la quale con le imposte copriva almeno una parte delle spese belliche, stava ben al disopra delle pratiche seguite in Germania, in Francia e nell’impero austro-ungarico, dove si era rinunciato apertamente a confessare ai cittadini che la guerra non si poteva vincere senza sacrificio (pp. 235 sgg. ). Il dott. Hellferich, ministro germanico delle finanze, nutriva, in verità,

 

 

fiducia di far coprire gran parte delle spese germaniche di guerra con le indennità dei paesi nemici vinti (p. 231).

 

 

La tesi, che era politica, gli consentiva di rinunciare a chiedere ai suoi il sacrificio di nuove imposte; ma la esigenza economica lo costringeva ad emettere prestiti grandiosi i quali erano stati, a parer mio, «un trionfo genuino». Riconoscevo che le accuse mosse a lui

 

 

di aver creato casse di credito pubbliche solo per mutuare biglietti a coloro i quali dovevano diventare i sottoscrittori dei suoi colossali prestiti (p. 229)

 

 

erano ingiuste, e, pur essendo egli nel campo avverso, osservavo che la tecnica seguita da lui nell’emissione dei due primi prestiti era perfetta. La testa di turco contro cui battevo più frequentemente e duramente era il torchio dei biglietti. Fin dal luglio 1915 notavo dolorosamente che (p. 98)

 

 

ancor oggi si incontrano persone, le quali reputano un beneficio le emissioni abbondanti di carta moneta e non sanno capacitarsi del perché gli stati si affannino tanto a contrar prestiti onerosi al 4,50 o 5% quando potrebbero farsi imprestare gratuitamente dai cittadini quante somme volessero, semplicemente stampando biglietti e pagando con essi tutti i propri creditori.

 

 

E snodavo la litania, oggi divulgatissima, degli effetti e dei danni delle emissioni sovrabbondanti di biglietti.

 

 

In quel tempo era divenuta popolare una critica rivolta contro gli alleati ed i neutrali:

 

 

essere uno scandalo che gli svizzeri vogliano lucrare 50 o 55 lire per ogni 100 dei loro franchi; che i francesi guadagnino il 30% e che gli inglesi ci vendano le loro sterline per 36-37 lire nostre invece che per 25 lire. Passi per i neutri, i quali non hanno nessun vincolo verso di noi; ma gli alleati dovrebbero moralmente essere obbligati ad accettare la nostra moneta alla pari e dovrebbero resistere alla tentazione di lucrar il 30 od il 40% a nostre spese.

 

 

La querela era esposta in articoli giornalistici ed in discorsi parlamentari in un tempo in cui per comprare un franco svizzero bastava spendere 1,50 lire italiane e per avere una lira sterlina si davano non più di 36 lire italiane. Non sono sicuro che nella testa di qualcuno in Italia non si nasconda un residuo del sofisma antico, oggi che per avere un franco svizzero occorre dare circa 150 lire italiane e per avere una lira sterlina fa d’uopo spendere 1750 lire italiane: e del pari 625 lire per ottenere quel dollaro, che prima del 1914 si cambiava con 5,25 lire nostre! Non ne sono sicuro, perché il sofisma nasce da un sentimento proprio dell’uomo, il quale attribuisce la responsabilità di un malanno che lo incolga non mai a se stesso, ma ad altri, al parente, all’amico, al collega, al concorrente, all’avversario. Se poi la colpa può essere data allo «straniero» , il ragionamento, anche se sbagliato, diventa senz’altro corretto, anzi incontrovertibile e chi lo smaschera è reo di leso-patriottismo. Nelle pagine del testo (da 433 a 438) il sofisma è a lungo confutato, più a lungo di quanto meritasse la evidenza dell’errore. Chi riscuoteva allora, per merce venduta agli inglesi, le 37 lire italiane invece della pari di 25 lire? Non gli inglesi, i quali pagavano nulla più e nulla meno che la solita lira sterlina; ma i venditori italiani della merce, i quali ricevevano allora 37 ed oggi riceverebbero 1750 lire; ed, apparentemente, «guadagnavano» 12 e guadagnerebbero oggi 1725 lire. Ma è tutta apparenza, ché per la abbondanza di segni monetari circolanti, le 37 lire di allora e le 1750 lire di oggi comprano o comprerebbero né più né meno delle 25 lire di prima del 1914. Il che voleva dire trattarsi di un affare interno, nazionale, fuor di ogni responsabilità straniera, di cui siamo responsabili noi che volemmo o consentimmo o tollerammo che i nostri governanti, per conseguire taluni fini pubblici (vittoria contro il nemico nel 1915-18, ed oggi strade, rimboschimenti, impianti ferroviario-portuali, lotta contro la palude o la malaria) o pseudo-pubblici (ferrovie inutili, palazzi superflui, impiegati esuberanti ecc. ecc.), invece di togliere denari preesistenti ai cittadini sotto forma di imposte o di prestiti, fabbricassero denaro nuovo e così crescessero i cambi esteri e svilissero la moneta nostra. Oggi, che di queste verità elementari tutti sono persuasi ed il pericolo sembra venuto meno, può parere inutile ristampare articoli del tempo in cui il sofisma correva ed il pericolo era attuale e si dimostrò in seguito distruttivo dell’assetto sociale. Ma, sicuro non sono che il sofisma non informi ancora il convincimento di troppi italiani. Il modo di dire, per fermo, rimane; e da esso è breve il passo al modo di pensare.

 

 

Correva nei giornali e nelle relazioni di governo o di commissioni parlamentari una teoria, la quale attribuiva l’aumento progressivo dell’aggio sull’oro e sulle monete straniere al disavanzo della bilancia commerciale. Ed era vero che

 

 

dallo scoppio della guerra europea alla fine di luglio 1917 – scrivevo il 15 dicembre 1917, a p. 456 – le importazioni di merci eccedettero le esportazioni per circa 8 miliardi e mezzo di lire,

 

 

somma suppergiù equivalente – vedi l’avvertenza a p. 792 di questo volume – a 12.750 miliardi di oggi.

 

 

Prima di affermare che la causa dell’aggio, ossia del deprezzamento della lira, sia il disavanzo della bilancia commerciale – ma si intendeva sempre parlare dello sbilancio totale o dei pagamenti – bisognava dimostrare che lo sbilancio esisteva. Orbene, a tacere dei guadagni della marina mercantile italiana, delle rimesse di emigranti e di altre sopravvenienze attive, le quali, anche negli anni di guerra, seguitavano ad arrivare,

 

 

non è forse vero che lo stato italiano ha esportato all’estero per miliardi di lire di titoli di debito? Far debiti all’estero è lo stesso che vendere od esportare all’estero nostri titoli di debito … È probabile che i debiti fatti dall’Italia in Inghilterra e negli Stati uniti siano stati sufficienti per coprire lo sbilancio tra importazioni ed esportazioni. Sì, noi comprammo 8 miliardi e mezzo di lire – carta di più di merci di quante non ne vendemmo all’estero; ma questi 8 miliardi e mezzo li pagammo con i crediti che ci furono aperti all’estero … Se questo è vero, come è possibile affermare che l’alto cambio derivi da una eccedenza che non esiste? … Se il cambio alto potesse concepirsi derivante da questa causa, noi avremmo il cambio alla pari. Un oculato e forte governo del tesoro e degli istituti di emissione – allora si parlava al plurale, perché accanto alla Banca d’Italia, avevano diritto di emettere biglietti anche i Banchi di Napoli e di Sicilia – basterebbe non solo a far scomparire le oscillazioni del cambio, ma l’aggio medesimo al disopra della pari (pp. 456-57).

 

 

Il sofisma assumeva così una forma meno grossolana di quella esaminata dianzi dell’attribuire senz’altro allo «straniero» la colpa di qualche nostra disgrazia; bensì l’altra di attribuirlo alla guerra, allo stato di necessità in cui la guerra ci aveva posto, di dovere fare spese di gran lunga superiori alle normali e di dovere perciò approvvigionarci all’estero in misura superiore alle nostre possibilità di pagamento. Che era un discolparsi apparentemente plausibile. Ma plausibile non era, perché si dimenticava che, in un mondo di uomini ragionanti, cittadini e governanti avrebbero visto che non si conduce guerra grossa, se non ci si sobbarca a grossi sacrifici di imposte nuove e di prestiti offerti mercé il risparmio ossia con la rinuncia a consumi anche ordinari. Ma nessuno, nemmeno nei paesi più ricchi, ebbe il coraggio della rinuncia. Piaceva lasciar credere che la guerra non avrebbe turbato troppo l’assetto normale della economia pubblica e privata; e sebbene noi, come osservai sopra, ci si fosse comportati abbastanza bene, non si ebbe il coraggio di aumentare le imposte come sarebbe stato necessario e si dovette perciò ricorrere, in misura notabile, agli indebitamenti coll’estero. Poiché questi non bastavano, si ebbe ricorso, per fronteggiare le spese interne, al torchio dei biglietti. Che fu la causa vera dell’aggio, del deprezzamento della lira e delle conseguenze politiche e sociali che ne derivarono.

 

 

Il bello si fu che quei debiti verso l’Inghilterra e gli Stati uniti non furono, se non in minima parte, rimborsati. Ma di ciò si discorrerà nel quinto volume, dove sono riprodotti gli articoli scritti a pro della tesi che quei debiti non dovessero essere rimborsati, essendo le spese state sostenute nell’interesse comune. Tesi la quale fu, dopo la vittoria comune, accettata, se non in principio, di fatto dagli alleati.

 

 

Continuava, ché la tradizione era antica, il metodo, opposto a quello seguito nel primo decennio dopo la unificazione e nella rinnovazione del catasto, delle sciabolate tributarie (p. 536), come un giorno le aveva acconciamente definite il Daneo, ministro delle finanze nel gabinetto Salandra. A chi tocca, tocca; pur che si faccia denaro: centesimi di guerra, sugli esenti dal servizio militare, imposta militare, sui canoni enfiteutici, ecc. ecc. Tipico il decreto del 3 febbraio 1918, il quale col pretesto della perequazione, aggiungeva un’altra alla vecchia e tuttora esistente sperequazione della doppia tassazione degli interessi dei debiti ipotecari. Se il proprietario di un fondo rustico tassato coll’imposta (e colle sovrimposte locali) fondiaria sul reddito di 100.000 annue, contrae un mutuo di un milione di lire al 5%, fruttifero di 50.000 lire annue a favore del mutuante, il fisco colpisce presso il proprietario il reddito di 100.000 lire che il fondo o la casa gli dà, e presso il capitalista mutuante gli interessi a suo favore di 50.000 lire; ed il totale reddito tassato è di 150.000 lire. Il doppio di imposta è evidente; ché il reddito è uno solo: quello di 100.000 lire fornito dal fondo. Il fatto che, prima del mutuo tutte le 100.000 lire fossero percepite dal proprietario e, dopo il mutuo, per 50.000 lire da lui e per 50.000 lire dal suo creditore, non produce l’effetto miracoloso della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Il reddito rimane in tutto di 100.000 lire (50.000 + 50.000) e non diventa di 150.000 lire per ciò solo che il proprietario dal reddito di 100.000 lire deve prelevarne 50.000 lire e trasmetterle al creditore. Eppure, la sperequazione si perpetua, traendo pretesto dal fatto che l’imposta non colpisce le persone, ma le cose: il fondo e il mutuo. Il fondo dà o non dà un reddito di 100.000 lire? il mutuo non è forse fruttifero di interessi di 50.000 lire? epperciò paghino. Il sofisma è grossolano; perché i redditi sono goduti da persone e non da cose; e nessun arzigogolo può trasformare in 150.000 quello che è un ammontare di 100.000 lire.

