La predica della domenica (VII)
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 05/03/1961
La predica della domenica (VII)
«Corriere della Sera», 5 marzo 1961
Le prediche della domenica, Einaudi, Torino 1987, pp. 22-24[1]
Si può discorrere del protezionismo, del restrizionismo, del corporativismo, dell’interventismo, del dirigismo in tante maniere diverse; ed una di esse sta nel raccontare la vicendevole imbrogliatura della quale gli uomini dediti agli -ismi non di rado sono vittime inconsapevoli. Se fosse lecito importarlo liberamente dal luogo più conveniente, il frumento potrebbe essere posto sulle banchine dei porti di Genova e di Napoli al prezzo di 3500 lire al quintale. L’agricoltore tuttavia è ben lieto che lo stato conservi il monopolio del commercio estero istituito durante la guerra e limiti l’importazione della derrata dall’estero in modo che il prezzo non cada al disotto delle seimila lire. Il consumatore acquista poi pane e farina a prezzi, i quali tengono probabilmente anche conto di qualche piccola aggiunta di forse un migliaio di lire, operata, s’intende, a scopi umanitari di difesa della salute e della fede pubblica, dal consorzio importatore e dai mugnai.
Non perciò gli agricoltori sono soddisfatti. I conti di costo non tornano, nemmeno a sei o settemila lire, perché le imposte sono alte, gli aratri, i carri, i trattori, le macchine agricole, i concimi chimici, si debbono acquistare a suon di molti denari, perché scarpe, vestiti, biancheria e tutte le cose necessarie alla vita si vendono nelle botteghe a prezzi esorbitanti, fuor di ogni ragionevole rapporto con i prezzi incassati con la vendita del frumento, delle uve, delle olive, del bestiame, delle uova, dei polli, degli ortaggi. D’altro canto i fabbricanti di concimi chimici, di aratri, di trattori, di scarpe e di tessuti dicono: come potremmo vendere a prezzi minori i nostri prodotti, quando noi dobbiamo pagare stipendi e salari atti a coprire le spese che i nostri operai ed impiegati debbono sostenere per acquistare il pane e le paste alimentari e il vino e l’olio e la carne agli alti prezzi, senza i quali gli agricoltori affermano di non potere cavarsela?
In verità siamo dinnanzi ad un meccanismo veramente singolare di vicendevole mistificazione. L’agricoltore dice: «io non posso lavorare se lo stato, con dazi e monopolio divieti di importazione, non mi aumenta il prezzo dei miei prodotti del 50 o 70 o 100 per cento sul prezzo che in regime di libertà di commercio si determinerebbe sul mercato» e l’industriale a sua volta: «dovrei chiudere lo stabilimento se il prezzo dei miei manufatti non aumentasse del 50, del 70, del 100 per cento, in modo da coprire i miei costi ingrossati dalla protezione altrui contro la concorrenza estera».
A che serve questa furberia di crescere i prezzi gli uni agli altri, illudendosi di guadagnare qualcosa, come fa la folla nel racconto dei Promessi sposi, quando «alzandosi tutti in punta di piedi, vedevano né più né meno che se fossero stati tutti con le piante in terra; ma tant’è, tutti s’alzavano»?
La furberia serve a tante cose, di cui, per brevità, basti dirne due. Una è che, crescendo i prezzi, nonostante l’aumento dei redditi monetari – che sono somme di prezzi -, il consumo delle cose rincarate di fatto scema; e scema la produzione collettiva. Che è davvero, a pensarci su, un ben singolare guadagno.
La seconda è che, nell’arraffa arraffa a tirar su i prezzi, taluni prezzi vanno molto su, altri meno ed altri niente. Coloro che riescono ad ottenere rincari maggiori, guadagnano; coloro che, nel tirar su, rimangono a giusta metà, né guadagnano né perdono. E, finalmente, coloro i quali non possono tirar su i prezzi, perché vivono di redditi fissi, e per lo più sono vedove, pupilli, professionisti, artigiani, bottegai invecchiati e forniti di modesto risparmio per i loro tardi anni, conducono vita grama.
Ma non sanno il perché e sono incapaci di organizzarsi per chiedere soccorso allo stato, affinché dia, anche ad essi, quella protezione che largisce ai più, i quali vociferano e chiedono e pretendono. La farsa si chiude così, col danno dei poveri diavoli silenziosi.