La predica della domenica (XVI)
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 07/05/1961
La predica della domenica (XVI)
«Corriere della Sera», 7 maggio 1961
Le prediche della domenica, Einaudi, Torino 1987, pp. 55-58[1]
Dai principi generali al caso concreto c’è spesso di mezzo il mare.
Possiamo essere d’accordo che le ferrovie di stato non debbano preoccuparsi di pagare interesse ed ammortamento sul capitale impiegato nella costruzione e nell’arredamento delle ferrovie prima del 30 giugno 1905, che è la data a partire dalla quale il servizio del capitale antico è stato posto a carico del tesoro, ossia dei contribuenti. Le ferrovie non furono costrutte anche per il fine politico della unificazione dell’allungatissimo territorio nazionale, per difendere la patria, per aiutare le regioni povere a vendere i loro prodotti? Perché alle spese relative dovrebbero contribuire solo gli utenti? L’onere, del resto, in virtù della svalutazione della lira è ridotto oramai a poca cosa ed i contribuenti lo possono agevolmente sopportare. Per le ragioni dette sopra, non casca il mondo se l’amministrazione ferroviaria non riesce inoltre a pagare gli interessi neppure sul capitale nuovo, investito dopo il 1905. Si sono certamente commessi errori di costruzioni di linee politiche inutili: e dopo il 1945 si sono ricostruite linee, fortunatamente distrutte dai bombardamenti e dalle fazioni belliche, inutili ai popoli e costose di disavanzi al bilancio dello stato. Perché i viaggiatori e gli utenti merci dovrebbero fare le spese degli errori commessi dai governi? E così, a fetta a fetta, si giustificano i disavanzi ferroviari e l’attribuzione del carico, che ne deriva, al bilancio generale dello stato.
La giustificazione non vale quando si giunge al fondo. C’è un residuo, imponente, di capitali investiti in massicciate, rotaie, gallerie, stazioni, materiale mobile, che servono linee già fin d’ora redditizie o suscettive di diventarlo. Depurato oramai, per ripetute purghe, da tutti gli elementi politici, nazionali, militari, territoriali, non c’è nessuna ragione al mondo perché quel capitale, che è vivo e deve vivere non debba essere remunerato, riparato, e rinnovato adeguatamente e cioè per quel che costa, a carico del bilancio particolare delle ferrovie. Se ciò non accade, è perché tutte le risorse disponibili, e al di là, sono assorbite dai vociferanti: ferrovieri che chiedono paghe cresciute; utenti che non vogliono pagare il biglietto o lo vogliono pagare sotto costo; ovvero adducendo ragioni pretestuose, intendono far trasportare derrate e merci dal sud al nord e dal nord al sud bene al disotto del costo.
Le linee, le rotaie, le gallerie, il materiale viaggiante non parlano: e perciò i servizi relativi non sono provveduti dai Governi con assegnazioni bastevoli al bisogno di ciò che esiste. Perciò abbiamo tariffe per viaggiatori e merci assai più basse di quelle svizzere, dicesi della metà e più. Perciò le ferrovie federali svizzere hanno un bilancio in ordine, pagano interessi ed ammortamenti e versano al tesoro un utile dividendo modesto e reale. Noi invece, vantiamo disavanzi e gli impianti vanno in malora e si moltiplicano gli infortuni, che i dirigenti da anni paventano.
Quando accade qualche disgrazia più grossa, proviamo un soprassalto alla vista dei troppi morti e nominiamo commissioni d’indagine, le quali riferiscono quel che è notorio, e propongono stanziamenti di centinaia di miliardi per sopperire ai buchi che negli impianti si sono aperti, per la mala voglia posta nel provvedere alle spese correnti silenziose di esercizio.