 

 

Dal danno si era miracolosamente salvato, sino al 1918, un reddito, per il quale il doppio d’imposta era troppo chiaro per passare inosservato: i canoni enfiteutici. Esiste infatti nel nostro sistema di diritto, un istituto detto della enfiteusi. Sorto nel medio evo, esso sdoppiava la proprietà della terra: il vecchio proprietario pieno diventava proprietario eminente o domino del fondo e lo concedeva ad un coltivatore detto utilista, in compenso di un canone fisso in denaro o in derrate agrarie. Il «domino», rimanendo titolare della proprietà, fissava, ad esempio, il reddito da lui percepito in 1.000 lire all’anno; e l’«utilista», iscritto come colono enfiteuta nei libri catastali, riscuoteva il residuo prodotto del fondo. Il contratto di enfiteusi aveva per iscopo di incoraggiare la messa a cultura di terreni boscosi ed incolti; ché il colono, migliorando, avrebbe goduto di tutto il sovrappiù oltre le 1.000 lire dovute al proprietario. Col passar del tempo e con le migliorie, il sovrappiù era diventato maggiore del canone, e spesso questo, anche a causa della svalutazione della moneta, era divenuto irrilevante. Supponendo che l’enfiteuta incassasse 3.000 lire di reddito netto, accertato in catasto, era chiaro che il reddito era di 3.000 lire in tutto, delle quali 1.000 erano dall’enfiteuta versate al «domino» e 2.000 da lui trattenute. Per antica consuetudine era stipulato sempre che le 1.000 lire erano pagate al netto da pesi e tributi, sicché questi gravavano tutti sulle 2.000 lire dell’enfiteuta. L’immunità era stata convenuta dall’origine, ed era divenuta col trascorrere del tempo, ognora più ovviamente ragionevole, ché tutto l’incremento di reddito, oltre le 1.000 lire, spettava all’utilista. Saltava agli occhi che il reddito era uno solo, di 3.000 lire, ripartito in due parti a due persone, amendue iscritte come proprietarie del fondo, l’una col nome di domino e l’altra con quello di utilista. Epperciò, si era pacificamente sempre tassato il solo reddito delle 3.000 lire accertato in catasto, in conformità all’atto di creazione dell’enfiteusi, al nome dell’utilista. Durante la guerra, all’occhio linceo di un funzionario, occupato nel rintracciare materia nuova imponibile sfuggita all’imposta, parve di aver scoperto nei canoni enfiteutici l’araba fenice del cespite esente dall’imposta; ma la ingiustizia o sperequazione non era vera, ma dedotta dal fatto che, in altro caso, quello degli interessi ipotecari, pacificamente si commetteva la scorrettezza del doppio, tassando 150 quando il reddito totale era solo 100. Se la sperequazione nell’un caso è pacifica, perché non sperequare anche nell’altro caso? Così è della maggior parte delle ingiustizie alle quali si provvede creando imposte nuove: non si tratta di scoprire e tassare un vero reddito nuovo; non già di tassare qualcosa che sia veramente esente; ma solo di colpire quel che è tassato di meno o meno ferocemente di altri redditi o quel che appare esente, laddove invece è già tassato, ma non ancora due volte, al pari di altro disgraziato simigliante cespite. A nulla valsero le critiche mosse (cfr. pp. 533 sgg.) allo sconcio; il quale rimase, sinché, in un momento posteriore alla guerra, esso poté essere tolto.

 

 

La caccia alle ingiustizie ed alle sperequazioni fiscali da abolire è uno dei passatempi favoriti dei riformatori tributari; e già sin d’allora (29 novembre 1915 e qui a p. 272) mettevo in guardia contro le imposte demagogiche, fruttifere di «parole» invece che di «centinaia di milioni e miliardi di lire effettive» di cui ha urgenza il tesoro degli stati; e ricordavo il «famoso» bilancio del 1909 del signor Lloyd George, il quale, avendo fatto approvare un sistema di imposte sulle aree fabbricabili, ne aveva ricavato sino al 31 marzo 1914

 

 

l’unico costrutto di aver costato circa 55 milioni di lire italiane e di aver reso poco più 15 milioni di lire.

 

 

Sicché anche qui, a case calme, l’intiero edificio perequativo fu smantellato e raso a terra.

 

 

Spesseggiarono anche tra noi, le invenzioni infruttifere ed inapplicabili come le imposte sugli esenti dal servizio militare o quella sull’assistenza civile. Le successive chiamate dei riformati rendevano instabili i ruoli delle imposte; e le quote di sei lire si erano palesate quasi tutte inesigibili e causa di dispendio per la finanza invece che di entrata (pp. 529 sgg.). Sinché non fosse stata istituita la imposta complementare sul reddito, proposta dall’on. Meda, vana era la speranza di colpire i redditi esenti. I tentativi erano a vuoto e sempre si ricadeva nel solito risultato di sovratassare i già tassati (pp. 531 sgg.).

 

 

Ero scettico sui risultati delle nuove imposte sui sovraprofitti di guerra (p. 277); e criticavo l’incitamento che l’imposta dava, per l’indole del suo meccanismo, a crescere gli impianti inutili e le spese superflue allo scopo di sottrarre legalmente al tesoro la materia imponibile. In generale tutte le imposte che sovratassano l’eccedente su un reddito definito normale hanno effetti dannosi di spreco di capitali e di lavoro. Recando l’esempio all’estremo – ma è un estremo al quale ci si avvicina progressivamente durante la guerra e fu raggiunto dopo il 1919 con la cosidetta «avocazione» totale dei profitti di guerra – se si tassa con l’imposta normale, suppongasi, del 20% il reddito sino all’8% del capitale investito e con il 100% il supero oltre l’8%, quale mai interesse ha il contribuente a produrre il supero? Anzi, se le contingenze del momento procacciano un supero, egli ha interesse a sprecarlo: ad assoldare operai ed impiegati inutili, a distribuire stipendi ad amici e familiari. Giova procacciarsi clientela di amici e di impiegati, più che non pagare imposte. Ed ha interesse a compiere impianti superflui, pur di crescere la cifra «legale» del capitale investito. Se questo è di 100 milioni, l’imprenditore tiene per sé otto (8% su 100 milioni di capitale) sugli eventuali 20 milioni di reddito conseguito ed il resto deve versarlo all’erario. Se egli perciò cresce l’investimento a 150 milioni, non occorre che i 50 milioni in più di impianti e di scorte fruttino alcunché. Egli può tenere per sé, all’8% 12 milioni, versandone solo 8 invece di 12 allo stato. Se egli riesce a spingere, purtroppo di fatto e non solo per scritturazione contabile, gli investimenti a 200 o 250 milioni di lire, egli può tenere per sé, assoggettati alla sola imposta normale, 16 o 20 milioni rispettivamente e finire di non versare più nulla allo stato. Fu, in misura progressivamente crescente, l’esperienza degli anni dal 1917 al 1920. Il capitale superfluo, per il meccanismo dell’imposta, fruttava, non perché fosse realmente produttivo, ma perché risparmiava, a vantaggio del contribuente, il versamento delle imposte crescenti sull’eccedente. Il danno per la collettività era certo; ma l’imposta confiscatrice era popolare e riscuoteva plauso generale (pp.559, 628); e riscuote ancor oggi, ogni qualvolta il principio, in forme nuove, venga accolto, plauso rinnovato. A nulla giovano, ad impedire gli sprechi, le facce feroci, i giuramenti fiscali, le minaccie di galera; ché l’errore fiscale offre la giustificazione «morale» alle evasioni di difesa ed aggiunge «pretesti» a coonestare le frodi sostanziali.

 

 

Lo stato di guerra diede luogo a speranze, le quali poi si dimostrarono ingiustificate; ché la scarsità dei beni rese inutili talune delle salvaguardie protettive che a poco a poco erano state stabilite a favore delle industrie. Innanzi alla guerra, il produttore di zucchero nazionale era soggetto ad una imposta di fabbricazione di 76,15 lire al quintale per lo zucchero raffinato; e poiché l’importatore avrebbe dovuto pagare 99 lire per quintale, il produttore nazionale godendo di un margine protettivo di lire 22,85, viveva sicuro di dominare intieramente il mercato italiano. La guerra, rialzando i prezzi e provocando con i razionamenti e le distribuzioni ai soldati, un aumento dei consumi, consigliò a ridurre gli ostacoli alla importazione straniera. Il che, alla fine del 1916, si conseguì decretando una sovratassa di guerra sulla produzione nazionale di 17 lire per quintale. Temporaneamente il margine protettivo si riduceva così da 22,85 a 5,85 lire al quintale, in conformità alla norma generale della convenzione di Bruxelles (pp. 374 sgg.). Me ne rallegravo nella speranza che

 

 

al ritorno della pace fosse conservato il regime fiscale fortunatamente consigliato dalle esigenze di guerra …, il margine protettivo di lire 5,85 essendo largamente sufficiente ad una industria, già ricca prima e rafforzatasi vieppiù durante la guerra (p.376).

 

 

Speranza fallace, ché gli zuccherieri seppero poscia riconquistare il perduto privilegio.

 

 

Lo stato di guerra aveva costretto, sin dal 18 ottobre e dal 1 dicembre 1914 a ridurre temporaneamente il dazio sul frumento da 7,50 a 3 lire al quintale; che non erano veramente tali, perché, non consumandosi frumento in granella, ma frumento trasformato in farina da pane e da paste alimentari, il dazio effettivo era quello sulle farine, ridotto solo da 11,50 a 5,25 lire al quintale. Perciò dichiaravo nel gennaio del 1915 necessaria la immediata abolizione di ambo i dazi sul frumento e sulle farine (p. 52). Che fu cosa fatta subito; ma non ebbe effetto, perché ben presto la situazione si invertì ed il governo, con calmieri, requisizioni e tesseramento per il frumento e gli altri cereali inferiori, credette dover mantenere il prezzo del pane ad un livello politico con perdita crescente per l’erario. Le pagine del presente volume sono consacrate spesso al problema del pane (cfr. per i primi anni il gruppo di articoli da p. 45 a p. 82); e sulle forme del pane (unico o di due tipi?) A favore dei due tipi si adduceva che, lasciando ai consumatori completa libertà di scelta tra il tipo ordinario, alla resa dell’8%, di forma grossa e di ottima sostanza, quello un tempo detto «di munizione» perché distribuito ai soldati, calmierato a 50 e poi 65 centesimi al chilogrammo ed i tipi detti fini, sempre alla resa dell’8%, in forme libere ed a prezzi di mercato, il grosso dei consumatori avrebbe preferito il pane grosso, a prezzo politico basso; laddove i più agiati e raffinati abituati a forme più piccole ed apparentemente più allettevoli, avrebbero pagato prezzi più alti e crescenti. Prevalse, sino alla fine della guerra ed ancor dopo, il partito del pane unico; perché, si disse, i poveri ed i lavoratori avrebbero tenuto in dispregio il pane grosso e guardato con odio e invidia i ricchi, i quali meglio forniti di moneta avrebbero consumato i tipi fini e cari. A noi la roba destinata ai porci; ai ricchi quella per i palati fini. Né si può negare che, in un momento nel quale si doveva contare sulla concordia nazionale, la tesi del pane di forma unica non fosse ben ragionata. Non pareva accettabile la proposta del prof. De Viti De Marco (p. 60) di accordare un sussidio ai poveri che non fossero in grado di pagare il prezzo di mercato; ché il pericolo di favoritismi, di falsi poveri iscritti nelle liste delle congregazioni di carità e di costi crescenti di amministrazione del congegno distributivo era chiaro. Il metodo dei due tipi, osservava talun difensore dell’erario, avrebbe chiarito che i più avrebbero preferito consumar pane di forme fini a prezzo libero crescente, abbandonando l’uso del pane grosso ai buongustai, ai ceti impoveriti degli impiegati, dei pensionati, dei redditieri ad interesse fisso e ad una minoranza residua di vecchi veri poveri. La svalutazione della lira provocava un gran tramestio negli ordini sociali, sicché i confini tra poveri agiati e ricchi si mischiavano in maniera confusa e facevano preferire ai governi il principio della parità di trattamento che, astrazion fatta della sua sostanziale applicazione, e pur sempre proprio dello stato, particolarmente quando si vive in una piazza assediata, come era allora l’Italia, dove i capi politici destinati agli approvvigionamenti vivevano in ansia quotidiana di affondamenti di sottomarini e di rivolta di popoli timorosi di restare senza pane.

 

 

L’esperienza del tempo dal 1915 al 1918 crebbe l’antipatia, che già esisteva, verso gli interventi dello stato nelle faccende non sue. Mi era accaduto di dirmi favorevole e addirittura di proporre, non per scemare l’altezza, ma soltanto per ridurre le punte delle oscillazioni dei corsi dei cambi, l’istituzione di un ufficio centrale dei cambi (p.446). Mi ero illuso che ciò potesse farsi senza un apparato amministrativo, per decisione personale di poche persone, sovratutto del ministro del tesoro e del direttore generale della Banca d’Italia, senza «burocrazia» che è parola impropria per riassumere regolamenti, norme e circolari che sono ingredienti necessari per l’azione di un qualsiasi intervento dello stato. Quando poi fu istituito l’Istituto centrale dei cambi, che pur non era diventato quella cosa grossa con più di mille impiegati che divenne durante la seconda guerra, mi persuasi ché la mia, delle poche persone competenti pronte all’azione, agili nella trattazione degli affari, adusate a parlare e decidere per telefono, era una illusione. Ma in quella illusione durai a lungo; e le pagine di questo volume recano traccie numerose di critiche alle commissioni, ai comitati interministeriali incaricati di dare unità di azione ai ministeri chiusi nella fortezza delle competenze, in lotta continua contro le pretese concorrenti dei ministeri affini. Si passi sopra ai pareri dei consigli, delle commissioni; si incarichi, per decidere sui problemi del carbone, del frumento, della marina mercantile, dei prezzi, dei noli, degli approvvigionamenti una persona sola, competente, tratta dai ceti industriali e mercantili, posta al disopra delle beghe dei funzionari governativi, desiderosa di ritornare alle occupazioni sue professionali, ai negozi consueti, e di liquidare al più presto l’istituto o l’organo istituito per provvedere ad una esigenza immediata del tempo bellico; ma poi vidi che il competente, pronto a servire lo stato temporaneamente col salario di una lira all’anno, che si narra sia esistito in altri paesi, non si trovò o non si fece innanzi; e che si moltiplicavano invece gli istituti e gli interventi pronti a frastornare l’attività dei privati e degli enti, i quali di fatto dimostravano di recar vantaggio al pubblico e di saper soddisfare ai bisogni quotidiani della collettività. Manca il pane o la farina in una zona del paese? Ed ecco, nonostante le circolari contrarie del ministro Raineri (p. 468) i prefetti emanare decreti di divieto per le esportazioni di cereali da una provincia all’altra.

