Opera Omnia Luigi Einaudi

Il problema dei giornali

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/07/1945

«Nuova Antologia», vol. 434, luglio 1945, n. 1735

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 559-570 e 579-592

Scritti economici, storici e civili, Mondadori, Milano, 1973, pp. 932-971

Giornali e giornalisti, Sansoni, Firenze, 1974, pp. 51-94

Riflessioni di un liberale sulla democrazia 1943-1947, Olschki, Firenze, 2001, pp. 157-184

Dopo un breve periodo di limitazione, vi è stata, particolarmente nella capitale, una fioritura di giornali, che ci può sembrare eccessiva e non è nuova. In ogni momento di grandi commozioni politiche, dal 1789 al 1793 in Francia, nel 1798 e 1799, quando crollavano i regni e fiorivano le repubbliche in Italia, e di nuovo nel 1848 e nel 1849, e poi nel 1859 e nel 1860, nei momenti critici del nostro risorgimento, il numero dei giornali, dei fogli e delle effemeridi di ogni sorta si moltiplicò. Fioritura destinata ad essere effimera, anche se ai tempi rivoluzionari non avessero fatto seguito, come dopo il 1800 od il 1849, anni di governo illiberali o tirannici. Alla lunga tutti si stancano di perdere denaro, anche in difesa propria, quando ci si avvede che lo scopo non può essere conseguito per quella via. Giova per ora alla moltiplicazione dei fogli quotidiani e delle riviste la stessa scarsità della carta, divenuta perciò un bene razionato e distribuito con criteri detti “di giustizia”, i quali forse sono necessari ad evitare accaparramenti da parte degli imprenditori meglio provveduti, ma sono certamente irrazionali e dunque sostanzialmente ingiusti. Il favore del pubblico non giova a far crescere la tiratura del giornale ben fatto, il quale fornisce notizie vere e commenti reputati indipendenti ed aggiustati dai lettori; ché il distributore ufficiale di un bene scarso (carta), è costretto a seguire criteri oggettivi di graduatoria, come l’uguaglianza o l’anzianità od altrettanti metri formali. Di qui nasce, come per tutti i beni scarsi, l’effetto ovvio dell’aggiustamento illegale, grazie al quale i giornali scarsamente venduti trasferiscono ai giornali più diffusi l’eccesso delle assegnazioni a prezzi di mercato nero. Ma l’aggiustamento è imperfetto, sia perché l’industria del fondare giornali allo scopo di non essere letti ed aver largo margine di carta vendibile (diceva già Costanzo Chauvet, desideroso di non sprecare in carta l’assegno ricevuto sui fondi segreti: «a me basterebbe stampare tre copie del Popolo romano: una per il ministro dell’interno, una per il procuratore del re ed una per me”), diventa sempre meno redditizia quanto più cresce il numero dei concorrenti al riparto del bene scarso, sia perché i prezzi esorbitanti di mercato nero pongono un limite alla convenienza dell’acquisto di carta da parte dei giornali diffusi. Il rimedio si avrà quando la carta tornerà ad essere una merce venduta a prezzi uguali al costo marginale, e il rimedio si attuerà tanto più presto quanto più liberamente si consentirà l’entrata della carta dall’estero. In regime di mercato libero, il pubblico deciderà sovranamente quali giornali debbano sopravvivere e quali morire; e la sua sarà una decisione presa di giorno in giorno spontaneamente, senza minacce e pressioni di governi, di spiriti o di gruppi sociali; né gli inserzionisti potranno opporsi al voto segreto e libero dei compratori al minuto e degli abbonati, essendo evidente il loro interesse a preferire i giornali a tiratura maggiore e migliore.

