Opera Omnia Luigi Einaudi

La predica della domenica (XII)

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 09/04/1961

La predica della domenica (XII)

«Corriere della Sera», 9 aprile 1961

Le prediche della domenica, Einaudi, Torino 1987, pp. 38-41[1]

 

 

 

Siamo alla spazzatura di cucina. Buone sono le imposte le quali colpiscono il reddito – nelle sue varie specie di redditi singoli, complessivi, espressi in capitale o rinviati alla morte – ed i consumi. Il reddito è ciò che entra, il consumo è il reddito che esce. Purché siano esentati i redditi minimi, i quali consentono solo al contribuente il necessario alla vita fisica e parimenti i consumi non necessari, amendue i tipi di imposta sono ragionevoli. Cadono non sullo sforzo, sulla pena, sulla fatica, ma sul risultato, sul frutto, sul godimento. V’ha un limite anche alle imposte sul reddito e sul consumo: ed è quello della ragionevolezza, della misura, della proporzione fra le spese ed il risparmio (investimento) privati e le spese ed il risparmio (investimenti) pubblici. Se si serbano proporzioni oneste, il ricorso a quei due tipi di imposta non dà luogo a critica. Vi è però un altro tipo di imposta, non sul frutto o sul godimento, ma sul lavoro, sulla produzione, sulla fatica, nel cammino che l’uomo deve percorrere sino al momento di cogliere il frutto sperato dell’opera sua. Nel linguaggio amministrativo italiano cotali imposte sono per lo più conosciute sotto il titolo di imposte sugli affari. Che cosa siano in generale codeste imposte si può intendere dall’esempio più illustre in materia: quello delle tasse di registro, ipotecarie ecc. ecc. sui trasferimenti a titolo oneroso della proprietà delle cose immobili e mobili. Per accidente, codeste tasse sono amministrate dagli stessi funzionari che governano le imposte di successione. Amendue le specie di tasse colpiscono i trasferimenti di proprietà da persona a persona. Ma l’imposta di successione cade su ricchezza già acquisita e non su quella in via di formazione e non cagiona al defunto ed ai suoi eredi altro danno all’infuori di quello dover essere pagata. Non si può, purtroppo, ritardare il momento della morte allo scopo di ritardare o di tentare di non pagare l’imposta. Invece, il momento o il fatto medesimo del pagamento della tassa di registro sulla vendita di una casa, di un fondo rustico, di una nave, può essere ritardato o non giungere mai, a norma delle decisioni dei contribuenti.

 

 

La tassa è, essa stessa, un impedimento al contrattare. Se la vendita di un fondo rustico del valore di un milione dà luogo al versamento all’erario di 100.000 lire fra tassa ed amminicoli, il compratore comincia a pensare: «se le debbo pagar io quelle centomila lire, il prezzo sale da un milione a 1.100.000 lire»; ed il venditore: «se le debbo pagar io, il prezzo scende da un milione a 900.000 lire». Anche se si accordano per spartirsi l’onere, la convenienza del comprare e del vendere scema. Si dubita, si ritarda e talvolta l’affare non si fa. In linguaggio economico, ciò vuol dire che la terra non trapassa da chi vuol vendere a chi vuol comprare, ossia da chi non può o non sa tenerla, da colui al quale la terra, per la sua poca voglia o la sua inettitudine, rende poco, a chi la saprebbe far rendere meglio. Si fanno a gran costo e con grande apparato, riforme agrarie per sciogliere i latifondi, e si impediscono d’altro canto, con imposte gravose, i trasferimenti!

 

 

Così è, in genere delle tasse sugli affari e di quelle assimilate. Le tasse sulla giustizia, ad esempio, anche se pagate in altri uffici, ritardano, e ostacolano e, nei casi più gravi, vietano sia resa giustizia. La categoria delle imposte che non cadono sul reddito né sul consumo, ma sul cammino, sempre faticoso, che si deve percorrere per giungere al reddito ed al consumo, è la vera spazzatura di cucina dell’ordinamento tributario; spazzatura contennenda e distruttrice di ricchezza.

 

 

Ma l’articolo 81, si osserva, comanda di ordinare nuove entrate quando si voglia fare una spesa. Ma, replico, il fatto che siamo giunti alla spazzatura, dimostra che non si può più andare avanti nel brutto andazzo di crescere aliquote, tariffe, decimi e centesimi; dal quale andazzo nasce assai probabilmente una riduzione nel gettito complessivo delle imposte. Giunti alla spazzatura, il metodo probabilmente migliore per coprire le nuove spese è quello di far macchina indietro e ridurre aliquote e tariffe ed abolire i centesimi e i decimi aggiunti al principale. La riduzione dell’imposta sulla benzina quali risultati ha dato e quali si prevedono per l’avvenire?

 

 

L’articolo 81 ordina ben altro: giunti alla spazzatura, importa non fare nuove spese dubbie o abolire qualche vecchia spesa dannosa. È davvero certo che i piani verdi, gialli, rossi e marrone franchino la spesa? È davvero certo che gli agricoltori abbiano bene operato consentendo a ricevere notabile parte dei cosidetti benefici dal piano verde?, e a non ricordare il timeo Danaos et dona ferentes? Siamo sicuri che i miliardi spesi e che si continuano a spendere per la cosidetta riforma agraria abbiano creato un numero di contadini proprietari, contenti e bastevoli a se stessi, maggiore di quelli che, nei due dopo guerra, si crearono da se stessi comprando terre ai prezzi correnti da coloro che se ne volevano disfare? V’ha dubbio che la abolizione radicale, totale delle imposte di registro ed affini sui trasferimenti a titolo oneroso sarebbe, a costo minimo, l’ottima fra le riforme agrarie? Non è forse certissimo che le decine di miliardi che si buttano – i calcoli li ha fatti Ernesto Rossi e mi paiono corretti – nel sussidiare, sotto impensate svariatissime forme, cinematografi, teatri, divertimenti non siano denari sparsi al vento e dannosi per giunta?

 

 

Coloro, che sono avvantaggiati da salari distribuiti a favoriti politici, sfrontatamente asseverano di ricuperare denari propri; perché prelevati sul fondo delle tasse sui cinematografi, teatri ecc. Miserando sofisma: ché le tasse sui cinematografi sono sacrosante, emule in bontà quasi di quelle sul tabacco, imposte su un reddito che i frequentatori dei cinematografi confessano essi medesimi di possedere e di voler godere, per il fatto stesso che lo spendono per un fine, il divertimento, nobile bensì, quando nobile sia, ma non più meritevole certamente dei fini di difesa, sicurezza, giustizia, scuola, strade, assicurazioni sociali, bonifiche, rimboschimenti, ecc. ecc., che lo stato deve conseguire col provento di quelle imposte, le quali perciò spettano esclusivamente al pubblico erario ed a cui lo stato non può rinunciare senza mancare al dovere suo. Ed invece si buttano i miliardi per crescere, a spese dei contribuenti, i guadagni di registi, impresari, dive e divi, mimi e saltimbanchi!



[1] Col titolo Le imposte «sugli affari» [ndr]

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