 

 

Provincie prive di mulini, le quali supplicano prefetti, ministri, commissari generali ai consumi affinché sia data licenza di importare farine da provincie, dove le farine ridondano ed i mulini sarebbero pronti ad inviarne carri a decine. Ministri e commissari che fanno l’indiano o consigliano di rivolgersi ai consorzi granari locali, i quali hanno provviste irrisorie ed affatto insufficienti ai bisogni locali.

 

 

L’opinione pubblica commossa dalle notizie di esportazioni di derrate alimentari, attraverso la Svizzera, ai paesi nemici, invoca ed ottiene l’emanazione di decreti i quali vietano indiscriminatamente l’esportazione di qualsiasi derrata o merce alla Germania e all’Austria, anche se si tratti di beni i quali non hanno nulla a che fare con la capacità di resistenza bellica; ed il divieto è tassativo quando l’esportazione avrebbe condotto ad un aumento di prezzi a danno dei consumatori nazionali (p. 223). Non v’era dubbio che talune esportazioni, ad esempio del cotone, della lana, del frumento, del riso o di ogni altra derrata o merce atta ad alimentare, equipaggiare od armare soldati e civili dei paesi nemici dovevano essere del tutto vietate. In molti altri casi, tuttavia, di merci di lusso o superflue, la esportazione al nemico avrebbe dovuto invece essere incoraggiata, come quella che avrebbe fornito a noi valuta, utile per importare beni necessari ed impoverito il nemico. Anche se qualche volta fosse stato ridotto il consumo interno, il problema doveva essere risoluto confrontando il danno del prezzo aumentato per i consumatori nazionali ed il vantaggio di potere, colla vendita, acquistare derrate o merci mancanti in Italia e più necessarie alla alimentazione di quelle esportate (p. 225). Ma prevalse la vociferazione contro gli speculatori i quali si arricchivano, esportando, in contrabbando, merci che, anche se indifferenti per la condotta della guerra, erano o parevano in qualche modo abbisognevoli a talun consumatore.

 

 

Talvolta la mania dei divieti tocca l’assurdo.

 

 

Un giorno si legge sui giornali che alla frontiera si arresta un Tizio il quale tentava di esportare in Svizzera cedole di titoli nemici. Un altro giorno si legge un comunicato di colore ufficioso, il quale annuncia gravi pene contro coloro i quali negoziano titoli stranieri nemici. Ed è notorio che la censura militare impedisce l’invio all’estero di titoli nemici (p.639).

 

 

Non giovò osservare che i titoli, particolarmente austriaci, erano stati acquistati da cittadini italiani quando l’Austria era nostra alleata e l’acquisto era lecito. Non giovò dire che la vendita avrebbe procacciato ai venditori italiani un valsente in valuta negoziabile e che in tal modo, contro un’uscita di pezzi di carta inservibili in paese, si sarebbe ottenuta la disponibilità, ad esempio, di franchi svizzeri i quali sarebbero rifluiti sul mercato nostro ed avrebbero consentito di rifornirci di beni economici ben più importanti dei titoli cartacei esportati. Se si fosse preveduto l’avvenire si sarebbe potuto aggiungere che la vendita eseguita per tempo (scrivevo il 24 marzo 1918) avrebbe salvato il possessore italiano della perdita del proprio capitale in conseguenza della svalutazione totale della corona austriaca, seguita alla sconfitta della monarchia austro-ungarica.

 

 

Mutare un andazzo invalso nel mondo politico e nella opinione pubblica era allora ed è oggi impresa disperata; anche se chi tentava correggere taluno degli andazzi più pericolosi poteva parlare da una assai divulgata tribuna. Talché, giunto quasi al termine della guerra (25 luglio 1918), mi cadeva l’animo dinanzi alla onnipotenza dello stato, fatto persona fisica vivente nei suoi funzionari:

 

 

Ministero vuol poi dire pochi commissari e funzionari, la cui presunzione va crescendo di giorno in giorno. Nei ministeri gonfiatissimi di oggi gli italiani si sono scaldati una serpe in seno che darà molto filo da torcere all’industria italiana nel dopo guerra. Sono venuti su alcuni tiranni i quali vogliono spadroneggiare, disciplinare, sorvegliare, indirizzare; e contro di cui sarà assoluta necessità lottare animosamente se si vuole che l’industria non sia rovinata. Ma dovrà essere una lotta a coltello, ben più costosa e dura di quella che dovrà essere combattuta contro la risorta concorrenza germanica, contro il dumping e contro tutti i più famosi spauracchi dell’ante guerra (p. 628).

 

 

Non erano ancora sorti i dittatori economici, onesti, convinti, capaci, ai quali saranno destinate parecchie pagine del volume quinto; ma già l’«industria», che nel mio linguaggio di allora significava i ceti industriali, bancari e commerciali italiani, si difendeva nel modo che poi usò quando venne sul serio il tiranno, «coll’astuzia e colle blandizie» (p. 628). Al luogo della libertà, che poteva essere consentita senza pericolo nei casi nei quali non era in gioco la salvezza del paese dal nemico, si ebbe l’arbitrio ministeriale. Lo stato di guerra giustificava gli abusi; ma il male stava nel consentire diventassero abusi quelli che erano forse il legittimo uso di diritti misconosciuti dalla tirannia ministeriale.

 

 

Alla inframettenza presuntuosa dei funzionari ministeriali forniti di potere sulla condotta politica, economica ed, ahimè !, spirituale dei cittadini fa d’uopo concedere la venia dovuta al prevalere di errori radicati da secoli nella pubblica opinione. Qual meraviglia se prefetti, ministri, deputati invocano e decretano calmieri, requisizioni, in multe e carcere contro i profittatori del mercato nero, divieti di esportazione di beni non necessari a noi e inutili alla condotta della guerra, proibizioni al commercio fra provincie abbondanti e provincie manchevoli, imposte distruttrici su coloro i quali ottengono lucri. eccedenti il livello normale, perché sanno organizzare bene i mezzi produttivi e tenui su coloro i quali guadagnano poco o perdono perché capaci solo a sprecare capitale e lavoro; se parlamenti approvano imposte sulle aree fabbricabili congegnate in modo da costringere a venderle a buon mercato ed a utilizzarle perciò malamente in costruzioni scarsamente redditizie quando l’interesse collettivo avrebbe richiesto che le aree medesime fossero «speculativamente» ossia «razionalmente» serbate vuote in attesa del futuro momento adatto all’ «ottima» utilizzazione; qual meraviglia che peggio non accada, quando l’errore è voluto, imposto dal clamore della opinione pubblica e la tirannia ministeriale detta «burocratica», altro non è se non il braccio secolare il quale esegue la sentenza pronunciata dalla pubblica opinione?

 

 

Il tempo di guerra è terreno particolarmente propizio alla seminazione degli errori. Le pagine di questo volume recano assai critiche alle farneticazioni protezionistiche di coloro che, preoccupati dell’avvento della pace, invocavano proibizioni o dazi altissimi contro le importazioni dai paesi nemici e particolarmente dalla Germania, che dicevasi agguerritissima, pronta ad iniziare subito una lotta distruttiva a danno delle industrie dei paesi alleati, a base di svendite a sotto costo, di pagamenti a lunga scadenza e di premi alla esportazione. Avere essa ammortizzato, cogli utili bellici, gli impianti esistenti, sicché questi lavoravano a costi minimi o nulli per interessi ed ammortamenti. Che è grossa fandonia, la quale è ripetuta (p.625) anche in tempo di pace per i paesi vecchi. Si immagina che certi paesi, detti vecchi, possano muovere concorrenza vittoriosa ad altri detti nuovi o, con parola nuovissima divenuta oggi di moda, sottosviluppati, perché i loro impianti industriali sono oramai nei libri contabili valutati a zero e non costano perciò interessi ed ammortamento. Come se l’esperienza posteriore alle due grandi guerre non avesse dimostrato che gli impianti vecchi, sedicentemente ammortizzati, lavorano ad alto costo e provocano la decadenza delle imprese, i cui dirigenti si addormentano nella falsa credenza dei costi nulli; laddove la fortuna economica degli Stati uniti è «anche» data dalla prontezza con la quale gli impianti vecchi, anche se fisicamente ancor nuovissimi, ammortizzati o non, sono buttati nei ferrivecchi non appena macchinari nuovi, metodi produttivi diversi lavorino a costi minori; e il rifiorimento della Germania e dell’Italia non sia «anche» dovuto alle distruzioni belliche degli impianti vecchi cosidetti ammortizzati ed alla necessità nella quale le imprese si trovarono di rinnovare, con o senza l’aiuto americano, stabilimenti ed impianti in modernissima perfetta maniera; questi, sì, lavoranti a costi bassi. Tant’è ; nell’elenco delle ragioni o pretesti per cui gli industriali nazionali invocano protezione contro le importazioni straniere, sempre figura la voce: «costi bassi stranieri per impianti vecchi ammortizzati» ; laddove la voce dovrebbe essere rovesciata e messa nell’elenco delle disgrazie altrui, con il titolo di “costi alti stranieri per l’uso di antiquati impianti detti ammortizzati».

 

 

Nella state del 1918 si ebbe il primo accenno in Italia di una mutazione nella struttura delle banche commerciali, la quale col tempo provocò poi un’altra mutazione, assai più radicale e pericolosa, di esse in banche di stato. Lamentavamo, innanzi al 1914, che le grandi banche ordinarie italiane, a differenza di quelle inglesi e ad imitazione del modello tedesco, oltre alle operazioni brevi di sconti e di anticipazioni per la fornitura del capitale circolante delle industrie e dei commerci, prendessero troppa parte alla fornitura all’industria del capitale di investimento a lunga scadenza. Dicevasi che le banche in tal modo diventassero padrone dell’industria e tendessero a persuadere i dirigenti di questa ad occuparsi non tanto della produzione a costi decrescenti di beni economici, quanto del promuovere l’aumento del prezzo delle azioni emesse dalle società ed accolte nel portafoglio delle banche in attesa di poterle collocare profittevolmente, a prezzi cresciuti nelle borse, sul mercato dei risparmiatori-investitori. La guerra, arricchendo le imprese dell’industria pesante, fornì ai loro dirigenti i mezzi per dare inizio alla pratica opposta: non più le banche padrone dell’industria; ma i grossi gruppi industriali, intesi ad acquistare le azioni delle banche, così da diventare padroni del pacchetto di maggioranza – e bastava per lo più una maggioranza relativa in un’assemblea di minori azionisti disorganizzati – e pronti a nominare consiglieri ed amministratori delegati ligi ai loro interessi. Il pericolo era grave: che pochi uomini disponessero dei depositi delle banche a vantaggio delle proprie intraprese (pp. 683-87). Per quella volta, il ministro del tesoro Nitti credette di aver risoluto il problema (art. del 2 luglio 1918, pp. 688 sgg.) col persuadere le quattro maggiori banche commerciali – Banca italiana di sconto, Banco di Roma – a stipulare tra di loro un accordo di difesa contro l’assalto dei capi dell’industria pesante. Fin d’allora, la costituzione di un cartello delle banche era veduta con sospetto da chi dettava le presenti cronache (p. 689); e non dovevano passare molti anni perché le immobilizzazioni dei depositi a favore di talune grosse imprese industriali procacciassero dapprima la crisi della Banca italiana di sconto, gli interventi di salvataggio dello stato e poi la nazionalizzazione del sistema bancario italiano.