Rimarranno in vita i giornali “dichiaratamente” di partito o di gruppi sociali e quelli indipendenti. Tutt’e tre le specie hanno ragione di vita e posseggono dignità morale; le due prime perché ogni partito ed ogni organizzazione economica o sociale ha diritto di esporre e difendere i propri convincimenti e di attirare a sé il maggior numero di partitanti o di organizzati; e la terza perché partiti politici ed organizzazioni sociali sono, per definizione, corpi già costituiti e l’interesse massimo della collettività è invece volto all’avvenire, al nuovo, al non ancora costituito, all’idea che non ha ancora acquistato favore bastevole a giustificare la formazione di un partito o di una lega o sindacato. Solo l’uomo, la persona, il cervello pensante è capace di creare il nuovo, di non inchinarsi agli andazzi, di pronunciare le verità spiacevoli ai più. Solo il giornale indipendente espone l’idea nata nel cervello di chi la mette sulla carta e non quella che è riuscita già ad affermarsi nei consessi o nei consigli dei partiti politici e dei gruppi sociali, e che, per essere riuscita a tanto, dimostra senz’altro di essere un’idea non certamente nuova, probabilmente già passata al vaglio di parecchie generazioni, forse già antiquata o, come si usava dire nel tempo fascistico per le idee fornite dell’attributo di giovinezza eterna, superata. Poiché una società qualsiasi lentamente muore se vive solo di idee vecchie, ed anche rapidamente si dissolve se corre esclusivamente dietro alle idee “nuove”, fondate per lo più su ragionamenti formalmente veri, i quali tengono conto solo di taluni elementi della complicatissima struttura sociale e sono perciò storicamente e razionalmente falsi, in una società progressiva e salda debbano coesistere giornali di partito, giornali di gruppo e giornali indipendenti.

Per restringerci a questi ultimi, il metodo accolto rispetto alle imprese proprietarie dei grandi giornali indipendenti parmi pericoloso. Invece di espropriare coloro i quali fecero scempio di onorande testate e di restituirle agli antichi proprietari i quali fossero disposti a pagare a chi di ragione – e questi potrebbe essere in parte l’erario pubblico – il pieno prezzo odierno di stima, si sottoposero quelle imprese, per ora, sembra, senza il diritto a comparire col titolo antico, ad un regime commissariale, del quale, astrazion fatta dalla dignità degli odierni commissari, le conseguenze non possono non essere politicamente pessime. Se il regime commissariale ha una significazione, esso significa dare il giornale in mano al governo od al comitato di partiti il quale designa i commissari. Si perpetua il sistema dei giornali i quali paiono tali e sono invece, come al tempo fascistico, bollettini ufficiali o voci del padrone. Non monta che della voce del padrone si facciano eco comitati interni eletti dai redattori, impiegati ed operai dello stabilimento nel quale si stampa il giornale, o fiduciari di uno o di parecchi partiti, i quali siano riusciti ad impadronirsi dell’impresa. Quello non è un giornale indipendente; ma un organo del governo o del ministro o del comitato che nominerà il commissario. Anche le gazzette ufficiali hanno un proprio ufficio; ma importa che il pubblico sia addottrinato intorno a questa loro vera natura. Il metodo, che pare sia stato tentato a Milano di un Corriere di informazioni il quale, per la rassomiglianza della testata e dell’aspetto tipografico, fu dal pubblico ricevuto come un surrogato del Corriere della Sera, apparve subito essere espediente incongruo. Non basta che il direttore sia una egregia persona ed al gerente o commissario sia affidato esclusivamente il compito di conservare intatto il patrimonio dell’impresa. Né il direttore puòdirigere, se non sia interamente e contrattualmente indipendente da governi, da partiti, da ingerenze dei proprietari dell’impresa; né l’impresa vive, quando chi la gerisce abbia unicamente il compito di conservarla. Solo un’impresa liberamente indirizzata dal direttore-gerente o dal direttore, al quale il gerente sia subordinato, è viva e vitale. Un’impresa che sia altrimenti congegnata può sopravvivere a lungo, vivendo del suo passato; ma è destinata a morire.

Il problema non è dunque quello di rappezzare ibridi metodi; ma l’altro di garantire l’indipendenza della stampa, non affiliata in modo dichiarato ad un partito o ad un credo o ad un interesse (di operai, di contadini, di imprenditori, di banchieri, di proprietari, di artigiani, di mezzadri, ecc.), contro il pericolo che oggi si definisce delle «forze oscure della reazione in agguato», ed è, se si voglia parlare in lingua volgare, quello della partigianeria, delle informazioni inesatte o false o capziose, dei commenti inspirati ad interessi particolari, contrastanti con l’interesse dei più.

