La lira è troppo piccola?
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 20/09/1961
La lira è troppo piccola?
«Corriere della Sera», 20 settembre 1961
Che la unità monetaria italiana, 1 lira, sia una unità piccolissima è fuori dubbio; che ce ne vogliano più di 600 per uguagliare il dollaro, il quale a sua volta non acquista più di un quarto circa della roba che acquistava al principio del secolo; che ne occorrano da 300 a 400 per raggiungere la lira del buon tempo che fu, la lira che ci eravamo abituati a chiamare con quel nome prima del 1914, è parimenti fuori dubbio. Con la liretta odierna, i milionari in Italia si noverano a cifre con molti zeri.
Con una buona camera da letto matrimoniale, fornita di quattro materassi di lana buona, cuscini e lenzuola e coperte, i letti, la guardaroba, un cassettone, alcune sedie e due scendiletto, con una camera da pranzo provveduta di mobili semplici, di buona fattura solida, possibilmente antichi o antichetti perché collaudati dal lungo uso; con una cucina, provveduta del raffreddatoio e delle comuni stoviglie; con una camera da letto per i bambini o ragazzi, non si deve stare molto al di sotto del milione.
Non dico che l’allargamento del numero di coloro che effettivamente posseggono il milione non sia una buona cosa; contrasta tuttavia con il significato tradizionale, che è connesso con l’uso della parola «milionario»; che è di qualcuno fuori dell’ordinario, il quale sovrasta per ricchezza i comuni mortali e li precede nella ordinaria considerazione della gente qualunque.
Le cifre che si sentono enunciare sono cifre grosse e più appaiono grosse nello scrivere, con tutti quegli zeri. A sentire parlare di un patrimonio di 100 milioni, si fa un sussulto. è patrimonio grosso; ma, chi ricordi che questa cifra equivale a quello che innanzi alla prima grande guerra poteva essere valutato un patrimonio intorno alle 280 mila lire, ricorda anche che a quell’epoca un patrimonio di 280 mila lire poteva significare l’agiatezza; ma era ancora lontano dal milione.
Per possedere un milione dei tempi andati oggi fa d’uopo avere un patrimonio valutato sul serio 250 milioni delle nostre piccole lirette; che non è cosa di molti. Ricordiamo sempre che denari e santità metà della metà e che alle cifre nella parlata comune attribuite altrui fa d’uopo far sempre una gran tara.
Notisi che il paragone delle lirette attuali con la lira d’un tempo, uso sempre farlo con la lira del principio del secolo ante – 1914; che era una quantità di cui si conosceva di fatto l’equivalente, in peso e titolo, con una determinata quantità d’oro. La lira era dunque una quantità fisica di
metallo prezioso, che si poteva toccare e palpare, a cui si attribuiva comunemente un certo pregio.
Le lire che corsero poi, quella tra le due guerre, con la quale si fanno comunemente i confronti, erano già disancorate dall’oro e cominciavano a ballare il ballo di San Vito. Adesso, la liretta è piccola, ma non balla più nessun ballo e perciò serve benissimo al suo scopo. L’esigenza necessaria per una moneta non è che sia grossa o piccola; è che sia stabile, che suppergiù acquisti da un anno all’altro una quantità costante di roba. L’indice della stabilità della lira usato oggi è la stabilità del suo cambio con il dollaro: circa 620 lire per ogni dollaro. Verso il 1946 – 1947 la lira ballò fra 300 e 900 ed era male avviata all’insù; e l’essere stata stabilizzata sul 620 fu un vantaggio.
L’indice di stabilità attuale col dollaro non è perfetto; come non sarebbe neppure perfetta la stabilità effettiva con un peso dato d’oro. Ma, data l’imperfezione delle umane misure di valore, possiamo contentarcene.
Direi perciò che non esista nessuna ragione sostanziale di mutare l’unità monetaria, solo perché piccola. Piccola o grossa, l’unità serve benissimo al suo scopo, quando sia stabile. Se il bisogno di mutare è diffuso nell’opinione pubblica, è per ragioni direi estetiche. Dà fastidio la moltiplicazione dei milioni e dei milionari, di cui tutti ridono; dà fastidio a chi deve tenere vita regolatissima, sentirsi dire che egli, dopo tutto, guadagna più di un milione all’anno. Gli inconvenienti della piccolezza dell’unità monetaria non sono solo di fastidio e di ridicolo; possono diventare sostanziali.