 

 

L’idea storta che governava i provvedimenti con cui si intendeva risolvere ad uno ad uno i problemi, i quali si presentavano, con urgenza, all’attenzione ed all’ansia dei cittadini, era che in verità esistessero «problemi» economici l’uno distinto dall’altro. L’idea non è morta; anzi rigermina vigorosa ogni volta dalle sue ceneri. Ogni giorno si legge che «un problema è sorto e deve essere risoluto»; quasi esistessero problemi singoli e questi potessero essere risoluti ad uno ad uno. La manifestazione più comica della problematica si ebbe nell’estate del 1918 quando pareva ed era imminente la fine gloriosa per l’Italia e per gli alleati, della guerra e tutti si ponevano il problema: che cosa si farà poi? come costringeremo la Germania ed i suoi accoliti a pagare le indennità sacrosantamente dovute per gli ingiusti danni di rovine e di impoverimento a noi recati ? Come, pur costringendola a pagare indennità sufficienti e perciò grandiose, ne schiacceremo la capacità di concorrenza a nostro danno, le impediremo di vendere a noi i suoi beni a prezzi rotti? Come la necessità di riparare con lo sforzo di tutti all’impoverimento determinato dalle rovine belliche sarà contemperata con le promesse di distribuire buone terre appoderate ed attrezzate ai reduci, e di aumentare il reddito medio delle moltitudini meno provvedute? Il frutto del nobile proposito di risolvere la quadratura del circolo fu la nomina di una mastodontica commissione, presieduta dall’on. Pantano, detta del dopo guerra; che, per cominciare, fu composta di seicento membri (cfr. art. del 16 luglio, del 25 settembre e del 16 novembre, pp. 692-708). Approdò quella commissione, con gran dispendio, ad una relazione dell’on. Pantano, che nessuno lesse e fu presto dimenticata. Non poteva approdare a nulla; perché seicento pareri contrastanti per origine ideologica, per tradizione di partiti o di classi, per interessi economici non formano un’idea, una politica capace di risolvere il problema, che è unico ed inscindibile, dell’avanzamento della nazione.

 

 

Dalla considerazione particolaristica dell’unico problema economico non può non nascere la torre di Babele, con la connessa confusione delle lingue. Il problema vero fondamentale che si trattava di risolvere era questo: vogliamo che prosegua nel dopo guerra l’attuale tendenza bellica, forse inevitabile per necessità assolute di guerra, verso la gestione di stato degli affari economici, verso il dominio della amministrazione o vogliamo il ritorno, sia pure graduale, verso libere maniere di attività private, con interventi statali limitati ai soliti casi ammessi nei tempi ordinari? … Nella commissione nessuno è incaricato di risolvere il problema generale; sicché si avrà una collezione di precetti, così cari al dilettantismo fantasioso dell’on. Pantano, celeberrimo per avere in tasca, come del resto parecchi suoi colleghi di sottopresidenza, piani «completi» ed «organici» e «geniali» per rimediare in quattro e quattr’otto ad ogni malanno dell’Italia e dell’umanità (pp. 695-96).

 

 

Nel giorno della vittoria, chi scrive osa guardare in alto e spera che alla vittoria sul nemico straniero segua la vittoria sul nemico che è in noi:

 

 

Per non cadere nel disfacimento che è la conseguenza fatale dei tentativi di attuare programmi millenari che è il terreno fecondo su cui soltanto i Lenin d’Italia possono sperare di mietere, bisogna anche per il dopo guerra ritornare alle nostre vecchie e grandi tradizioni del risorgimento. Il ritorno a Mazzini ha contribuito, oramai tutti lo vedono, a far vincere a noi la guerra, poiché ha distrutto la compagine statale del nostro nemico. Per vincere il dopo guerra, per emergere più saldi, più forti, più ricchi moralmente e materialmente dalla grande prova civile che ci attende, bisogna ritornare alle audacie del conte di Cavour: alle audacie di chi odia i programmi vuoti, le parole retoriche, le promesse aventi un puro e basso scopo elettorale, alle audacie fredde, ragionate di chi sa la meta a cui vuoi giungere, scarta i mezzi inadeguati e sceglie la via che può essere percorsa senza pericolo di cadere nell’anarchia e nella reazione. Cavour, che la lettura dei suoi scritti rivela essere stato uno dei maggiori economisti d’Italia, non fu l’uomo di un’idea unica. Fece costruire allo stato ferrovie e porti, sussidiare linee di navigazione, impose tasse durissime; ma mentre faceva far molto allo stato dove giudicava l’azione sua vantaggiosa, gli toglieva compiti, come quelli di regolare e proteggere l’industria, di fissare i calmieri del pane, laddove credeva che l’aria libera fosse meglio atta a promuovere lo sviluppo della ricchezza ed il buon mercato della vita. Finiva di abolire le corporazioni d’arti e mestieri; ma fondava una cassa di assicurazione per la vecchiaia degli operai e voleva renderla universale. Così egli condusse il Piemonte dal 1850 al 1860 ad un alto grado di forza economica (pp. 704-5).

 

 

Le pagine qui raccolte hanno dunque, pur nel clima di consenso doveroso all’opera delle autorità politiche e militari nel tempo di guerra, indole sovratutto critica. Troppi furono gli errori inutili, le improvvisazioni, l’ossequio alle pretese irrazionali dei danneggiati dalle esigenze belliche, perché la critica potesse tacere. Spesso si passò il segno nella arrendevolezza verso le richieste di vantaggi momentanei a pro di questo o di quell’altro ceto o città o regione, verso il clamore disordinato contro gli arricchimenti dei provveditori di cose belliche, degli accaparratori e profittatori del mercato nero; troppo si indulse a provvedimenti dettati da buone intenzioni frettolose, ma intesi a conseguire effetti contrari al bene comune; troppi imbrogli demagogici furono aggiunti al sistema tributario vigente, dall’usura del tempo già fatto decadere dalla prima semplicità razionale; sicché il volume ha in gran parte sostanza di critica quotidiana a malefatte di legislazione e di amministrazione. Giova sperare che le sue pagine non appaiano, come non erano nelle intenzioni, di scarso apprezzamento degli uomini di valore i quali, se pur commisero taluni errori economici pratici, servirono validamente e devotamente il paese e condussero la patria alla vittoria. La critica era anch’essa doverosa, se talvolta giovava a smussare le punte degli errori ed a gittare il germe di una diversa condotta, che era assurdo pretendere in tempi fortunosi, per il tempo auspicato della pace.

 

 

Una tregua nell’incessante susseguirsi di problemi incalzanti si può forse scorgere nelle pagine da 138 a 184 nelle quali, in articoli scritti fra il 15 marzo 1915 ed il 5 dicembre 1916, studiai la crisi del carbone e l’ingombro del porto di Genova. Rileggendo quelle pagine, ricordai i giorni nei quali interrogavo facchini del porto, organizzatori operai, capi del consorzio, commercianti in carbone e in cotone, industriali dell’interno desiderosi di materie prime; e cercavo di formarmi un quadro preciso dei grossi problemi dalla cui soluzione, empiricamente cercata giorno per giorno, ora per ora, dipendeva la vita dell’industria e delle popolazioni nella grande pianura padana ai cui confini operava e combatteva l’esercito italiano. Risento ancor oggi il rimpianto non ci sia stato mai nessuno il quale scrivesse il beI libro di economia viva che poteva ed ancora può essere dettato a narrare ed analizzare il congegno vario e ricco e miracoloso del maggior porto italiano. Credo di avere già scritto altrove come a scriverlo dovrebbero collaborare un economista ed un romanziere; un Pantaleoni ed un Balzac. Il Pantaleoni scrisse quel capolavoro che si intitola alla Caduta del Credito mobiliare, nel quale sono narrate, da chi le aveva rivissute, le vicende della grandezza e della decadenza della maggior banca di investimenti del tempo suo; laddove il Balzac, forse per avere, anch’egli, provate le speranze e sofferte le delusioni dello speculare economico, seppe creare tipi di banchieri, di negozianti, di sfaccendati giocatori di borsa, uomini e donne, di geni e di sprovveduti quali nessun economista seppe immaginare e descrivere. Quale stupendo stimolo all’analisi economica il porto di Genova; dove arrivano navi e merci e uomini da ogni paese del mondo e si dipartono merci ed uomini per le fabbriche del Piemonte e della Lombardia; dove a tratto a tratto dominava il padrone della chiatta e riscuoteva taglia su chi doveva scaricare dalla nave e non sapeva dove collocare la merce scaricata, e poi scompariva nei tempi di magra o di servizi abbondanti e bene organizzati; dove si scontrano gli interessi degli importatori di frumento, di carbone e di merci varie con quelli delle industrie consumatrici del nord; dove le calate, i pontili, gli scali ferroviari sono strumenti gli uni agli altri coordinati; dove l’intermediario, il commissionario, l’agente, che maneggia miliardi in uno «scagno» di pochi metri quadrati in un vicolo di basso porto, lavorano attorno alle grandi banche e regolano sulla parola affari colossali in borsa e per la strada; dove le organizzazioni operaie hanno sostituito i «confidenti» di un tempo; e dove il consorzio del porto, la Camera di commercio, il capitano del porto, l’ispettore di pubblica sicurezza, il municipio gestore del punto franco si incontrano, si sovrappongono, si accordano. Nasce nel porto un mercato, un grande mercato, dove si formano i prezzi e dove è possibile analizzare costi, costi veri, i quali, confrontati con i prezzi, danno luogo a perdite ed a guadagni. Auguro che le analisi di costi da me condotte in quel tempo persuadano taluno amante dei fatti economici analizzati nella realtà operante, a scrivere quel libro sul porto di Genova, che da tanti anni immagino ed invoco.

 

 

Ho raccolto nell’ultima parte del volume (pp. 748-90) scritti i quali dal 18 gennaio del 1915 al 16 ottobre 1918 furono dedicati a problemi non economici: la teoria tedesca della decadenza dell’impero britannico, quella inglese dell’equilibrio europeo e sulla necessità che la guerra finisca in una sconfitta della dinastia tedesca. Quest’ultimo iniziò sul «Corriere della sera» la serie degli articoli i quali recavano non la mia firma, ma quella di uno pseudonimo «Junius» e furono poi raccolti dall’editore Laterza in un volumetto dal titolo Lettere politiche di Junius. La sigla era quella stessa che nel Settecento era stata usata per un volume di scritti politici divenuti celebri, anche per la controversia sorta intorno alla persona dell’autore. Adottai per quegli articoli lo pseudonimo e l’uso di indirizzarli, quasi fossero una vera lettera, al «signor direttore» ; e cercai di serbare il segreto intorno alla persona dell’autore, per scemare ai lettori la noia di vedere troppo spesso ripetuto in calce agli articoli il mio nome e per il piacere di ascoltare da amici e conoscenti giudizi critici, che, vista la firma, non sarebbero stati dichiarati in mia presenza.

 

 

Nel gruppo degli articoli politici si inseriscono anche due articoli storici, l’uno sulla conquista del confine naturale delle Alpi occidentali compiuto lungo duecento anni di guerre e di lotte da Casa Savoia e l’altro sulla cavalleria con la quale nel Sei e Settecento si conducevano le guerre in Piemonte confrontate con i casi di barbarie moderne, che parevano già biasimevoli durante la prima guerra mondiale e divennero durante la seconda terrificanti per i trasferimenti forzati di intere popolazioni e per la tentata distruzione del popolo ebraico.

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. XIII-XXXV

 

 

Il volume è tutto composto di articoli del tempo di guerra. Scrivevo (p. 281) :

 

 

Di fronte alle necessità della guerra cessa il diritto alla critica. Chi di noi oserebbe lamentarsi di fronte anche alla scomparsa totale del naviglio marittimo dal mercato dei trasporti non bellici quando, per ipotesi, ciò fosse necessario per la vittoria?

 

 

Ebbero perciò gran luogo negli articoli del giornale e nel volume sono solo in minor parte riprodotti, per evitare le assai frequenti, allora necessarie, ripetizioni – gli inviti a sottoscrivere ai prestiti che venivano, gli uni dopo gli altri, emessi a procacciar denaro allo stato.

 

 

Chi, tra i risparmiatori italiani, vorrà più tardi incorrere nel muto rimprovero che i suoi figli gli muoveranno di non aver compiuto ogni sforzo possibile, nell’ora solenne, per fare cosa utile ad essi ed insieme alla patria? (p. 108).

