Lettere dell’alfabeto
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 04/05/1961
Lettere dell’alfabeto
«Corriere della Sera», 4 maggio 1961
Le denominazioni abbreviate stanno diventando un grosso rompicapo. In Italia, il successo della Fiat, meritato perché fin dal principio il titolo vero dell’impresa fu combinato in modo che la sequenza delle iniziali avesse significato proprio, per giunta elegantemente pubblicistico, ha incoraggiato la divulgazione delle iniziali.
Qualche anno fa ricevetti un dizionario di cosiffatti indovinelli, utile nei limiti nei quali i dizionari siano a portata di mano quando se ne ha bisogno; ma oggi l’afflizione è diventata incomportabile, e cresce la stizza per l’abuso che se ne fa nei giornali e nei documenti ufficiali da chi vuol darsi aria di saccente e sa di mortificare chi non ricorda e deve far finta di conoscere o di indovinare prestamente ci di cui si parla.
Nel campo internazionale, l’afflizione è tormentosa: NATO, SEATO, ONU, MEC, OECD, OECE, UEO, CEE, ECE, GATT, COCOM, DAG. Tutto ciò che ritengo, delle parole del nuovo vocabolario, è un riferimento, molto all’incirca, al contenuto del trattato internazionale al quale esse si riferiscono, sicché a scemar la fatica mentale, spesso vana, di ricostruire la denominazione vera dell’istituto, assai volte cangiante a seconda della lingua d’uso, parrebbe caritatevole scrivere tra parentesi per intero le parole vere o viceversa collocare queste nella prosa corrente inserendo poi tra parentesi, a soddisfare la virtuosità dei provveduti di buona memoria in lingue forestiere, le lettere dell’alfabeto.
Certo è, e questo è uno degli aspetti non abbastanza avvertiti dei trattati internazionali divulgati sotto le sembianze di lettere dell’alfabeto, che esse stanno acquistando un’importanza notabile anche nel diritto costituzionale interno. Innanzitutto, le lettere dell’alfabeto sono opera non tanto di parlamentari e di politici quanto di periti ovverosia esperti. I politici discutono e deliberano i principii generali; ma non si azzardano a formulare articoli e comma, i quali richiederebbero una conoscenza che è assurdo sia posseduta da essi, di svariate legislazioni straniere.
Purtroppo, i politici intervengono non di rado, con emendamenti improvvisati, nella formulazione delle leggi interne; e dalla improvvisazione spesso non coordinata con le altre norme della legge od a queste contrastanti, nascono guai infiniti. Nella formulazione delle lettere dell’alfabeto, i politici prudentemente invece si astengono, delegando la bisogna ai periti.
Questi compongono una confraternita di illustre e antica estrazione, conosciuta da gran tempo, ma viva in passato solo di tratto in tratto, quando insorgeva l’occasione, meno frequente, di stipulare convenzioni internazionali.
La confraternita crebbe in importanza quando parve consigliare con trattati o convenzioni i rapporti postali, telegrafici e telefonici, regolare il traffico ferroviario e marittimo, rendere uniforme, entro certo limiti, la legislazione sulla proprietà letteraria e quelle sui brevetti industriali e sui marchi di fabbrica, disporre difese contro la diffusione delle malattie degli uomini, degli animali e delle piante ecc. ecc.
Nacquero uffici internazionali, ignoti ai più ed apprezzatissimi dagli addetti, i quali regolano la materia contemplata nelle convenzioni; ed in talune città, poste nei paesi più diversi, particolarmente nella neutrale Svizzera, ebbero sede commissioni e comitati od uffici, i quali amministrano le convenzioni, sottraendo così agli stati singoli una parte della loro sovranità.