Quando, come accade sempre più frequentemente, le imposte sono stabilite su
di una base progressiva, accade che la scala della progressività sia stata
fissata quando la lira valeva di più di adesso; e si progrediva dall’1 al
10 per cento del reddito, se il reddito giungeva a 100.000 lire; ma le lire
erano più grosse.
Attualmente 100.000 lire all’anno equivalgono ad un reddito di 286 lire di una volta; ed un reddito siffatto non è davvero tale da tollerare un’imposta del 10 per cento. Gli antiquari si lamentano a gran ragione di dover pagare sull’eccedenza una tassa di esportazione del 30 per cento quando l’oggetto supera il valore di un milione; ma, se la tassa era ragionevole quando si trattava di porre un freno all’uscita dal paese di un quadro di autore forse insigne, non lo è più oggi, quando si vedono valutate un milione l’una certe belle sedie veneziane, che certo giova alla bilancia nazionale dei pagamenti vedere esportate.
Perciò se si potesse passare senza inconvenienti da una unità piccola ad una grossa, non sarebbe male: minore fastidio nel pronunciare, meno ridicolo nell’attribuzione dei valori e qualche non spregevole vantaggio secondario. Il guaio è che facile non è. Il sistema, che par semplice, usato in Francia, di spostare la virgola a sinistra di due unità produce due inconvenienti.
L’uno è che, per un tempo indefinito, sarebbero usate due nomenclature l’una accanto all’altra. Ci sarà la lira piccola da 1 lira e la lira grossa uguale a 100 lire piccole di oggi. Fosse solo un imbroglio nel discorrere, sarebbe un inconveniente passeggero; ma l’imbroglio può diventare sostanziale, se si pensi che i prezzi hanno la abitudine di essere viscosi, attaccaticci.
Se ci siamo abituati a dare ad un oggetto il prezzo di 100.000 lire in lirette attuali, è difficile, dovendo passare a trattare in lire nuove o grosse, che si dica: il prezzo è 1.000 lire. Al venditore pare troppo poco.
Non è vero che sia poco; ma tant’è, si cerca di scendere di meno. Si cerca di fissarsi sulle 2.000, sulle 1.500, sulle 1.200 lire. Alla lunga, ci si dovrebbe adattare alla nuova parità. Ma sarebbe probabilmente un affare lungo; e si verificherebbe una tendenza artificiale irrazionale al rialzo, che non vi è ragione di provocare senza necessità. Il secondo inconveniente è contabilistico; ma esiste. Poiché, di fatto, i due sistemi sarebbero in uso per un certo tempo, lo spostamento di due unità non è pratico.
Nell’uso comune, delle botteghe, i prezzi sono già dichiarati diminuendoli di due unità: si dice 9,37 invece di 937; 7,45 invece di 745. Bottegai e clienti si intendono benissimo e trovano comodo di non pronunciare parole roboanti per una testa di cavolo. Non si va però oltre il 1.000. Oltre il 1.000, le cifre si pronunciano e si scrivono per intiero.
Per istinto, si sente che, se si vuole usare un’unità più grossa, non basta spostare due zeri, bisogna spostarne tre. Provino i lettori a procedere a due a due, ovvero a tre a tre e vedranno che spostare per tre è comodo e quasi naturale; spostare per due è un pasticcio. Gli indiani sono abituati da secoli al loro sistema eteroclito, per cui la rupia, che è la loro unità monetaria, fa 100.000 lac, e 100 lac fanno 1 crore, e 100 crore fanno un mas; e col calcolo mentale o col pallottoliere se la cavano benissimo; ma un disgraziato forestiero presto rinuncia a far dei conti e si contenta di numerare in rupie.
Non è facile immaginare una unità monetaria nuova che diventi adatta all’uso in un non troppo lungo lasso di tempo senza attrito e senza strascichi spiacevoli. O si annulla, si distrugge addirittura l’unità antica, come accadde col marco e se ne crea una nuova, magari con lo stesso nome; o son dolori.