La terza via sta nei piani?
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 15/04/1948
«Corriere della Sera», 15 aprile 1948.
Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 359-364
Liberismo e liberalismo, Riccardo Ricciardi, Milano-Napoli, 1957, pp. 203-207
Chi vuole dunque la libertà? La libertà pratica, quella che si desidera nei rapporti con i propri simili, con gli inferiori ed i superiori, con i governati ed i governanti; la libertà di muoversi, di parlare, di credere, di scrivere, di scegliere i propri modi di vita, di avere e di cercar di soddisfare i propri gusti senza chiedere il permesso altrui, di lavorare secondo la propria inclinazione e nel luogo di propria scelta? Né il monopolismo privato né il monopolismo pubblico soddisfano all’esigenza della libertà: non il primo perché rende gli uomini schiavi dell’unico o dei pochi proprietari degli strumenti di produzione; non il secondo perché instaura un rapporto di conformismo e di ubbidienza di coloro che sono collocati in basso verso coloro che stanno in alto nella gerarchia politica. L’uomo comune non è libero nell’uno né nell’altro tipo di struttura sociale, perché dipende per il pane, suo e della famiglia, da coloro i quali posseggono, se monopolisti privati, o regolano se monopolisti pubblici, i mezzi di produzione, epperciò distribuiscono i mezzi di vita.
Quale è dunque il tipo di struttura economica che soddisfa meglio all’esigenza della libertà? Troppa gente, a questo punto, comincia a balbettare, affermando di essere pronta ad accogliere le più coraggiose affermazioni delle idee nuove, di rendersi conto di quel che di buono c’è nel socialismo, nel collettivismo, nel comunismo; e conclude: siamo tutti socialisti – si tratta di misura e di gradualità – arriveremo anche noi alla stessa meta – si tratta di arrivarci con garbo e con le buone maniere. Fa d’uopo affermare che, cosi pensando ed operando, non ci si mette su una strada la quale possa condurre ad una meta qualsiasi. Combinando insieme ideali eterogenei e repugnanti, si arriva male, tardi e con gran costo alla meta finale comunistica, funesta a quella libertà che noi abbiamo sopratutto in onore. La terza via non si scopre con la confusione e cercando di conciliare il diavolo con l’acqua santa, il meccanismo esistente nell’Occidente con l’opposto regime orientale. L’unico risultato è quello di fracassare il meccanismo esistente senza mettere nulla al suo posto. La pianificazione o è collettivistica o non esiste; essa non può essere parziale e, per agire, deve essere totale.
Contro la confusione mentale noi dobbiamo innanzi tutto proclamare alto che sinora l’umanità non ha inventato nessun sistema economico produttivo di più copiosa ricchezza e meglio distribuita, nessun sistema atto a far vivere più largamente le grandi moltitudini umane di quello nel quale vive il mondo occidentale, il mondo di noi europei occidentali, degli americani e dei paesi politicamente indipendenti ed abitati e governati da discendenti di europei. Uno scrittore americano ha dato ad un suo libro il titolo: Capitalism the creator; il capitalismo creatore. Il titolo non è appropriato perché il capitalismo, come tutte le altre personificazioni in ismo, essendo esso stesso una creazione dello spirito umano, è esso stesso derivato da qualcosa d’altro e non può trasmettere altrui se non ciò che l’uomo gli dà. Ma il titolo serve a chiarire che oggi, come ieri, chi crea ricchezza, chi crea benessere, chi distribuisce equamente o ingiustamente i beni della terra è l’uomo; ed è l’uomo nella infinita varietà della sua natura, delle sue virtù e dei suoi difetti, dei suoi desideri e dello sforzo posto nel soddisfarli. Assoggettiamo l’uomo ad una regola uniforme, sia questa imposta da un’oligarchia di monopolisti privati, sia da un ceto di tecnici sapienti posti al vertice della macchina collettiva (monopolismo comunistico); e voi avrete, in ambi i casi, la tirannia economica, la distruzione del ribelle, l’uniformità nell’ubbidienza, la graduale scomparsa dello spirito creatore.