 

 

Ad incoraggiare l’afflusso del denaro nelle casse dello stato, plaudivo alla scoperta, (nel 1916), della forma «al portatore» dei buoni ordinari da sei a dodici mesi (p. 356). Fino allora i buoni ordinari erano tutti nominativi; e parve gran novità avere deliberato che essi potevano essere emessi anche al portatore, anche se «per ora» la novità non era estesa ai buoni più brevi, a tre mesi. Si vide poi che i buoni al portatore erano assai meglio accetti al pubblico dei buoni nominativi, i quali in pratica erano acquistati principalmente dalle banche e da enti e non potevano sorpassare una modesta somma (300 milioni di lire) fissata ogni anno nella legge di bilancio per sopperire alle momentanee esigente di cassa del tesoro. Presto si giunse ai miliardi e divenne, quella dei buoni ordinari, la maniera di sopperimento più importante in guerra ed in pace. A promuovere il risparmio, necessario da un lato per ridurre i consumi secondari o superflui e dall’altro lato a fornire allo stato i mezzi per i consumi bellici, divulgai (p. 370) in Italia, fin dal 1916, il metodo primamente usato in Inghilterra dei buoni o certificati, rimborsabili in qualunque momento a richiesta del risparmiatore, fecondi di frutto progressivamente crescente e retrodatato al momento dell’emissione, sicché il detentore avesse interesse, pur conservando la piena continua disponibilità del denaro, a serbarli in portafoglio per il maggior tempo possibile. I buoni furono, col nome di buoni fruttiferi postali, introdotti presto in Italia ed ebbero successo notabilissimo, sicché oggi sono lo strumento preferito di impiego dei risparmi della piccola e media gente, particolarmente nelle campagne.

 

 

In argomento di prestiti, pur riconoscendo che l’Italia non aveva toccato l’ideale, che sarebbe stato quello di coprire il fabbisogno bellico esclusivamente con il provento di nuove imposte e col ricavo di prestiti – ché in tal caso la spesa bellica sarebbe stata fatta con mezzi antichi, ossia con rinuncia ad altrettanti consumi privati e non sarebbe stato necessario stampare biglietti a vuoto, davo lode (p. 526) ai ministri del tesoro e delle finanze di avere

 

 

stabilito nuove imposte a mano mano che l’onere del bilancio cresceva a cagione dei debiti contratti.

 

 

In tal modo la pratica italiana, sebbene meno austera di quella inglese, la quale con le imposte copriva almeno una parte delle spese belliche, stava ben al disopra delle pratiche seguite in Germania, in Francia e nell’impero austro-ungarico, dove si era rinunciato apertamente a confessare ai cittadini che la guerra non si poteva vincere senza sacrificio (pp. 235 sgg. ). Il dott. Hellferich, ministro germanico delle finanze, nutriva, in verità,

 

 

fiducia di far coprire gran parte delle spese germaniche di guerra con le indennità dei paesi nemici vinti (p. 231).

 

 

La tesi, che era politica, gli consentiva di rinunciare a chiedere ai suoi il sacrificio di nuove imposte; ma la esigenza economica lo costringeva ad emettere prestiti grandiosi i quali erano stati, a parer mio, «un trionfo genuino». Riconoscevo che le accuse mosse a lui

 

 

di aver creato casse di credito pubbliche solo per mutuare biglietti a coloro i quali dovevano diventare i sottoscrittori dei suoi colossali prestiti (p. 229)

 

 

erano ingiuste, e, pur essendo egli nel campo avverso, osservavo che la tecnica seguita da lui nell’emissione dei due primi prestiti era perfetta. La testa di turco contro cui battevo più frequentemente e duramente era il torchio dei biglietti. Fin dal luglio 1915 notavo dolorosamente che (p. 98)

 

 

ancor oggi si incontrano persone, le quali reputano un beneficio le emissioni abbondanti di carta moneta e non sanno capacitarsi del perché gli stati si affannino tanto a contrar prestiti onerosi al 4,50 o 5% quando potrebbero farsi imprestare gratuitamente dai cittadini quante somme volessero, semplicemente stampando biglietti e pagando con essi tutti i propri creditori.

 

 

E snodavo la litania, oggi divulgatissima, degli effetti e dei danni delle emissioni sovrabbondanti di biglietti.

 

 

In quel tempo era divenuta popolare una critica rivolta contro gli alleati ed i neutrali:

 

 

essere uno scandalo che gli svizzeri vogliano lucrare 50 o 55 lire per ogni 100 dei loro franchi; che i francesi guadagnino il 30% e che gli inglesi ci vendano le loro sterline per 36-37 lire nostre invece che per 25 lire. Passi per i neutri, i quali non hanno nessun vincolo verso di noi; ma gli alleati dovrebbero moralmente essere obbligati ad accettare la nostra moneta alla pari e dovrebbero resistere alla tentazione di lucrar il 30 od il 40% a nostre spese.

 

 

La querela era esposta in articoli giornalistici ed in discorsi parlamentari in un tempo in cui per comprare un franco svizzero bastava spendere 1,50 lire italiane e per avere una lira sterlina si davano non più di 36 lire italiane. Non sono sicuro che nella testa di qualcuno in Italia non si nasconda un residuo del sofisma antico, oggi che per avere un franco svizzero occorre dare circa 150 lire italiane e per avere una lira sterlina fa d’uopo spendere 1750 lire italiane: e del pari 625 lire per ottenere quel dollaro, che prima del 1914 si cambiava con 5,25 lire nostre! Non ne sono sicuro, perché il sofisma nasce da un sentimento proprio dell’uomo, il quale attribuisce la responsabilità di un malanno che lo incolga non mai a se stesso, ma ad altri, al parente, all’amico, al collega, al concorrente, all’avversario. Se poi la colpa può essere data allo «straniero» , il ragionamento, anche se sbagliato, diventa senz’altro corretto, anzi incontrovertibile e chi lo smaschera è reo di leso-patriottismo. Nelle pagine del testo (da 433 a 438) il sofisma è a lungo confutato, più a lungo di quanto meritasse la evidenza dell’errore. Chi riscuoteva allora, per merce venduta agli inglesi, le 37 lire italiane invece della pari di 25 lire? Non gli inglesi, i quali pagavano nulla più e nulla meno che la solita lira sterlina; ma i venditori italiani della merce, i quali ricevevano allora 37 ed oggi riceverebbero 1750 lire; ed, apparentemente, «guadagnavano» 12 e guadagnerebbero oggi 1725 lire. Ma è tutta apparenza, ché per la abbondanza di segni monetari circolanti, le 37 lire di allora e le 1750 lire di oggi comprano o comprerebbero né più né meno delle 25 lire di prima del 1914. Il che voleva dire trattarsi di un affare interno, nazionale, fuor di ogni responsabilità straniera, di cui siamo responsabili noi che volemmo o consentimmo o tollerammo che i nostri governanti, per conseguire taluni fini pubblici (vittoria contro il nemico nel 1915-18, ed oggi strade, rimboschimenti, impianti ferroviario-portuali, lotta contro la palude o la malaria) o pseudo-pubblici (ferrovie inutili, palazzi superflui, impiegati esuberanti ecc. ecc.), invece di togliere denari preesistenti ai cittadini sotto forma di imposte o di prestiti, fabbricassero denaro nuovo e così crescessero i cambi esteri e svilissero la moneta nostra. Oggi, che di queste verità elementari tutti sono persuasi ed il pericolo sembra venuto meno, può parere inutile ristampare articoli del tempo in cui il sofisma correva ed il pericolo era attuale e si dimostrò in seguito distruttivo dell’assetto sociale. Ma, sicuro non sono che il sofisma non informi ancora il convincimento di troppi italiani. Il modo di dire, per fermo, rimane; e da esso è breve il passo al modo di pensare.

 

 

Correva nei giornali e nelle relazioni di governo o di commissioni parlamentari una teoria, la quale attribuiva l’aumento progressivo dell’aggio sull’oro e sulle monete straniere al disavanzo della bilancia commerciale. Ed era vero che

 

 

dallo scoppio della guerra europea alla fine di luglio 1917 – scrivevo il 15 dicembre 1917, a p. 456 – le importazioni di merci eccedettero le esportazioni per circa 8 miliardi e mezzo di lire,

 

 

somma suppergiù equivalente – vedi l’avvertenza a p. 792 di questo volume – a 12.750 miliardi di oggi.

 

 

Prima di affermare che la causa dell’aggio, ossia del deprezzamento della lira, sia il disavanzo della bilancia commerciale – ma si intendeva sempre parlare dello sbilancio totale o dei pagamenti – bisognava dimostrare che lo sbilancio esisteva. Orbene, a tacere dei guadagni della marina mercantile italiana, delle rimesse di emigranti e di altre sopravvenienze attive, le quali, anche negli anni di guerra, seguitavano ad arrivare,

 

 

non è forse vero che lo stato italiano ha esportato all’estero per miliardi di lire di titoli di debito? Far debiti all’estero è lo stesso che vendere od esportare all’estero nostri titoli di debito … È probabile che i debiti fatti dall’Italia in Inghilterra e negli Stati uniti siano stati sufficienti per coprire lo sbilancio tra importazioni ed esportazioni. Sì, noi comprammo 8 miliardi e mezzo di lire – carta di più di merci di quante non ne vendemmo all’estero; ma questi 8 miliardi e mezzo li pagammo con i crediti che ci furono aperti all’estero … Se questo è vero, come è possibile affermare che l’alto cambio derivi da una eccedenza che non esiste? … Se il cambio alto potesse concepirsi derivante da questa causa, noi avremmo il cambio alla pari. Un oculato e forte governo del tesoro e degli istituti di emissione – allora si parlava al plurale, perché accanto alla Banca d’Italia, avevano diritto di emettere biglietti anche i Banchi di Napoli e di Sicilia – basterebbe non solo a far scomparire le oscillazioni del cambio, ma l’aggio medesimo al disopra della pari (pp. 456-57).

 

 

Il sofisma assumeva così una forma meno grossolana di quella esaminata dianzi dell’attribuire senz’altro allo «straniero» la colpa di qualche nostra disgrazia; bensì l’altra di attribuirlo alla guerra, allo stato di necessità in cui la guerra ci aveva posto, di dovere fare spese di gran lunga superiori alle normali e di dovere perciò approvvigionarci all’estero in misura superiore alle nostre possibilità di pagamento. Che era un discolparsi apparentemente plausibile. Ma plausibile non era, perché si dimenticava che, in un mondo di uomini ragionanti, cittadini e governanti avrebbero visto che non si conduce guerra grossa, se non ci si sobbarca a grossi sacrifici di imposte nuove e di prestiti offerti mercé il risparmio ossia con la rinuncia a consumi anche ordinari. Ma nessuno, nemmeno nei paesi più ricchi, ebbe il coraggio della rinuncia. Piaceva lasciar credere che la guerra non avrebbe turbato troppo l’assetto normale della economia pubblica e privata; e sebbene noi, come osservai sopra, ci si fosse comportati abbastanza bene, non si ebbe il coraggio di aumentare le imposte come sarebbe stato necessario e si dovette perciò ricorrere, in misura notabile, agli indebitamenti coll’estero. Poiché questi non bastavano, si ebbe ricorso, per fronteggiare le spese interne, al torchio dei biglietti. Che fu la causa vera dell’aggio, del deprezzamento della lira e delle conseguenze politiche e sociali che ne derivarono.

 

 

Il bello si fu che quei debiti verso l’Inghilterra e gli Stati uniti non furono, se non in minima parte, rimborsati. Ma di ciò si discorrerà nel quinto volume, dove sono riprodotti gli articoli scritti a pro della tesi che quei debiti non dovessero essere rimborsati, essendo le spese state sostenute nell’interesse comune. Tesi la quale fu, dopo la vittoria comune, accettata, se non in principio, di fatto dagli alleati.

 

 

Continuava, ché la tradizione era antica, il metodo, opposto a quello seguito nel primo decennio dopo la unificazione e nella rinnovazione del catasto, delle sciabolate tributarie (p. 536), come un giorno le aveva acconciamente definite il Daneo, ministro delle finanze nel gabinetto Salandra. A chi tocca, tocca; pur che si faccia denaro: centesimi di guerra, sugli esenti dal servizio militare, imposta militare, sui canoni enfiteutici, ecc. ecc. Tipico il decreto del 3 febbraio 1918, il quale col pretesto della perequazione, aggiungeva un’altra alla vecchia e tuttora esistente sperequazione della doppia tassazione degli interessi dei debiti ipotecari. Se il proprietario di un fondo rustico tassato coll’imposta (e colle sovrimposte locali) fondiaria sul reddito di 100.000 annue, contrae un mutuo di un milione di lire al 5%, fruttifero di 50.000 lire annue a favore del mutuante, il fisco colpisce presso il proprietario il reddito di 100.000 lire che il fondo o la casa gli dà, e presso il capitalista mutuante gli interessi a suo favore di 50.000 lire; ed il totale reddito tassato è di 150.000 lire. Il doppio di imposta è evidente; ché il reddito è uno solo: quello di 100.000 lire fornito dal fondo. Il fatto che, prima del mutuo tutte le 100.000 lire fossero percepite dal proprietario e, dopo il mutuo, per 50.000 lire da lui e per 50.000 lire dal suo creditore, non produce l’effetto miracoloso della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Il reddito rimane in tutto di 100.000 lire (50.000 + 50.000) e non diventa di 150.000 lire per ciò solo che il proprietario dal reddito di 100.000 lire deve prelevarne 50.000 lire e trasmetterle al creditore. Eppure, la sperequazione si perpetua, traendo pretesto dal fatto che l’imposta non colpisce le persone, ma le cose: il fondo e il mutuo. Il fondo dà o non dà un reddito di 100.000 lire? il mutuo non è forse fruttifero di interessi di 50.000 lire? epperciò paghino. Il sofisma è grossolano; perché i redditi sono goduti da persone e non da cose; e nessun arzigogolo può trasformare in 150.000 quello che è un ammontare di 100.000 lire.