Trattandosi tuttavia di problemi tecnici, speciali, la cosa passa quasi inavvertita, sino a quando nei due dopo guerra la materia del convenire si allargò a dismisura e crebbe in proporzione l’importanza della confraternita specializzata nel formulare ed amministrare convenzioni, relative sovratutto a faccende economiche; sicché, crescendone il numero, i periti internazionali finirono di acquistare un chiaro spirito di corpo. Sono stabili nella sede dove la applicazione del trattato è fissata; e di lì viaggiano e si spostano; ed assommano probabilmente, a tacere delle segretarie, stenografe ed archiviste, a parecchie migliaia. Adusati alla formulazione di trattati, scelti fra diplomatici, magistrati, militari, alti funzionari, con qualche venatura di banchieri industriali e generici, costoro sono espertissimi nello stilare principii e riserve.
Forse il capolavoro si contempla nel trattato di Roma del 25 marzo 1957 per la istituzione della Comunità economica europea. Pensato dapprima col proposito di unificare le dogane fra i sei Paesi contraenti: Italia, Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo, esso finì per essere esteso a tutti i campi dell’attività umana. Come può invero un uomo perito delle cose economiche immaginare si possano abolire gradatamente le dogane interne fra i sei Stati, istituire una tariffa doganale comune, abolire le restrizioni quantitative fra gli Stati membri, senza riflettere che liberando le merci, occorre altresì statuire la libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali, abolire o ridurre o regolare le restrizioni monopolistiche alla concorrenza fra le imprese e imprese, abolire le pratiche dannose di svendite artificiali (dumping) e disporre aiuti alle imprese danneggiate dalla regolazione internazionale? Come è possibile lasciare i prodotti dell’agricoltura e dell’industria scorazzare liberamente da un paese all’altro, senza escogitare mezzi per impedire le crisi dovute all’irrompere improvviso di merci a buon prezzo in paesi incapaci a resistere alla concorrenza? Importa anche preoccuparsi delle bilancie attive e passive dei pagamenti, delle congiunture sfavorevoli, e dei rischi di disoccupazione; e provvedere affinché la politica sociale dei paesi contraenti si inspiri a principii uniformi, sicché, con contributi tratti da un fondo comune, si dia rimedio agli squilibri che dalla applicazione delle convenzioni possono derivare.
Affermati i principii, ha inizio il lavoro più importante dei periti, che è quello delle eccezioni temporanee, si intende, e delle riserve. Tutto il testo è un finissimo ricamo inteso a proclamare solenni massime e ad attenuarne la applicazione con riserve, generali e speciali, descritte nel testo o nei protocolli addizionali.
I politici non sono in grado di apportare variazioni apprezzabili ai testi approntati dai periti. Taluno forse avrebbe voluto ricordare che i vecchi trattati di commercio erano roba modesta, che si limitava a determinare le tariffe di importazione e di esportazione delle merci fra i due paesi contraenti ed a garantire con la clausola della nazione più favorita, la uguaglianza di trattamento con i paesi terzi. Forseché il commercio internazionale non presuppone la diversità di condizioni economiche, fiscali, sociali?
Se davvero le situazioni di due paesi fossero perfettamente uguali, se i salari, i profitti, le imposte, i prezzi, i costi comparati, i prodotti, i metodi di lavorazione, la perizia degli operai fossero identici, l’incitamento a commerciare, a negoziare, a trasportare sarebbe ancora ugualmente vivo ed operante? Ma i dubbi del solitario politico e dell’antiquato economista, dovettero essere in questa come in tutte le convenzioni internazionali, accantonati dal vigor di pensiero della confraternita peritale, la quale dichiara, conformandosi del resto al dettato della teoria della interdipendenza di tutti i fattori economici politici e cosmici, essere impossibile regolare una materia senza regolare insieme tutte quelle altre le quali sono con essa inscindibilmente collegate.
L’approfondimento e l’allargamento dei regolamenti internazionali delle cose di pubblico interesse, fu, in verità, fortunatissimo evento. Le riforme, le novità, le idee od escogitazioni le quali debbono essere attuate col consenso di due o più stati sovrani non possono invero fare per lo più lunga strada.
