La nuova frontiera
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 07/06/1961
La nuova frontiera
«Corriere della Sera», 7 giugno 1961
Alla «nuova libertà» del Presidente Wilson, al «new deal» o «nuovo programma» di Franklyn Roosevelt, il presidente Kennedy ha sostituito l’appello alla «nuova frontiera». Nel suo discorso egli ne parla con linguaggio inspirato: «La frontiera degli anni 1960 è quella delle occasioni e dei pericoli ignoti; la frontiera delle speranze non avveratesi e delle minacce non mantenute.
La «nuova frontiera» non è fatta di promesse; ma di sfide. La «nuova frontiera» riassume non ciò che io intendo offrire al popolo americano, ma ciò che penso di chiedere ad esso. Essa fa appello al suo orgoglio, al nostro orgoglio, non alla nostra sicurezza, essa promette ulteriori sacrifici, anziché maggiore sicurezza».
Della «nuova frontiera» quale balza fuori dalla calda parola del presidente si può dire come di tutte le parole inspiratrici, che essa non definisce un programma preciso d’azione. Non era il suo ufficio. Come tante altre parole le quali agirono sul destino degli uomini, il verbo della «nuova frontiera» non deve necessariamente enunciare principii concreti di azione. Essa è una sfida all’avvenire, promette sacrifici, vuole esaltare i sentimenti sani di resistenza al male e di aspirazione verso il bene.
Si ricordi tuttavia che quella parola ha avuto nella storia degli Stati Uniti un contenuto decisivo. Si è sempre parlato in quel paese della «frontiera» come di un fatto di costruzione di un società nuova. Dal giorno in cui i «padri pellegrini» sbarcarono nel seicento sul suolo americano, per cercarvi protezione contro la tirannia religiosa e politica, ad oggi, il fattore «frontiera» è stato dominante. La frontiera dalla costa atlantica si è continuamente spostata sino a raggiungere le coste del Pacifico verso la metà del secolo scorso. I 13 stati originari a poco a poco, grazie allo spostarsi della frontiera, diventarono 48; ed oggi sono 50 con la proclamazione a stati dell’Alaska e delle isole Haway. Gli Stati Uniti hanno accolto i due nuovi stati, sopravvenuti per circostanze accidentali, tutto ché separati dal territorio nazionale da grande tratto di terra o di mare; ma non intendono estendere la frontiera al di là dei confini del suolo nazionale.
Tuttavia, l’aspirazione ad una estensione ideale della frontiera è profondamente radicata nell’animo degli americani, perché essi vi possano rinunciare. La «frontiera» ha dato alla psicologia degli americani i caratteri suoi più profondi, più vivi, più energici. Se essi sono individualisti, energici, ingenui; se essi non si lasciano abbattere dalle avversità, se essi non temono di restare alla lunga senza lavoro, debbono tutto ciò alla frontiera. Alla peggio, se la dimora antica diventava ingrata, c’era la frontiera; c’erano i grandi territori ancora vuoti, dove ognuno poteva occupare la terra e crearsi una nuova vita; c’erano i crocicchi delle strade e delle ferrovie, dove era sempre possibile costruire un nuovo borgo, forse destinato a divenire una grande città.
Era sempre possibile vendere i terreni appoderati o già frazionati in lotti cittadini, e col ricavo spingersi avanti nella prateria ed iniziarvi una nuova vita. La frontiera dava speranza ed inspirava coraggio. Perciò gli americani non sanno rinunciare all’idea della frontiera; né vi rinunciano gli italiani che, se pure raggruppati sovratutto negli stati dell’Atlantico si sono spinti un po’ dappertutto ed in California hanno creato imprese mirabili agricole ed industriali.
La più grande banca degli Stati Uniti, prima di chiamarsi Bank of America aveva il nome di Bank of Italy. La frontiera fu anche teorizzata dagli economisti; ed un italiano, Achille Loria, creò la teoria della «terra libera» che, a cavallo dei due secoli, ebbe in Italia e fuori grande risonanza. Che cosa diceva la teoria della terra libera?
Il Loria, e dopo di lui un americano, il Turner, vedevano nella terra libera la spiegazione del mondo economico e sociale. Finché esiste terra libera, non può esistere soggezione dell’uomo all’uomo. Sinché il lavoratore vede, al di là della frontiera, una estensione illimitata di terra coltivabile, sulla quale egli si può trasferire e, con la semplice occupazione, crearsi una casa ed un podere; sinché egli può recarsi nella vicina foresta e con la fatica di abbattere gli alberi, costruirsi con tronchi ed assi la casa ed attorno creare il campo bonificato dalla fertilità che la foresta od il pascolo vi ha accumulato per secoli; perché egli deve porsi a servizio altrui?