 

 

Dal danno si era miracolosamente salvato, sino al 1918, un reddito, per il quale il doppio d’imposta era troppo chiaro per passare inosservato: i canoni enfiteutici. Esiste infatti nel nostro sistema di diritto, un istituto detto della enfiteusi. Sorto nel medio evo, esso sdoppiava la proprietà della terra: il vecchio proprietario pieno diventava proprietario eminente o domino del fondo e lo concedeva ad un coltivatore detto utilista, in compenso di un canone fisso in denaro o in derrate agrarie. Il «domino», rimanendo titolare della proprietà, fissava, ad esempio, il reddito da lui percepito in 1.000 lire all’anno; e l’«utilista», iscritto come colono enfiteuta nei libri catastali, riscuoteva il residuo prodotto del fondo. Il contratto di enfiteusi aveva per iscopo di incoraggiare la messa a cultura di terreni boscosi ed incolti; ché il colono, migliorando, avrebbe goduto di tutto il sovrappiù oltre le 1.000 lire dovute al proprietario. Col passar del tempo e con le migliorie, il sovrappiù era diventato maggiore del canone, e spesso questo, anche a causa della svalutazione della moneta, era divenuto irrilevante. Supponendo che l’enfiteuta incassasse 3.000 lire di reddito netto, accertato in catasto, era chiaro che il reddito era di 3.000 lire in tutto, delle quali 1.000 erano dall’enfiteuta versate al «domino» e 2.000 da lui trattenute. Per antica consuetudine era stipulato sempre che le 1.000 lire erano pagate al netto da pesi e tributi, sicché questi gravavano tutti sulle 2.000 lire dell’enfiteuta. L’immunità era stata convenuta dall’origine, ed era divenuta col trascorrere del tempo, ognora più ovviamente ragionevole, ché tutto l’incremento di reddito, oltre le 1.000 lire, spettava all’utilista. Saltava agli occhi che il reddito era uno solo, di 3.000 lire, ripartito in due parti a due persone, amendue iscritte come proprietarie del fondo, l’una col nome di domino e l’altra con quello di utilista. Epperciò, si era pacificamente sempre tassato il solo reddito delle 3.000 lire accertato in catasto, in conformità all’atto di creazione dell’enfiteusi, al nome dell’utilista. Durante la guerra, all’occhio linceo di un funzionario, occupato nel rintracciare materia nuova imponibile sfuggita all’imposta, parve di aver scoperto nei canoni enfiteutici l’araba fenice del cespite esente dall’imposta; ma la ingiustizia o sperequazione non era vera, ma dedotta dal fatto che, in altro caso, quello degli interessi ipotecari, pacificamente si commetteva la scorrettezza del doppio, tassando 150 quando il reddito totale era solo 100. Se la sperequazione nell’un caso è pacifica, perché non sperequare anche nell’altro caso? Così è della maggior parte delle ingiustizie alle quali si provvede creando imposte nuove: non si tratta di scoprire e tassare un vero reddito nuovo; non già di tassare qualcosa che sia veramente esente; ma solo di colpire quel che è tassato di meno o meno ferocemente di altri redditi o quel che appare esente, laddove invece è già tassato, ma non ancora due volte, al pari di altro disgraziato simigliante cespite. A nulla valsero le critiche mosse (cfr. pp. 533 sgg.) allo sconcio; il quale rimase, sinché, in un momento posteriore alla guerra, esso poté essere tolto.

 

 

La caccia alle ingiustizie ed alle sperequazioni fiscali da abolire è uno dei passatempi favoriti dei riformatori tributari; e già sin d’allora (29 novembre 1915 e qui a p. 272) mettevo in guardia contro le imposte demagogiche, fruttifere di «parole» invece che di «centinaia di milioni e miliardi di lire effettive» di cui ha urgenza il tesoro degli stati; e ricordavo il «famoso» bilancio del 1909 del signor Lloyd George, il quale, avendo fatto approvare un sistema di imposte sulle aree fabbricabili, ne aveva ricavato sino al 31 marzo 1914

 

 

l’unico costrutto di aver costato circa 55 milioni di lire italiane e di aver reso poco più 15 milioni di lire.

 

 

Sicché anche qui, a case calme, l’intiero edificio perequativo fu smantellato e raso a terra.

 

 

Spesseggiarono anche tra noi, le invenzioni infruttifere ed inapplicabili come le imposte sugli esenti dal servizio militare o quella sull’assistenza civile. Le successive chiamate dei riformati rendevano instabili i ruoli delle imposte; e le quote di sei lire si erano palesate quasi tutte inesigibili e causa di dispendio per la finanza invece che di entrata (pp. 529 sgg.). Sinché non fosse stata istituita la imposta complementare sul reddito, proposta dall’on. Meda, vana era la speranza di colpire i redditi esenti. I tentativi erano a vuoto e sempre si ricadeva nel solito risultato di sovratassare i già tassati (pp. 531 sgg.).

 

 

Ero scettico sui risultati delle nuove imposte sui sovraprofitti di guerra (p. 277); e criticavo l’incitamento che l’imposta dava, per l’indole del suo meccanismo, a crescere gli impianti inutili e le spese superflue allo scopo di sottrarre legalmente al tesoro la materia imponibile. In generale tutte le imposte che sovratassano l’eccedente su un reddito definito normale hanno effetti dannosi di spreco di capitali e di lavoro. Recando l’esempio all’estremo – ma è un estremo al quale ci si avvicina progressivamente durante la guerra e fu raggiunto dopo il 1919 con la cosidetta «avocazione» totale dei profitti di guerra – se si tassa con l’imposta normale, suppongasi, del 20% il reddito sino all’8% del capitale investito e con il 100% il supero oltre l’8%, quale mai interesse ha il contribuente a produrre il supero? Anzi, se le contingenze del momento procacciano un supero, egli ha interesse a sprecarlo: ad assoldare operai ed impiegati inutili, a distribuire stipendi ad amici e familiari. Giova procacciarsi clientela di amici e di impiegati, più che non pagare imposte. Ed ha interesse a compiere impianti superflui, pur di crescere la cifra «legale» del capitale investito. Se questo è di 100 milioni, l’imprenditore tiene per sé otto (8% su 100 milioni di capitale) sugli eventuali 20 milioni di reddito conseguito ed il resto deve versarlo all’erario. Se egli perciò cresce l’investimento a 150 milioni, non occorre che i 50 milioni in più di impianti e di scorte fruttino alcunché. Egli può tenere per sé, all’8% 12 milioni, versandone solo 8 invece di 12 allo stato. Se egli riesce a spingere, purtroppo di fatto e non solo per scritturazione contabile, gli investimenti a 200 o 250 milioni di lire, egli può tenere per sé, assoggettati alla sola imposta normale, 16 o 20 milioni rispettivamente e finire di non versare più nulla allo stato. Fu, in misura progressivamente crescente, l’esperienza degli anni dal 1917 al 1920. Il capitale superfluo, per il meccanismo dell’imposta, fruttava, non perché fosse realmente produttivo, ma perché risparmiava, a vantaggio del contribuente, il versamento delle imposte crescenti sull’eccedente. Il danno per la collettività era certo; ma l’imposta confiscatrice era popolare e riscuoteva plauso generale (pp.559, 628); e riscuote ancor oggi, ogni qualvolta il principio, in forme nuove, venga accolto, plauso rinnovato. A nulla giovano, ad impedire gli sprechi, le facce feroci, i giuramenti fiscali, le minaccie di galera; ché l’errore fiscale offre la giustificazione «morale» alle evasioni di difesa ed aggiunge «pretesti» a coonestare le frodi sostanziali.

 

 

Lo stato di guerra diede luogo a speranze, le quali poi si dimostrarono ingiustificate; ché la scarsità dei beni rese inutili talune delle salvaguardie protettive che a poco a poco erano state stabilite a favore delle industrie. Innanzi alla guerra, il produttore di zucchero nazionale era soggetto ad una imposta di fabbricazione di 76,15 lire al quintale per lo zucchero raffinato; e poiché l’importatore avrebbe dovuto pagare 99 lire per quintale, il produttore nazionale godendo di un margine protettivo di lire 22,85, viveva sicuro di dominare intieramente il mercato italiano. La guerra, rialzando i prezzi e provocando con i razionamenti e le distribuzioni ai soldati, un aumento dei consumi, consigliò a ridurre gli ostacoli alla importazione straniera. Il che, alla fine del 1916, si conseguì decretando una sovratassa di guerra sulla produzione nazionale di 17 lire per quintale. Temporaneamente il margine protettivo si riduceva così da 22,85 a 5,85 lire al quintale, in conformità alla norma generale della convenzione di Bruxelles (pp. 374 sgg.). Me ne rallegravo nella speranza che

 

 

al ritorno della pace fosse conservato il regime fiscale fortunatamente consigliato dalle esigenze di guerra …, il margine protettivo di lire 5,85 essendo largamente sufficiente ad una industria, già ricca prima e rafforzatasi vieppiù durante la guerra (p.376).

 

 

Speranza fallace, ché gli zuccherieri seppero poscia riconquistare il perduto privilegio.

 

 

Lo stato di guerra aveva costretto, sin dal 18 ottobre e dal 1 dicembre 1914 a ridurre temporaneamente il dazio sul frumento da 7,50 a 3 lire al quintale; che non erano veramente tali, perché, non consumandosi frumento in granella, ma frumento trasformato in farina da pane e da paste alimentari, il dazio effettivo era quello sulle farine, ridotto solo da 11,50 a 5,25 lire al quintale. Perciò dichiaravo nel gennaio del 1915 necessaria la immediata abolizione di ambo i dazi sul frumento e sulle farine (p. 52). Che fu cosa fatta subito; ma non ebbe effetto, perché ben presto la situazione si invertì ed il governo, con calmieri, requisizioni e tesseramento per il frumento e gli altri cereali inferiori, credette dover mantenere il prezzo del pane ad un livello politico con perdita crescente per l’erario. Le pagine del presente volume sono consacrate spesso al problema del pane (cfr. per i primi anni il gruppo di articoli da p. 45 a p. 82); e sulle forme del pane (unico o di due tipi?) A favore dei due tipi si adduceva che, lasciando ai consumatori completa libertà di scelta tra il tipo ordinario, alla resa dell’8%, di forma grossa e di ottima sostanza, quello un tempo detto «di munizione» perché distribuito ai soldati, calmierato a 50 e poi 65 centesimi al chilogrammo ed i tipi detti fini, sempre alla resa dell’8%, in forme libere ed a prezzi di mercato, il grosso dei consumatori avrebbe preferito il pane grosso, a prezzo politico basso; laddove i più agiati e raffinati abituati a forme più piccole ed apparentemente più allettevoli, avrebbero pagato prezzi più alti e crescenti. Prevalse, sino alla fine della guerra ed ancor dopo, il partito del pane unico; perché, si disse, i poveri ed i lavoratori avrebbero tenuto in dispregio il pane grosso e guardato con odio e invidia i ricchi, i quali meglio forniti di moneta avrebbero consumato i tipi fini e cari. A noi la roba destinata ai porci; ai ricchi quella per i palati fini. Né si può negare che, in un momento nel quale si doveva contare sulla concordia nazionale, la tesi del pane di forma unica non fosse ben ragionata. Non pareva accettabile la proposta del prof. De Viti De Marco (p. 60) di accordare un sussidio ai poveri che non fossero in grado di pagare il prezzo di mercato; ché il pericolo di favoritismi, di falsi poveri iscritti nelle liste delle congregazioni di carità e di costi crescenti di amministrazione del congegno distributivo era chiaro. Il metodo dei due tipi, osservava talun difensore dell’erario, avrebbe chiarito che i più avrebbero preferito consumar pane di forme fini a prezzo libero crescente, abbandonando l’uso del pane grosso ai buongustai, ai ceti impoveriti degli impiegati, dei pensionati, dei redditieri ad interesse fisso e ad una minoranza residua di vecchi veri poveri. La svalutazione della lira provocava un gran tramestio negli ordini sociali, sicché i confini tra poveri agiati e ricchi si mischiavano in maniera confusa e facevano preferire ai governi il principio della parità di trattamento che, astrazion fatta della sua sostanziale applicazione, e pur sempre proprio dello stato, particolarmente quando si vive in una piazza assediata, come era allora l’Italia, dove i capi politici destinati agli approvvigionamenti vivevano in ansia quotidiana di affondamenti di sottomarini e di rivolta di popoli timorosi di restare senza pane.