Viviamo invece nella nostra società contemporanea, difettosa sinché si voglia, ma varia, ma snodata, composta di milioni di imprese indipendenti l’una dall’altra, concorrenti tra di loro od a volta a volta indotte a collegarsi ed a riunirsi e poi, di nuovo, a frantumarsi ed a rivaleggiare, ed avremo creato l’humus fecondo per la creazione, per il progresso, per l’emulazione, per l’ascesa spontanea dei più operosi, dei più meritevoli e per la discesa dei neghittosi e degli incapaci. Le società dei monopolisti privati e dei monopolisti collettivi sono parimenti società nelle quali si sale non per virtù propria, non per il consenso spontaneo altrui; ma in virtù delle arti, moralmente degradanti ed economicamente distruttive, del favore cercato dall’inferiore presso il superiore. Se le amministrazioni pubbliche si salvano dal prevalere degli intriganti e dei piaggiatori, ciò accade perché esse sono solo una parte della società intera; e perché spontaneamente ad esse accorrono coloro che hanno l’animo del soldato e sentono, come un sacerdozio, l’ufficio del giudice o dell’insegnante o dell’amministratore. Ed altri invece, che ha l’animo volto alle cose economiche, fa il commerciante, l’agricoltore, l’industriale, l’artigiano e lucra o perde a seconda della sua capacità di organizzare bene o male la sua impresa. E v’ha chi non vuol correre rischi, né di comandi civili o militari, né di imprese economiche pio o meno fortunate, e si mette al soldo altrui. Egli preferisce od è costretto a preferire, perché non ha tempo o mezzi da aspettare, l’occupazione a salario altrui. L’agricoltore, il quale diventi insofferente di sopportare sul podere, suo o tolto in fitto od a mezzadria, le vicende delle stagioni, delle grandinate, delle piogge e della siccità si reca in città, dove sul salario non piove o non grandina, e dove si corre invece il rischio della disoccupazione. La caratteristica dei paesi occidentali non è, come si favoleggia negli imparaticci di una storia economica deteriore, quella entità mitica astratta detta capitalismo; ma sono invece quelle cose vive che si chiamano economia di mercato o ad impresa libera; dove gli uomini creano e contrattano fra di loro e non ubbidiscono né al monopolista privato, che essi, ove non ne siano impediti a forza dalla legge, ogni giorno combattono e distruggono; né all’unico datore pubblico di lavoro. Il ribelle non è, come nelle società monopolistiche e comunistiche, ridotto a paria; non è reietto, messo al bando, come nel medioevo, dall’acqua e dal fuoco. Egli crea ogni giorno, a migliaia, imprese concorrenti a quella che minaccia la libertà altrui con la sua forza prepotente; e tentando ogni giorno, in quella che scioccamente si chiama anarchia economica ed è invece continua perpetua creazione di nuove giovani imprese, rivali di quelle già stabilite, offre ai suoi simili il mezzo di salvarsi dalla tirannia. Coloro i quali nella concorrenza non riescono a durare, sono bensì colpiti dalla sanzione del fallimento, lievissima sanzione in confronto della morte economica, la quale si abbatte sui ribelli nelle società monopolistiche private o sui cosidetti sabotatori nelle società collettivistiche.
In una società economica, come quella italiana, nella quale, a fare un solo esempio, vi sono oggi 22.930.909 proprietari di terreni e vi sono 9.988.123 proprietà rurali, e queste vanno dalle minutissime alle grandissime, nel grande numero vi è la garanzia contro la dominazione dei pochi monopolisti privati o dell’unico dittatore pubblico. Nelle società nostre, dove, se si fa astrazione dai vincoli e dalle bardature ereditate dalla guerra e dalla dittatura, i ceti professionali non dipendono dallo stato, ma dal favore della clientela; dove gli agricoltori sono ancora re in casa propria e portano i propri prodotti al mercato e non sono costretti – e giova sperare che gli ultimi residui degli ammassi forzosi scompaiano – a consegnarli a prezzi fissati ad un padrone anonimo detto stato; dove esistono ed esisteranno sempre, ove non siano aboliti per legge, artigiani e commercianti ed industriali piccoli e medi, non è possibile, ove gli uomini ciecamente e supinamente non vi si sottomettano, la tirannia. Non siamo un paese dove tutti siano dipendenti da qualcuno posto in alto e dove si sia, per paura della fame, costretti a dir di sì a chi abbia conquistato il potere. Vivono nelle nostre società milioni di uomini appartenenti a ceti indipendenti dal monopolista privato o dal leviatano statale. Questi ceti indipendenti sono ancora, per fortuna, la grandissima maggioranza del popolo italiano, come degli altri popoli di civiltà occidentale; ed in questi ceti indipendenti sta il presidio ultimo della libertà civile e politica.
Noi dobbiamo conservare questa nostra preziosa struttura economica, frutto di esperienza secolare e causa e garanzia di avanzamento tecnico ed economico e di innalzamento mai più visto delle condizioni materiali e morali delle moltitudini. Le due grandi guerre mondiali hanno fatto compiere alla nostra struttura economica un lamentevole regresso verso il monopolismo privato (protezioni doganali, contingenti, restrizioni, divieti fecondi di camorre e di privilegi) e verso il collettivismo statale. La gente frettolosa ha scambiato il regresso per il sole dell’avvenire ed annuncia la morte dell’economia libera, senza sapere che così prognostica e prepara anche la morte della libertà politica.
Agli uomini che vogliono mantenersi liberi fa d’uopo dire che essi debbono fermarsi sulla via del suicidio. La struttura economica attuale deve essere perfezionata ma non distrutta. Dobbiamo andare verso l’alto, verso una libertà maggiore, non scendere in basso verso la schiavitù. Si afferma con ciò che noi viviamo nel migliore dei mondi possibili, e che non c’è nulla da fare per migliorare la struttura sociale presente? Certamente no; ma altrettanto sicuramente bisogna aggiungere che perfezionare non vuol dire distruggere. È necessario abbattere tutto ciò che ostacola l’aumento della ricchezza e del reddito sociale totale; ed è necessario distribuire meglio, togliendo le punte estreme all’ingiù ed all’insù, la ricchezza esistente. Ma è necessario aver ben chiaro in mente che a ciò non si giunge togliendo forza a quella che è la virtù creatrice della ricchezza materiale come dei beni spirituali: la libertà.