Le difficoltà di mettere d’accordo su un unico testo legislativo uomini, politici o periti, aventi diverse formazioni storiche e mentali, appartenenti a nazioni e partiti dissimili, ubbidienti ad interessi nazionali svariati sono assai più grandi di quelle che si incontrano nel persuadere un parlamento.
I parlamenti nazionali spesso sono già persuasi, anzi sono propensi a proporre e ad insistere essi stessi presso i governi per la sollecita approvazione d’urgenza di sempre nuove leggi; ma le discussioni su convenzioni internazionali sono invece lente ed incerte; sicché il numero di quelle le quali giungono alla perfezione, è per ogni unità di tempo, assai minore di quello delle leggi nazionali. Risultato, per fermo, commendabile agli occhi di chi ritenga essere la maggior parte delle leggi nuove fatica vana e non di rado nociva; e doversi apprendere dall’esperienza del passato a dare la palma a quegli uomini politici i quali riescono ad impedire giunga in porto la maggior parte delle idee cosidette rinnovatrici propugnate nelle gazzette ed alle proposte di fruste novità presentate per conseguenza nei parlamenti.
Le leggi derivanti da convenzioni internazionali hanno, oltre a quella di essere mai rivoluzionarie, ossia dettate in seguito a movimenti di piazza o di folla o a passioni improvvise. Esse sono invece lentamente maturate nella riflessione, nella discussione, attraverso procedure lentissime e tergiversazioni logoranti. Perciò producono nella vita dei popoli variazioni spesso profonde e veramente rivoluzionarie.
Finalmente, ed è questa la virtù maggiore, l’optimum delle leggi deliberate in seguito ad un accordo internazionale, le convenzioni debbono essere «ratificate».
Non basta il consenso dei re e dei presidenti degli stati sovrani contraenti, consenso dato sulla proposta dei gabinetti e dei consigli, ai quali le singole costituzioni attribuiscono la relativa facoltà, perché trattati e convenzioni diventino legge vigente nel territorio degli stati contraenti.
Occorre la ratifica, ossia la discussione e la approvazione di ognuno dei parlamenti, seguita dalla sanzione sovrana o presidenziale. Ma la discussione ha carattere singolare; ché non consente emendamenti, variazioni o ritocchi di sorta veruna. Si deve approvare o respingere tale quale , per sì o per no. Alla maggioranza di un parlamento alla quale la convenzione dispiaccia, non resta altro da fare, che votar per il no.
Dispiace anche non di rado non poter consentire alle grida di dolore degli agricoltori, degli industriali, degli operai i quali vorrebbero ostacolare l’importazione di tali o tali altre derrate o merci da tale o tale altro paese particolarmente importune; ma se una clausola di certe lettere dell’alfabeto dette del GATT lo vietano, bisogna friggere e adattarsi obtorto collo.
Ministri e parlamentari non sono forse troppo malcontenti di dirsi dolenti di non poter far niente in proposito e, allargando le braccia, esclamare: purtroppo c’è il GATT! Con le quali misteriose lettere di cui in questo momento non riesco a ricordare il significato dell’ultima, le lagnanze sono seppellite; vietando così quelle diversità di trattamento fra merce e merce, fra persona e persona, fra nazione e nazione le quali sono cagione non ultima di decadenza economica.
Se si pensa quanto siano fecondi di avanzamento morale, spirituale, politico ed economico l’amicizia fra le nazioni, i crescenti rapporti fra paese e paese ed i reciproci commerci, facilmente si persuade che le lettere dell’alfabeto sono fattore non ultimo del miracolo economico italiano, come di quello tedesco e, oltre a quelli in genere dei paesi di civiltà, occidentale, del miracolo, meno conclamato, ma pur vero, francese. La autorità dei parlamenti dei paesi che ancora si dicono sovrani, risulta per fermo menomata; ma sarebbe stato così marcato l’avanzamento, se la mania del nuovo, del miracoloso, del rivoluzionario: se le richiesta di mutamenti radicali, profondi di «struttura» non fossero state tenute a freno, sia pure in misura malauguratamente lievissima, dalle lettere dell’alfabeto?