 

 

L’esperienza del tempo dal 1915 al 1918 crebbe l’antipatia, che già esisteva, verso gli interventi dello stato nelle faccende non sue. Mi era accaduto di dirmi favorevole e addirittura di proporre, non per scemare l’altezza, ma soltanto per ridurre le punte delle oscillazioni dei corsi dei cambi, l’istituzione di un ufficio centrale dei cambi (p.446). Mi ero illuso che ciò potesse farsi senza un apparato amministrativo, per decisione personale di poche persone, sovratutto del ministro del tesoro e del direttore generale della Banca d’Italia, senza «burocrazia» che è parola impropria per riassumere regolamenti, norme e circolari che sono ingredienti necessari per l’azione di un qualsiasi intervento dello stato. Quando poi fu istituito l’Istituto centrale dei cambi, che pur non era diventato quella cosa grossa con più di mille impiegati che divenne durante la seconda guerra, mi persuasi ché la mia, delle poche persone competenti pronte all’azione, agili nella trattazione degli affari, adusate a parlare e decidere per telefono, era una illusione. Ma in quella illusione durai a lungo; e le pagine di questo volume recano traccie numerose di critiche alle commissioni, ai comitati interministeriali incaricati di dare unità di azione ai ministeri chiusi nella fortezza delle competenze, in lotta continua contro le pretese concorrenti dei ministeri affini. Si passi sopra ai pareri dei consigli, delle commissioni; si incarichi, per decidere sui problemi del carbone, del frumento, della marina mercantile, dei prezzi, dei noli, degli approvvigionamenti una persona sola, competente, tratta dai ceti industriali e mercantili, posta al disopra delle beghe dei funzionari governativi, desiderosa di ritornare alle occupazioni sue professionali, ai negozi consueti, e di liquidare al più presto l’istituto o l’organo istituito per provvedere ad una esigenza immediata del tempo bellico; ma poi vidi che il competente, pronto a servire lo stato temporaneamente col salario di una lira all’anno, che si narra sia esistito in altri paesi, non si trovò o non si fece innanzi; e che si moltiplicavano invece gli istituti e gli interventi pronti a frastornare l’attività dei privati e degli enti, i quali di fatto dimostravano di recar vantaggio al pubblico e di saper soddisfare ai bisogni quotidiani della collettività. Manca il pane o la farina in una zona del paese? Ed ecco, nonostante le circolari contrarie del ministro Raineri (p. 468) i prefetti emanare decreti di divieto per le esportazioni di cereali da una provincia all’altra.

 

 

Provincie prive di mulini, le quali supplicano prefetti, ministri, commissari generali ai consumi affinché sia data licenza di importare farine da provincie, dove le farine ridondano ed i mulini sarebbero pronti ad inviarne carri a decine. Ministri e commissari che fanno l’indiano o consigliano di rivolgersi ai consorzi granari locali, i quali hanno provviste irrisorie ed affatto insufficienti ai bisogni locali.

 

 

L’opinione pubblica commossa dalle notizie di esportazioni di derrate alimentari, attraverso la Svizzera, ai paesi nemici, invoca ed ottiene l’emanazione di decreti i quali vietano indiscriminatamente l’esportazione di qualsiasi derrata o merce alla Germania e all’Austria, anche se si tratti di beni i quali non hanno nulla a che fare con la capacità di resistenza bellica; ed il divieto è tassativo quando l’esportazione avrebbe condotto ad un aumento di prezzi a danno dei consumatori nazionali (p. 223). Non v’era dubbio che talune esportazioni, ad esempio del cotone, della lana, del frumento, del riso o di ogni altra derrata o merce atta ad alimentare, equipaggiare od armare soldati e civili dei paesi nemici dovevano essere del tutto vietate. In molti altri casi, tuttavia, di merci di lusso o superflue, la esportazione al nemico avrebbe dovuto invece essere incoraggiata, come quella che avrebbe fornito a noi valuta, utile per importare beni necessari ed impoverito il nemico. Anche se qualche volta fosse stato ridotto il consumo interno, il problema doveva essere risoluto confrontando il danno del prezzo aumentato per i consumatori nazionali ed il vantaggio di potere, colla vendita, acquistare derrate o merci mancanti in Italia e più necessarie alla alimentazione di quelle esportate (p. 225). Ma prevalse la vociferazione contro gli speculatori i quali si arricchivano, esportando, in contrabbando, merci che, anche se indifferenti per la condotta della guerra, erano o parevano in qualche modo abbisognevoli a talun consumatore.

 

 

Talvolta la mania dei divieti tocca l’assurdo.

 

 

Un giorno si legge sui giornali che alla frontiera si arresta un Tizio il quale tentava di esportare in Svizzera cedole di titoli nemici. Un altro giorno si legge un comunicato di colore ufficioso, il quale annuncia gravi pene contro coloro i quali negoziano titoli stranieri nemici. Ed è notorio che la censura militare impedisce l’invio all’estero di titoli nemici (p.639).

 

 

Non giovò osservare che i titoli, particolarmente austriaci, erano stati acquistati da cittadini italiani quando l’Austria era nostra alleata e l’acquisto era lecito. Non giovò dire che la vendita avrebbe procacciato ai venditori italiani un valsente in valuta negoziabile e che in tal modo, contro un’uscita di pezzi di carta inservibili in paese, si sarebbe ottenuta la disponibilità, ad esempio, di franchi svizzeri i quali sarebbero rifluiti sul mercato nostro ed avrebbero consentito di rifornirci di beni economici ben più importanti dei titoli cartacei esportati. Se si fosse preveduto l’avvenire si sarebbe potuto aggiungere che la vendita eseguita per tempo (scrivevo il 24 marzo 1918) avrebbe salvato il possessore italiano della perdita del proprio capitale in conseguenza della svalutazione totale della corona austriaca, seguita alla sconfitta della monarchia austro-ungarica.

 

 

Mutare un andazzo invalso nel mondo politico e nella opinione pubblica era allora ed è oggi impresa disperata; anche se chi tentava correggere taluno degli andazzi più pericolosi poteva parlare da una assai divulgata tribuna. Talché, giunto quasi al termine della guerra (25 luglio 1918), mi cadeva l’animo dinanzi alla onnipotenza dello stato, fatto persona fisica vivente nei suoi funzionari:

 

 

Ministero vuol poi dire pochi commissari e funzionari, la cui presunzione va crescendo di giorno in giorno. Nei ministeri gonfiatissimi di oggi gli italiani si sono scaldati una serpe in seno che darà molto filo da torcere all’industria italiana nel dopo guerra. Sono venuti su alcuni tiranni i quali vogliono spadroneggiare, disciplinare, sorvegliare, indirizzare; e contro di cui sarà assoluta necessità lottare animosamente se si vuole che l’industria non sia rovinata. Ma dovrà essere una lotta a coltello, ben più costosa e dura di quella che dovrà essere combattuta contro la risorta concorrenza germanica, contro il dumping e contro tutti i più famosi spauracchi dell’ante guerra (p. 628).

 

 

Non erano ancora sorti i dittatori economici, onesti, convinti, capaci, ai quali saranno destinate parecchie pagine del volume quinto; ma già l’«industria», che nel mio linguaggio di allora significava i ceti industriali, bancari e commerciali italiani, si difendeva nel modo che poi usò quando venne sul serio il tiranno, «coll’astuzia e colle blandizie» (p. 628). Al luogo della libertà, che poteva essere consentita senza pericolo nei casi nei quali non era in gioco la salvezza del paese dal nemico, si ebbe l’arbitrio ministeriale. Lo stato di guerra giustificava gli abusi; ma il male stava nel consentire diventassero abusi quelli che erano forse il legittimo uso di diritti misconosciuti dalla tirannia ministeriale.

 

 

Alla inframettenza presuntuosa dei funzionari ministeriali forniti di potere sulla condotta politica, economica ed, ahimè !, spirituale dei cittadini fa d’uopo concedere la venia dovuta al prevalere di errori radicati da secoli nella pubblica opinione. Qual meraviglia se prefetti, ministri, deputati invocano e decretano calmieri, requisizioni, in multe e carcere contro i profittatori del mercato nero, divieti di esportazione di beni non necessari a noi e inutili alla condotta della guerra, proibizioni al commercio fra provincie abbondanti e provincie manchevoli, imposte distruttrici su coloro i quali ottengono lucri. eccedenti il livello normale, perché sanno organizzare bene i mezzi produttivi e tenui su coloro i quali guadagnano poco o perdono perché capaci solo a sprecare capitale e lavoro; se parlamenti approvano imposte sulle aree fabbricabili congegnate in modo da costringere a venderle a buon mercato ed a utilizzarle perciò malamente in costruzioni scarsamente redditizie quando l’interesse collettivo avrebbe richiesto che le aree medesime fossero «speculativamente» ossia «razionalmente» serbate vuote in attesa del futuro momento adatto all’ «ottima» utilizzazione; qual meraviglia che peggio non accada, quando l’errore è voluto, imposto dal clamore della opinione pubblica e la tirannia ministeriale detta «burocratica», altro non è se non il braccio secolare il quale esegue la sentenza pronunciata dalla pubblica opinione?

 

 

Il tempo di guerra è terreno particolarmente propizio alla seminazione degli errori. Le pagine di questo volume recano assai critiche alle farneticazioni protezionistiche di coloro che, preoccupati dell’avvento della pace, invocavano proibizioni o dazi altissimi contro le importazioni dai paesi nemici e particolarmente dalla Germania, che dicevasi agguerritissima, pronta ad iniziare subito una lotta distruttiva a danno delle industrie dei paesi alleati, a base di svendite a sotto costo, di pagamenti a lunga scadenza e di premi alla esportazione. Avere essa ammortizzato, cogli utili bellici, gli impianti esistenti, sicché questi lavoravano a costi minimi o nulli per interessi ed ammortamenti. Che è grossa fandonia, la quale è ripetuta (p.625) anche in tempo di pace per i paesi vecchi. Si immagina che certi paesi, detti vecchi, possano muovere concorrenza vittoriosa ad altri detti nuovi o, con parola nuovissima divenuta oggi di moda, sottosviluppati, perché i loro impianti industriali sono oramai nei libri contabili valutati a zero e non costano perciò interessi ed ammortamento. Come se l’esperienza posteriore alle due grandi guerre non avesse dimostrato che gli impianti vecchi, sedicentemente ammortizzati, lavorano ad alto costo e provocano la decadenza delle imprese, i cui dirigenti si addormentano nella falsa credenza dei costi nulli; laddove la fortuna economica degli Stati uniti è «anche» data dalla prontezza con la quale gli impianti vecchi, anche se fisicamente ancor nuovissimi, ammortizzati o non, sono buttati nei ferrivecchi non appena macchinari nuovi, metodi produttivi diversi lavorino a costi minori; e il rifiorimento della Germania e dell’Italia non sia «anche» dovuto alle distruzioni belliche degli impianti vecchi cosidetti ammortizzati ed alla necessità nella quale le imprese si trovarono di rinnovare, con o senza l’aiuto americano, stabilimenti ed impianti in modernissima perfetta maniera; questi, sì, lavoranti a costi bassi. Tant’è ; nell’elenco delle ragioni o pretesti per cui gli industriali nazionali invocano protezione contro le importazioni straniere, sempre figura la voce: «costi bassi stranieri per impianti vecchi ammortizzati» ; laddove la voce dovrebbe essere rovesciata e messa nell’elenco delle disgrazie altrui, con il titolo di “costi alti stranieri per l’uso di antiquati impianti detti ammortizzati».

