I realizzatori alla scuola dell’esperienza
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 16/04/1921
I realizzatori alla scuola dell’esperienza
«Corriere della Sera», 16 aprile 1921[1]
Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 486-490
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1923-1924), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 114-118[2]
L’idea del controllo operaio sta subendo un processo critico assai interessante da parte di coloro che nel settembre scorso la imposero ad un governo che ne sentiva parlare per la prima volta.
Prima l’on. Umberto Bianchi dichiarava assurdo che i dirigenti di un’impresa cooperativa o capitalistica debbano avere tra i piedi dei seccatori, anche se questi si chiamano controllori, e quasi rimpiangeva gli sbruffi che sotto mentite spoglie bisognerà iscrivere nel bilancio delle cooperative per farli stare zitti. Poco dopo un altro organizzatore, Gino Raldesi, si offendeva che si fosse potuto attribuire ai capi della confederazione quest’altra «castroneria», che cioè il controllo deve essere «l’inizio» alla «abilitazione collettiva» alla dirigenza dell’industria. E chi ha mai detto – esclama il Baldesi – che le imprese industriali debbano essere dirette dalle masse, «mentre tutte le esperienze hanno ormai dimostrato che la dirigenza non può che essere individuale»?
E che cosa è ancora, si può rispondere, il socialismo cosidetto scientifico quando, dopo avere per tanti anni predicato contro l’individualismo capitalistico e per la educazione delle masse al governo delle cose, ossia dell’industria, improvvisamente si accorge che avevano ragione gli industriali e gli economisti quando sostenevano che l’industria non può essere governata a forma democratica, che l’impresa deve essere retta da una mente unica, non sottoposta a pastoie, o deve andare in rovina? Che cosa sono queste «tutte le esperienze» le quali avrebbero «oramai» dimostrato che la dirigenza non può che essere individuale, se non le esperienze della società attuale, le fortune delle imprese ben dirette e le disgrazie capitate in passato alle imprese le quali pretendevano di foggiarsi su altre basi? Queste «esperienze» a cui voi fate appello oggi, dopo aver osservato e toccato con mano l’insuccesso del controllo in Germania, in Austria, in Russia, non erano forse «esperienze» probanti e conclusive cinque o sei mesi fa, un anno fa quando gli industriali, forti delle tradizioni proprie, vi additarono le conseguenze spaventose del mal passo a cui voi volevate condurre un paese turbato ed un governo inconsapevole?
A discolpa dei «realizzatori», socialisti o borghesi, popolari o rinnovatori, si può dire soltanto questo: che nelle cose economiche e sociali la scienza e l’esperienza del passato non servono a nulla; che ogni riformatore o realizzatore deve far lui la esperienza, toccar lui con mano le conseguenze dei suoi errori; far lui scuola a se stesso. Dopo di aver fallato, inciampato, toccato con mano l’errore proprio, il realizzatore deve ancora avere la soddisfazione di «insegnare» al mondo attonito che la «esperienza» insegna questo e quest’altro; fa d’uopo ancora consentirgli di ribellarsi contro le ingiuste accuse di industriali, giornalisti borghesi e di economisti. E sia. La riluttanza nel confessare il proprio errore, la improntitudine nel negare di esserne mai stati intinti, sono un prezzo un poco elevato da pagare per l’educazione e l’istruzione dei dirigenti delle masse operaie. Ma sono un prezzo che val la pena di pagare, pur di ottenere lo scopo della pacificazione sociale e della vera ricostruzione che è il ritorno puro e semplice alla organizzazione individualistica dell’impresa industriale.
Il guaio si è che i ricostruttori imparano faticosamente, gridando assai improperii contro i maestri, la lezione. E si ostinano ad impararla a metà od anche meno. Gino Baldesi, il quale si offende al pensiero che alcuno abbia mai pensato che il controllo possa significare avviamento alla direzione collettiva delle aziende da parte degli operai, il quale non vuole che i controllori «scambino la loro funzione di informatori con quella di giudici di quanto avviene nell’industria sottoposta a controllo», nel tempo stesso afferma che il controllo deve essere «l’inizio della abilitazione collettiva alla gestione dei mezzi di produzione, avvicinando così la collettività alla fonte di ricchezza che fornisce il benessere per tutti». Che cosa è «la gestione dei mezzi di produzione» se non l’amministrazione e la direzione delle imprese? Che cosa sono i “mezzi di produzione” se non le macchine, gli edifici, i motori, le materie prime, i combustibili, i capitali circolanti e tutto quanto giova alla produzione? E chi gerisce tutto questo non è forse il vero dirigente, il vero padrone dell’industria? La vuol dunque «avvicinare», sì o no, la «collettività» alla gestione dei mezzi di produzione; oppure riconosce che la dirigenza delle imprese industriali da parte delle masse è una «castroneria» e che il direttore deve essere un individuo, un uomo? E qual valore conserva la sua affermazione dedotta da «tutte le esperienze» che «la dirigenza non può che essere individuale», quando a due righe di distanza egli nota che la legge di controllo «mortificherebbe quella autorità incontestata che i dirigenti hanno esercitata ed esercitano?» Insomma, i dirigenti debbono essere uno o molti; devono essere liberi od impastoiati? Debbono avere attorno dei giudici o delle spie?