Si vuole per lo più conseguire l’intento, indubbiamente alto, anzi imperiosamente richiesto dal bene comune, con mezzi legali. Dei quali il primo è una variante dell’antico “diritto di rettifica”, consentito a coloro i quali ritengono che, a lor danno, un fatto sia stato narrato in maniera non rispondente al vero o si sia pubblicato un commento ingiurioso o diffamatorio. Si vorrebbe cioè che, in ogni giornale una determinata quota dello spazio, ad esempio, una decima od una quinta od altra parte, sia riservata alla inserzione di rettifiche o di repliche inviate dai direttori o redattori od anche lettori di altri giornali, i quali reputassero lesa in qualche modo la verità nella narrazione e la equità del commento degli accadimenti quotidiani. Il lettore del Corriere della Sera – supponiamo per un momento di ritornare ai tempi antichi pre-fascistici – non correrebbe il rischio di essere addormentato da un commento troppo prudente o da una versione attenuata di un incidente parlamentare, od inferocito da un articolo acceso o da una narrazione ingrossata ad arte; ché, il giorno dopo, potrebbe leggere sul suo stesso giornale la rettifica o la replica del direttore dell’Avanti!; e lo stesso accadrebbe per i lettori dell’Avanti!, ammoniti subito, nel corpo del loro stesso giornale, dell’esistenza di circostanze taciute o male narrate o di possibili diverse interpretazioni dei redattori o lettori del Corriere della Sera.

Le varianti del concetto sono molte; ma suppergiù si possono ridurre all’idea che sia opportuno far presenti ad ogni lettore le diverse facce dello stesso fatto o problema. Per fermo la cosa è opportuna, ma il mezzo è incongruo. Innanzitutto la diversità nel vedere e nel commentare il medesimo fatto è insopprimibile. È impossibile che occhi appartenenti ad uomini diversi veggano uniformemente il medesimo fatto. Non esiste la storia o la cronaca oggettiva. Per ciò solo che un fatto, per essere appreso, dovette passare attraverso gli occhi e il cervello di due uomini diversi, quel fatto è e non può non essere narrato in modi diversi e forse contraddittori. A seconda della conformazione del cervello, dell’educazione, delle tendenze religiose o politiche, delle relazioni sociali, degli affetti familiari, quel che sembrò all’uno atto di ascesi religiosa, pare all’altro affetto da bassa superstizione; l’entusiasmo politico prende aspetto di gregarismo follaiuolo; il fervore rivoluzionario di brigantaggio. Ubi est veritas? Il lettore del Corriere della Sera, che probabilmente non sdegna di leggere spesso o talvolta l’Avanti!, sarebbe, invece che convertito, irritato dalle rettifiche impostegli, in virtù di legge, sul suo proprio giornale dall’avversario; e la rettifica sortirebbe effetto contrario a quello auspicato; così come accade od accadeva per quelle che i giornali pubblicavano obtorto collo sotto il titolo: «Riceviamo per mano d’usciere e pubblichiamo a norma di legge».

La rubrica delle rettifiche e dei dibattiti forzosi finirebbe per cadere in disuso, perché i lettori non comprenderebbero la necessità di leggere sul proprio giornale il riassunto delle notizie e delle argomentazioni che più ampiamente e genuinamente potrebbero scorrere nelle colonne del giornale avversario. Il direttore di un giornale, il quale indulgesse a siffatta pratica verso i giornali avversari, finirebbe per essere reputato uomo di poco buon gusto ed essere tenuto in conto di giornalista attaccabrighe, nomea, alla quale nessun uomo di valore è particolarmente affezionato. Il rimedio della “rettifica” è uno dei tanti esempi di degenerazione “legale” di un “costume”, il quale merita di entrare “volontariamente” nell’uso. Derivano dal “costume” e non dalla “legge” la rubrica delle “lettere al direttore”, oramai principalissima e popolarissima nei giornali di lingua inglese e palestra preferita dei lettori convinti della bontà di idee contrarie a quella del direttore; e quella, già divulgata in Italia innanzi al 1925, dei brevi riassunti degli articoli principali degli altri giornali; e finalmente la larghezza con la quale i giornali di informazione italiani trasmettevano da Roma i commenti dei giornali delle più diverse tendenze. Ma il rimedio, efficace se volontario, diventa irritante e fastidioso se coattivo. La libertà di stampa trova in se stessa rimedio alla propria unilateralità. Se il direttore di un giornale indipendente il quale non informa i lettori sulle opinioni diverse dalle sue, non sa l’abici del suo mestiere, il direttore, che vuole a forza far entrare le sue idee nella testa dei lettori del giornale d’altra tendenza, presto o tardi finisce di essere giustamente reputato da tutti, ed a giusta ragione, seccatore e jettatore. Ambedue sono destinati a condurre il proprio giornale a rovina.