 

 

Nella state del 1918 si ebbe il primo accenno in Italia di una mutazione nella struttura delle banche commerciali, la quale col tempo provocò poi un’altra mutazione, assai più radicale e pericolosa, di esse in banche di stato. Lamentavamo, innanzi al 1914, che le grandi banche ordinarie italiane, a differenza di quelle inglesi e ad imitazione del modello tedesco, oltre alle operazioni brevi di sconti e di anticipazioni per la fornitura del capitale circolante delle industrie e dei commerci, prendessero troppa parte alla fornitura all’industria del capitale di investimento a lunga scadenza. Dicevasi che le banche in tal modo diventassero padrone dell’industria e tendessero a persuadere i dirigenti di questa ad occuparsi non tanto della produzione a costi decrescenti di beni economici, quanto del promuovere l’aumento del prezzo delle azioni emesse dalle società ed accolte nel portafoglio delle banche in attesa di poterle collocare profittevolmente, a prezzi cresciuti nelle borse, sul mercato dei risparmiatori-investitori. La guerra, arricchendo le imprese dell’industria pesante, fornì ai loro dirigenti i mezzi per dare inizio alla pratica opposta: non più le banche padrone dell’industria; ma i grossi gruppi industriali, intesi ad acquistare le azioni delle banche, così da diventare padroni del pacchetto di maggioranza – e bastava per lo più una maggioranza relativa in un’assemblea di minori azionisti disorganizzati – e pronti a nominare consiglieri ed amministratori delegati ligi ai loro interessi. Il pericolo era grave: che pochi uomini disponessero dei depositi delle banche a vantaggio delle proprie intraprese (pp. 683-87). Per quella volta, il ministro del tesoro Nitti credette di aver risoluto il problema (art. del 2 luglio 1918, pp. 688 sgg.) col persuadere le quattro maggiori banche commerciali – Banca italiana di sconto, Banco di Roma – a stipulare tra di loro un accordo di difesa contro l’assalto dei capi dell’industria pesante. Fin d’allora, la costituzione di un cartello delle banche era veduta con sospetto da chi dettava le presenti cronache (p. 689); e non dovevano passare molti anni perché le immobilizzazioni dei depositi a favore di talune grosse imprese industriali procacciassero dapprima la crisi della Banca italiana di sconto, gli interventi di salvataggio dello stato e poi la nazionalizzazione del sistema bancario italiano.

 

 

L’idea storta che governava i provvedimenti con cui si intendeva risolvere ad uno ad uno i problemi, i quali si presentavano, con urgenza, all’attenzione ed all’ansia dei cittadini, era che in verità esistessero «problemi» economici l’uno distinto dall’altro. L’idea non è morta; anzi rigermina vigorosa ogni volta dalle sue ceneri. Ogni giorno si legge che «un problema è sorto e deve essere risoluto»; quasi esistessero problemi singoli e questi potessero essere risoluti ad uno ad uno. La manifestazione più comica della problematica si ebbe nell’estate del 1918 quando pareva ed era imminente la fine gloriosa per l’Italia e per gli alleati, della guerra e tutti si ponevano il problema: che cosa si farà poi? come costringeremo la Germania ed i suoi accoliti a pagare le indennità sacrosantamente dovute per gli ingiusti danni di rovine e di impoverimento a noi recati ? Come, pur costringendola a pagare indennità sufficienti e perciò grandiose, ne schiacceremo la capacità di concorrenza a nostro danno, le impediremo di vendere a noi i suoi beni a prezzi rotti? Come la necessità di riparare con lo sforzo di tutti all’impoverimento determinato dalle rovine belliche sarà contemperata con le promesse di distribuire buone terre appoderate ed attrezzate ai reduci, e di aumentare il reddito medio delle moltitudini meno provvedute? Il frutto del nobile proposito di risolvere la quadratura del circolo fu la nomina di una mastodontica commissione, presieduta dall’on. Pantano, detta del dopo guerra; che, per cominciare, fu composta di seicento membri (cfr. art. del 16 luglio, del 25 settembre e del 16 novembre, pp. 692-708). Approdò quella commissione, con gran dispendio, ad una relazione dell’on. Pantano, che nessuno lesse e fu presto dimenticata. Non poteva approdare a nulla; perché seicento pareri contrastanti per origine ideologica, per tradizione di partiti o di classi, per interessi economici non formano un’idea, una politica capace di risolvere il problema, che è unico ed inscindibile, dell’avanzamento della nazione.

 

 

Dalla considerazione particolaristica dell’unico problema economico non può non nascere la torre di Babele, con la connessa confusione delle lingue. Il problema vero fondamentale che si trattava di risolvere era questo: vogliamo che prosegua nel dopo guerra l’attuale tendenza bellica, forse inevitabile per necessità assolute di guerra, verso la gestione di stato degli affari economici, verso il dominio della amministrazione o vogliamo il ritorno, sia pure graduale, verso libere maniere di attività private, con interventi statali limitati ai soliti casi ammessi nei tempi ordinari? … Nella commissione nessuno è incaricato di risolvere il problema generale; sicché si avrà una collezione di precetti, così cari al dilettantismo fantasioso dell’on. Pantano, celeberrimo per avere in tasca, come del resto parecchi suoi colleghi di sottopresidenza, piani «completi» ed «organici» e «geniali» per rimediare in quattro e quattr’otto ad ogni malanno dell’Italia e dell’umanità (pp. 695-96).

 

 

Nel giorno della vittoria, chi scrive osa guardare in alto e spera che alla vittoria sul nemico straniero segua la vittoria sul nemico che è in noi:

 

 

Per non cadere nel disfacimento che è la conseguenza fatale dei tentativi di attuare programmi millenari che è il terreno fecondo su cui soltanto i Lenin d’Italia possono sperare di mietere, bisogna anche per il dopo guerra ritornare alle nostre vecchie e grandi tradizioni del risorgimento. Il ritorno a Mazzini ha contribuito, oramai tutti lo vedono, a far vincere a noi la guerra, poiché ha distrutto la compagine statale del nostro nemico. Per vincere il dopo guerra, per emergere più saldi, più forti, più ricchi moralmente e materialmente dalla grande prova civile che ci attende, bisogna ritornare alle audacie del conte di Cavour: alle audacie di chi odia i programmi vuoti, le parole retoriche, le promesse aventi un puro e basso scopo elettorale, alle audacie fredde, ragionate di chi sa la meta a cui vuoi giungere, scarta i mezzi inadeguati e sceglie la via che può essere percorsa senza pericolo di cadere nell’anarchia e nella reazione. Cavour, che la lettura dei suoi scritti rivela essere stato uno dei maggiori economisti d’Italia, non fu l’uomo di un’idea unica. Fece costruire allo stato ferrovie e porti, sussidiare linee di navigazione, impose tasse durissime; ma mentre faceva far molto allo stato dove giudicava l’azione sua vantaggiosa, gli toglieva compiti, come quelli di regolare e proteggere l’industria, di fissare i calmieri del pane, laddove credeva che l’aria libera fosse meglio atta a promuovere lo sviluppo della ricchezza ed il buon mercato della vita. Finiva di abolire le corporazioni d’arti e mestieri; ma fondava una cassa di assicurazione per la vecchiaia degli operai e voleva renderla universale. Così egli condusse il Piemonte dal 1850 al 1860 ad un alto grado di forza economica (pp. 704-5).

 

 

Le pagine qui raccolte hanno dunque, pur nel clima di consenso doveroso all’opera delle autorità politiche e militari nel tempo di guerra, indole sovratutto critica. Troppi furono gli errori inutili, le improvvisazioni, l’ossequio alle pretese irrazionali dei danneggiati dalle esigenze belliche, perché la critica potesse tacere. Spesso si passò il segno nella arrendevolezza verso le richieste di vantaggi momentanei a pro di questo o di quell’altro ceto o città o regione, verso il clamore disordinato contro gli arricchimenti dei provveditori di cose belliche, degli accaparratori e profittatori del mercato nero; troppo si indulse a provvedimenti dettati da buone intenzioni frettolose, ma intesi a conseguire effetti contrari al bene comune; troppi imbrogli demagogici furono aggiunti al sistema tributario vigente, dall’usura del tempo già fatto decadere dalla prima semplicità razionale; sicché il volume ha in gran parte sostanza di critica quotidiana a malefatte di legislazione e di amministrazione. Giova sperare che le sue pagine non appaiano, come non erano nelle intenzioni, di scarso apprezzamento degli uomini di valore i quali, se pur commisero taluni errori economici pratici, servirono validamente e devotamente il paese e condussero la patria alla vittoria. La critica era anch’essa doverosa, se talvolta giovava a smussare le punte degli errori ed a gittare il germe di una diversa condotta, che era assurdo pretendere in tempi fortunosi, per il tempo auspicato della pace.

 

 

Una tregua nell’incessante susseguirsi di problemi incalzanti si può forse scorgere nelle pagine da 138 a 184 nelle quali, in articoli scritti fra il 15 marzo 1915 ed il 5 dicembre 1916, studiai la crisi del carbone e l’ingombro del porto di Genova. Rileggendo quelle pagine, ricordai i giorni nei quali interrogavo facchini del porto, organizzatori operai, capi del consorzio, commercianti in carbone e in cotone, industriali dell’interno desiderosi di materie prime; e cercavo di formarmi un quadro preciso dei grossi problemi dalla cui soluzione, empiricamente cercata giorno per giorno, ora per ora, dipendeva la vita dell’industria e delle popolazioni nella grande pianura padana ai cui confini operava e combatteva l’esercito italiano. Risento ancor oggi il rimpianto non ci sia stato mai nessuno il quale scrivesse il beI libro di economia viva che poteva ed ancora può essere dettato a narrare ed analizzare il congegno vario e ricco e miracoloso del maggior porto italiano. Credo di avere già scritto altrove come a scriverlo dovrebbero collaborare un economista ed un romanziere; un Pantaleoni ed un Balzac. Il Pantaleoni scrisse quel capolavoro che si intitola alla Caduta del Credito mobiliare, nel quale sono narrate, da chi le aveva rivissute, le vicende della grandezza e della decadenza della maggior banca di investimenti del tempo suo; laddove il Balzac, forse per avere, anch’egli, provate le speranze e sofferte le delusioni dello speculare economico, seppe creare tipi di banchieri, di negozianti, di sfaccendati giocatori di borsa, uomini e donne, di geni e di sprovveduti quali nessun economista seppe immaginare e descrivere. Quale stupendo stimolo all’analisi economica il porto di Genova; dove arrivano navi e merci e uomini da ogni paese del mondo e si dipartono merci ed uomini per le fabbriche del Piemonte e della Lombardia; dove a tratto a tratto dominava il padrone della chiatta e riscuoteva taglia su chi doveva scaricare dalla nave e non sapeva dove collocare la merce scaricata, e poi scompariva nei tempi di magra o di servizi abbondanti e bene organizzati; dove si scontrano gli interessi degli importatori di frumento, di carbone e di merci varie con quelli delle industrie consumatrici del nord; dove le calate, i pontili, gli scali ferroviari sono strumenti gli uni agli altri coordinati; dove l’intermediario, il commissionario, l’agente, che maneggia miliardi in uno «scagno» di pochi metri quadrati in un vicolo di basso porto, lavorano attorno alle grandi banche e regolano sulla parola affari colossali in borsa e per la strada; dove le organizzazioni operaie hanno sostituito i «confidenti» di un tempo; e dove il consorzio del porto, la Camera di commercio, il capitano del porto, l’ispettore di pubblica sicurezza, il municipio gestore del punto franco si incontrano, si sovrappongono, si accordano. Nasce nel porto un mercato, un grande mercato, dove si formano i prezzi e dove è possibile analizzare costi, costi veri, i quali, confrontati con i prezzi, danno luogo a perdite ed a guadagni. Auguro che le analisi di costi da me condotte in quel tempo persuadano taluno amante dei fatti economici analizzati nella realtà operante, a scrivere quel libro sul porto di Genova, che da tanti anni immagino ed invoco.

 

 

Ho raccolto nell’ultima parte del volume (pp. 748-90) scritti i quali dal 18 gennaio del 1915 al 16 ottobre 1918 furono dedicati a problemi non economici: la teoria tedesca della decadenza dell’impero britannico, quella inglese dell’equilibrio europeo e sulla necessità che la guerra finisca in una sconfitta della dinastia tedesca. Quest’ultimo iniziò sul «Corriere della sera» la serie degli articoli i quali recavano non la mia firma, ma quella di uno pseudonimo «Junius» e furono poi raccolti dall’editore Laterza in un volumetto dal titolo Lettere politiche di Junius. La sigla era quella stessa che nel Settecento era stata usata per un volume di scritti politici divenuti celebri, anche per la controversia sorta intorno alla persona dell’autore. Adottai per quegli articoli lo pseudonimo e l’uso di indirizzarli, quasi fossero una vera lettera, al «signor direttore» ; e cercai di serbare il segreto intorno alla persona dell’autore, per scemare ai lettori la noia di vedere troppo spesso ripetuto in calce agli articoli il mio nome e per il piacere di ascoltare da amici e conoscenti giudizi critici, che, vista la firma, non sarebbero stati dichiarati in mia presenza.

 

 

Nel gruppo degli articoli politici si inseriscono anche due articoli storici, l’uno sulla conquista del confine naturale delle Alpi occidentali compiuto lungo duecento anni di guerre e di lotte da Casa Savoia e l’altro sulla cavalleria con la quale nel Sei e Settecento si conducevano le guerre in Piemonte confrontate con i casi di barbarie moderne, che parevano già biasimevoli durante la prima guerra mondiale e divennero durante la seconda terrificanti per i trasferimenti forzati di intere popolazioni e per la tentata distruzione del popolo ebraico.

Torna su