Il Loria aveva visto in questo fatto il segreto della storia sociale. Egli, dai libri di storia coloniale, dai racconti dei viaggiatori aveva tratto gran copia di fatti, i quali dimostravano che nei paesi nuovi, negli Stati Uniti, nel Canadà, nell’Australia, nella Nuova Zelanda era impossibile la creazione dell’impresa a salariati. Era vano organizzare in Europa compagnie di lavoranti, obbligati da contratti a prestare la propria opera a salario dato per un tempo prefissato a favore di un dato imprenditore. I lavoratori obbligati sbarcavano sul libero suolo nei paesi nuovi; e prestavano opera sinché non avessero cumulato il capitale sufficiente ad acquistare il carro, i buoi od i cavalli, gli strumenti e le provviste alimentari bastevoli a dissodare il campo e costruirsi la casa ed attendere il primo raccolto.
Perché lavorare alla dipendenza altrui, quando la terra esisteva ed era pronta a ricevere il lavoratore? Invano gli imprenditori protestavano per il violato contratto, invano riuscivano ad ottenere dai magistrati un decreto di ingiunzione al lavoratore di osservare il patto stipulato per il tempo convenuto.
La terra era lì, pronta ad accogliere il lavoratore fuggitivo. Come impedire la fuga dai borghi e dai luoghi abitati al deserto selvaggio aperto a tutti, dove occorreva solo difendersi dagli indiani? Invano, in alcune antiche colonie, i parlamenti locali, in cui dominavano i coloni più antichi, cercarono di opporre ostacoli alla fuga verso la terra libera. Dappertutto, essi tentarono di creare ostacoli artificiali; dichiarando che la terra non occupata era di proprietà della nazione e fissando un prezzo alla terra offerta in vendita. Il prezzo di acquisto non poteva essere proibitivo, perché sempre era possibile la fuga verso terre più lontane; al più, costringeva il lavoratore a rimanere al lavoro nella fabbrica per qualche mese o un anno ancora, quanto bastava a cumulare il risparmio necessario al pagamento del prezzo della terra.
Finché agli uomini accorrenti dall’Europa verso le terre nuove fu offerta l’ospitalità della terra libera, gli imprenditori dovettero offrire agli operai salari elevati, così da compensare la perdita dell’indipendenza economica a cui essi potevano aspirare; ché, sotto la minaccia della fuga verso la terra il sistema del salariato restava precario ed instabile. Solo quando l’ultima terra fertile fu appoderata, solo quando la fuga dovette limitarsi alle terre magre e dure, il sistema del salariato, detto capitalistico, poté dire di essere divenuto stabile. La scomparsa della frontiera consacrò la vittoria del sistema del lavoro salariato e la soggezione del lavoratore all’imprenditore. Perciò si comprende come gli americani, i quali idealizzano anch’essi, come gli umani in genere, un passato reputato felice, rimpiangono la scomparsa della frontiera e vorrebbero ricrearla.
Il mito della frontiera è forse ingenuo ed è certamente parziale. Gli uomini non sono costretti ad allogarsi a salario alla dipendenza di altri uomini solo a causa della difficoltà di trovare terra libera abbastanza fertile che possa essere occupata per mero atto di volontà. L’abbandono delle terre, oggi fatto caratteristico dell’agricoltura italiana, non è determinato in primo luogo dal minor reddito offerto dalla terra in confronto a quello del salariato industriale.
Ho udito osservatori prudenti ed attenti dare il posto d’onore fra le cause dell’abbandono alla difficoltà dei giovani di trovare donne le quali consentano ad accasarsi in campagna. Vengono subito dopo altre ragioni tutte derivate da considerazioni di amicizia, di comodità, di repugnanza per la solitudine della campagna. L’uomo è gregario ed ama stare insieme ai propri simili. Loda la tranquillità, il silenzio della campagna, ma predilige i rumori della città; ama la famiglia, ma volentieri frequenta le osterie, i teatri, i cinematografi, i circhi dove si giocano partite tra famosi campioni.
La terra libera offre una via di scampo alla soggezione altrui solo ad una piccola minoranza. È vero che questa minoranza è quella che fa storia e fa anche storia economica. Achille Loria aveva scoperto uno dei tanti filoni, perseguendo il quale si può spiegare un aspetto della storia umana, ed aveva immaginato che il filone desse la chiave del tutto; spiegasse come gli uomini fossero liberi quando vivevano di caccia e di pesca ed anche quando custodivano i greggi di pecore e gli armenti di bovini, contemplando il sole e le stelle; ed avessero perduto la libertà quando crescendo la popolazione e venute a far difetto le terre libere, taluno poté circondare la sua terra con la siepe e dire: «questa terra è mia». Dopo quel primo, gli altri uomini diventarono schiavi e poi servi della gleba e poi salariati. In quel giorno teoricamente nacque la cosidetta civiltà capitalistica.
La spiegazione qualcosa diceva; qualcosa di più di quell’ancor più pochissimo, che raccontava la dottrina del «Capitale» di Marx; illuminando però uno solo dei tanti aspetti della storia del mondo.
Rimaneva viva la domanda: quando la fuga verso la terra sarà resa vana dalla mancanza di nuova terra liberamente occupabile ed arabile e faconda quale strada sarà aperta alla minoranza ribelle e dal suo vigoreggiare, quale speranza v’è per la libertà umana?