Maggior favore incontrò in passato e incontra di nuovo rimedio della “pubblicità”. Si vuole che nella gestione dei giornali si possa guardare da tutti, come in una casa di vetro; e che perciò debbano essere resi di pubblica ragione i nomi dei proprietari, dei soci, dei fornitori di capitali in conto corrente od a mutuo, dell’importo delle quote e crediti di ognuno e di tutte le variazioni di esso; e siano pubblici, insieme con i documenti giustificativi, anche i conti delle entrate per vendita al minuto, abbonamenti, pubblicità e sovvenzioni d’ogni specie; e così pure delle spese tipografiche, telefoniche, telegrafiche, di quelle per stipendi assegni e gratificazioni; a direttori redattori impiegati ed operai; così che si possa ad ogni momento conoscere l’origine e la destinazione delle somme passate attraverso il giornale. Scopo della pubblicità è di sapere se il giornale sia assoggettato all’influenza di forze economiche o finanziarie o politiche, le quali possono essere contrarie all’interesse pubblico e, se queste forze esistono, denunciarle al tribunale dell’opinione pubblica e, smascheratele, ridurle all’impotenza.

L’esigenza della pubblicità merita di essere discussa ai fini del raggiungimento di fini pubblici diversi da quelli sopra considerati. Se si ritiene necessario di accertare i redditi netti assoggettandoli all’imposta, il legislatore può dare al procuratore alle imposte ampia facoltà di visione dei libri e documenti sociali. Siffatte facoltà son già date, amplissime, in Italia; e non si vede come il farne oggetto di nuova legiferazione possa crescerne l’uso efficace. Può darsi, parimenti, che in avvenire si diano a taluni pubblici ufficiali o magistrati facoltà di investigazione nei libri e nella contabilità di private e pubbliche imprese, allo scopo di accertare se esse usino metodi monopolistici, come, ad esempio, accordi per minimi di prezzo, restrizioni di clientela, accaparramento di brevetti e simili, atti a danneggiare i consumatori. Nella recente pratica nordamericana si hanno esempi cospicui di tali investigazioni promosse da magistrati o da commissioni pubbliche per combattere coalizioni monopolistiche.

Dubito che un sistema di pubblicità particolare per i giornali sia efficace a dar purezza allo scrivere quotidiano. Quando mai si vide che diffamatori ricattatori intimidatori pistolettatori non sapessero vestire purissime candide vesti di difensori della verità, di propugnatori di sacrosanti principi, pronti a morire per la difesa della loro fede? Quando mai si vide che il prezzo del ricatto fosse scritturato sui libri regolarmente tenuti dall’impresa giornalistica, creata allo scopo di ricattare diffamare intimidire e puntar pistole? Vedemmo prima e durante il ventennio fascistico nascere e fiorire giornali fondati sulla intimidazione; eppure i loro libri non avrebbero dato modo all’investigatore più sottile di trovare la prova del reato commesso. Forseché è vietato ad una banca di versare il prezzo dell’abbonamento per conto di dieci cento o mille dipendenti? È forse illecito preferire l’uno all’altro giornale per la pubblicità? Chi può conoscere i biglietti da mille forniti, senza alcun contrassegno, a titolo di ricordo, fra le pagine di un libro donato al giornalista dalla penna agile a scrivere sentenze vantaggiose al donatore? In questa delicata materia giornalistica l’arma della pubblicità è a doppio taglio. Si parte dalla premessa, dimostrata agli occhi miei dalla esperienza universale, che l’impresa giornalistica, la quale ubbidisce ad interessi particolari diversi da quello proprio del giornale – vender notizie vere e scrivere commenti ritenuti corretti da chi scrive – non può guadagnare; anzi è condotta necessariamente alla meta fatale: scarsa vendita e perdita in conto esercizio e in conto capitale. Se gli interessi difesi dal giornale sono particolari, gli interessati ben sapranno mettere a capo dell’impresa filantropi o credenti disposti a sacrificar tempo e denaro per la difesa di quel particolare interesse, che può essere quello della protezione doganale ad una industria, del promuovimento di una iniziativa anti-economica. Quei filantropi stipendieranno sociologhi ed economisti, pronti a dimostrare che solo così si dà lavoro ad operai disoccupati e stringeranno alleanza con organizzatori sindacali illusi che quella sia la via migliore a procacciar lavoro ai loro operai. Chi oserà condannare il filantropo il quale perde denari?