La lebbra ora sembra si possa estendere alle altre grandi imprese statali, quelle dell’Iri. Dell’Eni non si sa quel che sarebbe essenziale di conoscere, ossia l’uso, che i dirigenti hanno per legge il diritto di impiegare a loro grado, ma il dovere di rendere noto pubblicamente, delle parecchie decine di miliardi, dicesi cinquanta, che sono il frutto netto del monopolio del metano. Finché di quell’uso non si renda conto lira per lira, con l’indicazione dei nomi degli enti o persone beneficiari o clienti, nulla si può dire.
Per le imprese governate dall’Iri il pericolo sembra sia venuto dopo la legge demagogica la quale ordinò il loro sganciamento dalle imprese economiche private. Era prevedibile che lo sganciamento, della trattazione dei problemi del lavoro per le aziende pubbliche da quella per le imprese private, volesse dire che lo stato e nel caso specifico le aziende Iri, le quali appartengono allo stato o da esso sono controllate, debbano, nella determinazione dei salari, degli orari e delle altre condizioni del lavoro regolarsi secondo criteri sociali e non grettamente economici; debbano dare il buon esempio, debbano discutere benevolmente le richieste delle leghe operaie, inspirandosi a quello dei due principi i quali dai primi del secolo presente, se non prima, sono in campo per la definizione delle questioni del lavoro. Un principio è quello delle «esigenze della vita», quello che una celebre sentenza australiana definì assai decenni fa «il salario necessario per la vita di un lavoratore capace in un paese civile». L’altro principio è quello del salario uguale a quello che l’impresa può sopportare se vuol durare e vivere. La soluzione ottima è quella che tiene conto di amendue i principi; che paga tutto ciò che la gestione può sopportare, che sceglie per la definizione di quel che si può pagare non le imprese peggiori e nemmeno le mediocri, ma quelle buone ed ottime; e, scegliendo queste, costringe le mediocri e le peggiori a trasformarsi od a perire.
Purtroppo, la tendenza delle imprese, la cui sorte è in mano ai politici, è risolutamente quella, che è in pratica del tutto arbitraria, del salario necessario alle esigenze della vita; e, a giustificarlo, si ragiona anche così: «che cosa importa che l’impresa pubblica perda 100 milioni all’anno, se i 100 milioni vanno a favore dei dipendenti?»
Lo stato, il quale rappresenta la intiera collettività nazionale, non può compensare le perdite del suo erario, con il guadagno dell’operaio? Le partite non si compensano perfettamente? Dov’è il danno?
A questo punto, ricordo sempre l’insegnamento della marchesa Adele Alfieri di Sostegno. Ultima discendente diretta di due grandi famiglie storiche, gli Alfieri ed i Cavour, era esigentissima verso i mezzadri ed i fittabili e faceva eccezioni solo nei casi straordinari veri, che per fortuna sono rari. Perché, col lasciar correre, col condonare i saldi debiti, col chiudere gli occhi nelle divisioni dei prodotti, si devono incoraggiare gli inetti ed i trascurati? Dovere del proprietario è di coltivare bene ed a tal fine deve scegliere mezzadri e fittabili capaci e esatti pagatori che sono anche, per definizione, onesti e buoni capi di famiglia. Operando diversamente, si incoraggiano i poltroni e gli inetti e si persuadono i buoni a diventare pessimi. Poi, la marchesa Adele destinava gran parte del suo reddito ad onere di bene, che sceglieva accuratamente per il bene che operavano e non solo per le elemosine che distribuivano.
La beneficienza è cosa distinta dalla economica buona amministrazione. Non si compiono opere di bene, non si incoraggiano le scienze e le arti, se prima qualcuno non ha creato i profitti, i redditi netti. Con le perdite di bilancio non si costruisce nulla. Si può, temporaneamente, pescando in conti compilati senza criterio od a scopo di occultamento della verità, usurpare la fama di mecenati o di politici socialmente illuminati; ma la nemesi è sicura. Col falso, col disavanzo, con le perdite non si costruisce l’avvenire e si distrugge la fatica del passato.