La verità è che Baldesi ed i suoi colleghi della confederazione del lavoro hanno gittato in pasto alle folle operaie la parola “controllo operaio” senza avere la più lontana idea del suo contenuto. Adesso, a poco a poco, sotto il fuoco di fila delle obbiezioni degli industriali, imparano quale tremenda cosa sarebbe se fosse attuato, quale impaccio alla produzione e quindi quale ostacolo all’elevamento dei salari, ed affermano che essi non hanno mai pensato, non hanno mai voluto che fosse quella brutta cosa che gli industriali descrivono. Certo; non hanno mai voluto quella tal cosa, perché nella loro mente l’idea del controllo era una nebulosa attraente ed inafferrabile; ed ora brancolano nel buio per cercare di dare qualcosa di concreto alle masse, le quali avevano intravveduto nel controllo il paradiso terrestre, il tesoro nascosto che loro permettesse di vivere senza lavorare.
Non sarebbe giusto rimproverare troppo gli organizzatori per aver fatto una proposta di cui non avevano prima valutato esattamente la portata. Il loro difetto è proprio ai nove decimi degli uomini politici, o, meglio, al novantanove per cento degli uomini in genere. Rarissimi sono coloro i quali, posti dinanzi ad un problema da risolvere, ad un malanno da riparare, non si sentono disposti a proporre il rimedio. Fa d’uopo una gran forza di volontà, una grande esperienza delle cose accadute lungo i secoli della storia umana, una grande resistenza alla tentazione di essere approvato per il bene che si ha intenzione di arrecare altrui, per dire: «No. Questo è un male che non si sana con leggi, che solo l’educazione, l’esperienza, il tempo potranno guarire. Qualunque cosa noi facessimo, anche colle migliori intenzioni, per risolvere legislativamente il problema, aggraverebbe il male». Parlar così, sarebbe eroico; e gli uomini non sono purtroppo eroi o santi. E propongono il rimedio. Se si tratta di individui isolati, il rimedio cade nel vuoto e non fa danno. Quando dietro all’uomo c’è un partito, il rimedio fa la sua strada; e se il partito, per le contingenze del momento, riesce a fare accettare la proposta dal governo, e l’idea entra nel campo delle cose concrete, allora comincia l’opera della «degenerazione» o della «trasformazione» dell’idea; ossia comincia il lavoro, che si sarebbe dovuto far prima, necessario a ricondurre l’idea a quel nulla da cui non sarebbe mai dovuta uscire. Così fu del controllo operaio.
Faccia a faccia con gli industriali, con i veri organizzatori della produzione, gli organizzatori hanno dovuto riconoscere che bisogna ad essi lasciare la direzione dell’impresa, che non bisogna mettere su di essi controllori «che siano chiacchieroni ignoranti». Sarebbe un «orribile sistema» che condurrebbe gli operai «nel baratro della disoccupazione per la chiusura degli stabilimenti». No. Bisogna rispettare i veri industriali. Bisogna anzi aiutarli. Noi vogliamo arrivare alla «conoscenza esatta dei metodi e dei costi di produzione», vogliamo «avere sott’occhio le speculazioni che nulla hanno a che fare con l’industria sana» per salvare l’industria stessa dai suoi nemici, dagli «ignobili vampiri» i quali arricchiscono «procurando periodi di stasi all’attività industriale», vogliamo diminuire «gli artificiosi ostacoli che gli speculatori frappongono alla produzione».
Eh! tanto ci voleva per arrivare a questo punto? E cioè a confessare che essi realizzatori hanno capito e son persuasi che gli industriali sono necessari ed utili alla produzione; ma non hanno ancora capito che anche la banca e la borsa e la moneta sono altrettanto utili e necessarie e quindi vogliono aver modo di andare a fondo di queste misteriose cose, usando il solito metodo di svillaneggiare coloro di cui essi non comprendono l’ufficio? I socialisti sono, in verità, in buona compagnia nel non capire la funzione grandissima, crescente e, tutto sommato, pur tenuto conto di momentanee deviazioni, fecondissima della speculazione nell’incanalare la produzione verso le forme più utili alla collettività. Nove decimi della classe politica dirigente sono con loro e per la stessa ragione per cui essi dirigono i loro ultimi strali verso questa forma di attività economica: per ignoranza della esperienza secolare e della mirabile letteratura quella la quale comprende i capolavori più ardui ma più meravigliosi della scienza economica la quale è venuta intessendosi intorno a questi complicati ed affascinanti problemi.