Il giornale “indipendente” definito come scrissi nel 1928 e ripetei nel 1944, se è diretto da uomo capace energico ardente e credente nella sua missione, ubbidiente solo a Dio ed alla sua coscienza ed a nessun altro, non può non guadagnare. Poiché Dio concede a pochissimi uomini, in ogni generazione e in ogni grande paese, le qualità di capacità energia fede ed ardente visione, necessarie a fare il capo di un giornale indipendente, così è fatale che quell’uomo faccia guadagnare assai all’impresa. Egli vende notizie e pubblicità a prezzi di mercato, a prezzi non superiori, anzi inferiori, se misurati per unità di pubblicità venduta, a quelli degli emuli, i quali perdono; ma poiché il pubblico lo segue, egli guadagna dove gli altri perdono. Guadagna, perché rende servizi migliori, perché sa procacciare al suo giornale le notizie più fresche dai paesi più lontani, perché si circonda di redattori e collaboratori scelti con cura e remunerati meglio di quelli dei giornali concorrenti. Come in tutte le imprese bene organizzate, egli vende a buon mercato e guadagna assai, perché i suoi costi sono alti, perché remunera largamente i suoi collaboratori, dal compositore al redattore capo, perché alla fine dell’anno od al chiudersi di qualche brillante servizio invia, senza attendere richiesta, a chi rese il servizio, particolari eccezionali guiderdoni.

Eccolo, in regime di pubblicità giornalistica, fatto oggetto di accuse invereconde. Guadagnò? Perciò rubò. La canea dei versipelle pennivendoli non consente al pubblico, ignaro del meccanismo della grande fortunata impresa giornalistica, di far propria l’idea elementare che sta a fondamento del successo: che solo il venditore onesto di notizie vere e di commenti creduti veri da chi li scrive può aver fortuna. Poiché si tratta di idea elementare, della stessa idea per cui fa, alla lunga, fortuna, modesta o grande non monta, colui che produce e vende frutta serbevole e sapida e non marcia e verminosa, vino genuino e non acqua tinta, panni duraturi e non stracci che la prima pioggia dissolve; quella idea stenta ad entrare nella testa del pubblico, invincibilmente tratto a comprare il giornale buono e altrettanto invincibilmente credulo alle calunnie più inconsistenti contro di esso.

Impotente a seguire la gente prezzolata da interessi inconfessabili, la pubblicità imposta dalla legge, praticata da autorità obbligata ad agire per regole generali, inspirata dall’odio istintivo contro chi si eleva per meriti propri, assai difficilmente riesce a punire il colpevole, e facilmente giova a frastornare ed impedire il bene. Congegnata così come si legge nei testi legislativi di prima il 1914, essa è impotente a conseguire l’unico suo fine pubblico, non proprio all’industria giornalistica, intendo dire il fine della lotta contro i monopoli. In Italia non è attuale il problema che si pone in Inghilterra e negli Stati Uniti per alcuni gruppi giornalistici di grande tiratura e di scarsa influenza politica; non già per i Times od il Manchester Guardian e lo Scotsman, ma per i Daily Mail, i Daily Sketch e simili, e cioè i cosiddetti giornali gialli a tiratura di milioni di copie. Essi spesso sono una piccola rotella in gigantesche imprese che vanno dal possesso delle foreste alle cartiere, dalle cartiere ai mezzi di trasporto, dalle agenzie fornitrici di notizie ai giornali quotidiani della metropoli e della provincia, alle riviste settimanali e mensili, alle biblioteche circolanti. Il problema si pone: sono vantaggiose queste imprese verticali? Non minacciano l’esistenza del giornale indipendente, impresa a se stante, ridotta a mendicare la carta e le notizie dal colosso monopolizzatore che gli è sorto accanto? Per togliere il pericolo, giova statizzare od altrimenti dar pubblico carattere al colosso, asservendolo allo stato ed al partito dominante e così distruggendo per altra via l’indipendenza che è garanzia di libertà? Formidabili problemi, i quali si profilano appena sull’orizzonte, ché la concorrenza tra i parecchi colossi è ancora viva, e prosperano tuttora, nonostante il fracasso, i giornali indipendenti, i soli i quali abbiano presa sulla opinione pubblica; conservatrice The Times, liberale The Manchester Guardian o laburista The Labour Herald. Ad escludere il pericolo, basterà in Italia aprir le porte alla carta straniera da giornali, in esenzione di dazio.

Fa d’uopo persuadersi che non esiste e non esisterà mai alcun rimedio legale atto a garantire l’indipendenza della stampa quotidiana. Anche il rimedio da me segnalato nella nota dei Foreign Affairs[1] a nulla varrebbe se fosse imposto dalla legge. Se il legislatore imponesse di istituire, «accanto al consiglio di amministrazione delle imprese giornalistiche un consiglio di fiduciari» incaricato di dare il benestare alla scelta del direttore ed al trapasso delle azioni o carature dall’uno all’altro socio, avremmo creato soltanto un organo cartaceo, privo di efficacia, qualcosa di simile ai soliti “collegi sindacali”, a cui è affidato il controllo della veridicità dei conti delle società anonime. Se tutti i giornali debbono avere al loro lato un collegio di probi uomini incaricati di affermare, secondo il dettame della loro coscienza, che il tale scelto come direttore dai proprietari è persona onorevole e veritiera, dove si troveranno i probi uomini pronti a scartare il tal’altro perché disonorevole e bugiardo? Se i probi uomini debbono affermare per tutti i giornali, ed anche solo per quelli che superano una data tiratura, che l’aspirante azionista o caratista non ha interessi contrastanti con l’interesse pubblico, quale mai probo uomo oserà diffamare il suo simile affermando l’impurità dei suoi propositi? No. Siffatti metodi riescono solo se volontari ed eccezionali. Quando gli inglesi seppero che i proprietari dei Times o dell’Economist a salvaguardare in perpetuo la buona fama del loro giornale, avevano affidato ad un collegio composto dei tali e tali uomini eminenti ed universalmente stimati l’ufficio di approvare le scelte dei futuri direttori ed i trapassi futuri delle azioni, si sentirono rassicurati. Badisi però che la scelta del collegio iniziale fiduciario non fu imposta da alcun pubblico potere né fu affidata ad alcuna autorità. Quei tali uomini parvero bene scelti; e parve a tutti buona cosa che, venendo a morire alcuno di essi, i sopravvissuti scegliessero, fossero statutariamente chiamati a scegliere, con giudizio insindacabile, l’uomo destinato a sostituirlo e così via in perpetuo.

In questa materia non giovano le elezioni, le scelte fatte da corpi pubblici e simili. Siamo in un campo assai vicino a quello delle accademie scientifiche o delle facoltà universitarie. Questi sono corpi chiusi, necessariamente chiusi, ai quali non si addicono metodi qualsisiano di suffragio di estranei. La loro prosperità dipende da una scelta iniziale. Siano venti o quaranta o cento persone autoelettesi in società private e poi riconosciute dal governo, come accadde in Inghilterra od in Piemonte; o siano originariamente scelte da un Richelieu o da un Federico II, la vita dell’accademia dipende dalla cooptazione che di nuovi membri faranno man mano i sopravissuti, cooptazione e cioè chiamata insindacabile e non motivata, fatta dai soci in carica, di altre persone che essi stimano via via degni di essere fatti senz’altro uguali a se stessi. Il metodo della cooptazione durò per secoli a garantire la stabilità degli ordinamenti statali nelle repubbliche marinare di Venezia e Genova; e poi fu disusato nelle cose politiche. Ma nessun altro metodo mai si inventò e probabilmente mai si inventerà a garantire la buona scelta dei membri dei corpi accademici. Quel metodo affida agli accademici ed agli insegnanti in carica il duro compito di scegliere coloro che, appena scelti, diventeranno in tutto gli uguali degli elettori, ed ai quali sarà affidato in avvenire l’arduo ufficio di perpetuare la reputazione del corpo. Non esistono regole le quali garantiscono la buona scelta; ché il giudizio, se deve essere primamente scientifico, deve in ugual misura essere anche morale e riguardare la dirittura di carattere degli aspiranti ad entrare nel corpo. Perciò ottimi sono quegli statuti, i quali più che sancire il diritto delle maggioranze a cooptare un nuovo socio, garantiscono il diritto di veto di una piccola minoranza, in taluni casi persino del quinto dei cooptanti, contro le nuove ammissioni. In una piccola società è sacro il diritto, se non dell’uno, dei pochi, di non ammettere nel proprio seno persona della quale non si abbia stima e della quale non si vorrebbe essere costretti a stringere la mano. Chi si senta menomato dal rifiuto di cooptazione dei soci di un accademia sia libero di fondarne una nuova libera. Se conquisterà fama, col tempo otterrà degno riconoscimento; e sarà anch’essa aristocratica, come quella alla quale in origine si contrappose.

Avrà successo quel giornale il quale primo oserà sottoporre volontariamente la scelta del direttore e dei soci futuri al giudizio di un consiglio fiduciario, purché la scelta originaria dei fiduciari incontri il consenso spontaneo dell’opinione pubblica. In un primo momento pensai che forse i fiduciari potrebbero essere tali in ragion dell’ufficio coperto: il primo presidente della corte d’appello, il rettore dell’università, il cardinale arcivescovo, il presidente della massima associazione operaia locale e simiglianti autorevoli persone. Ma al metodo ostano due difficoltà: di cui la prima si è che non sempre quegli uomini possono essere vogliosi od atti ad assumere il fastidioso e geloso incarico; e la seconda è che le medesime persone potrebbero esser chiamate a dare giudizi, sia pure di sola dirittura morale, intorno a uomini appartenenti a differenti e contrastanti tendenze politiche, religiose e sociali e correrebbero il rischio di essere trascinati in mezzo a spiacevoli competizioni di parte. Perciò val meglio riconoscere francamente il fatto: che il responso dei fiduciari non ha e non può avere alcuna virtù tratta dalla legge o dall’autorità. Nessuno può asserire, in virtù dell’ufficio coperto, che il tale è uomo moralmente probo. Questo è un giudizio personale insindacabile, del quale non può essere fornita alcuna prova. Dinnanzi a siffatta impossibilità, sembra ottimo partito rinunciare alle finzioni legali e concludere: «questi sono gli uomini, uomini e non cariche, ai quali, ed ai successori che essi liberamente vorranno scegliere, noi affidiamo il giudizio morale sulla rettitudine dei direttori e dei proprietari futuri del giornale. Se noi avremo scelto bene e se essi sceglieranno bene i loro successori, il pubblico avrà fiducia in noi e crederà nella nostra parola. Se noi ci saremo sbagliati, pagheremo il fio del nostro errore. Altri, che avrà scelto meglio, acquisterà credito e lettori e ci sopravanzerà».

La conclusione è destinata a lasciare disillusi coloro i quali credono nei rimedi legali ai mali morali. Poiché è certo che a siffatti mali non giovano anzi nuocciono quei rimedi, giova tentare la via opposta: che è di promuovere il volontario ricorso ad un rimedio puramente morale.

 

[1] «Il momento attuale offre un’occasione insperata per adottare in Italia un metodo che io credo abbia avuto inizio dapprima in Gran Bretagna, quando le aziende del Times e dell’Economist passarono dalle famiglie Walter e Wilson nelle mani società per azioni. Si ritenne necessario garantirsi che questi istituti di fama mondiale non avessero a diventare proprietà di gruppi finanziari o d’altra specie, gli interessi dei quali potessero imporre direttive contrarie all’interesse pubblico. Fu creato un comitato fiduciari (Board of trustees) composto da uomini di sicura stima con l’obbligo e il diritto di approvare o meno la nomina di nuovi direttori e ogni trasferimento di azioni, assicurando in tal modo, per l’avvenire, l’indipendenza di quei giornali. Non ci sarebbe alcuna difficoltà a adottare in Italia un qualche espediente analogo. Non occorrerebbe, senza dubbio, applicare il sistema ai casi di minimo rilievo. Soltanto quei giornali che avessero raggiunto una tiratura, dicasi, di almeno 100 mila copie e non fossero gli organi ufficiali di un partito politico o di un sindacato o di un’altra associazione economica, dovrebbero essere sottoposti al controllo del “comitato dei fiduciari”. Una volta scelto, il comitato dovrebbe provvedere alla propria continuazione mercè il metodo della cooptazione». (Dall’articolo The future of Italian press pubblicato sul quaderno dell’aprile 1945 di «Foreign Affairs», pp. 505-509 e ripubblicato in italiano su «La nuova antologia» del luglio 1945, unitamente al presente articolo).

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