Il giusto prezzo
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 16/07/1919
Il giusto prezzo
«Corriere della Sera», 16 luglio 1919
Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 151-156
Un recente decreto ha risuscitato una vecchia idea che nel medio evo era diffusissima, esposta nei libri dei sapienti ecclesiastici, inculcata da papi e bandita da principi; ma poi venne in discredito per merito o colpa degli economisti, i quali la posero in ridicolo in modo che parve non dovesse risuscitare mai più: l’idea del giusto prezzo. Oggi quella idea o quella parola risorge a vita legislativa e la vediamo introdotta nel testo di un decreto.
Naturalmente, la introduce senza definirla, perché egli ben sa che, se avesse dovuto definire l’idea del giusto prezzo, avrebbe incontrato difficoltà insuperabili. Perciò preferisce lavarsene le mani e lasciare il compito dell’applicazione a prefetti, sindaci, commissioni che, almeno, avranno quasi sempre il beneficio di ignorare le discussioni fattesi in passato sull’argomento e se faranno molte sciocchezze, le faranno nella più perfetta e candidissima buona fede.
Già i prezzi “giusti” sanciti negli innumerevoli calmieri pullulati improvvisamente di questi giorni in Italia stanno producendo i loro soliti inevitabili effetti. Ogni sindaco ha una sua propria idea di quello che sia il “giusto” prezzo delle uova: qua 2, là 3, altrove 4 lire la dozzina. E di nuovo si verifica il medesimo inevitabile fatto che s’era visto durante la guerra: che le uova tendono ad andare dove il prezzo è a 4 o forse a non andare in nessun posto, se i contadini non ritengono quel prezzo remunerativo. Per non far rimanere le città senza uova, si decretano requisizioni nei depositi esistenti, consumando le riserve per l’inverno; si stabiliscono divieti di esportazione da città a città, da provincia a provincia; si ricrea quella bardatura di guerra, che tanto fastidio aveva dato e tanti inconvenienti aveva prodotto, sicché s’era tirato un gran respiro quando appena avevamo cominciato a liberarcene.
In verità la storia non è davvero maestra della vita, se gli uomini si scordano dei suoi ammaestramenti a distanza appena di due anni, di tre anni! Chi non rabbrividiva al ricordo delle code che appena ora andavano scomparendo? Ed ora le code torneranno e più lunghe, più irritanti, più fastidiose di prima. Effetto inevitabile dell’idea del giusto prezzo, tanto difficile a definirsi, che nessuno vorrà interpretarla nello stesso modo del vicino.
Se si cerca di dare a quell’idea un contenuto, si possono avere parecchie soluzioni fondamentalmente diverse. Per molti, il “giusto” prezzo è quello che il consumatore “può” pagare, dati i suoi mezzi, senza essere ridotto a privazioni eccessive. Ma, così interpretata, l’idea è assurda; perché i mezzi dei consumatori sono diversissimi, e quello che l’uno può agevolmente pagare diventa un prezzo insopportabile per un altro. L’impiegato a 300 lire al mese, che deve mandare agli studi i figli, come può pagare il prezzo che agevolmente paga l’operaio con 20 lire al giorno e con il figlio che già lavora e porta denari in casa? Il professionista, con 20.000 lire all’anno come può pagare i prezzi che sono comodissimi all’arricchito di guerra? Considereremo come “giusto” il prezzo che può pagare il più povero dei consumatori, il lavoratore con 5 lire al giorno, supponendo che di queste arabe fenici ce ne siano ancora, od il pensionato o la vedova con piccolo reddito di 100 lire al mese come, purtroppo, ce ne sono moltissime? Vorremo cioè dei prezzi giusti per la piccola borghesia, questa ormai ultima tra le classi sociali, la quale ha dato tanti figli alla patria e non trova neppure la forza di attirare su di sé l’attenzione dei governi, ipnotizzati da quel proletariato industriale che dalla guerra non subì certo alcun danno economico? Andremo incontro, così facendo, a due inconvenienti: il primo, che quei prezzi giusti per la piccola borghesia saranno troppo bassi per gli operai e bassissimi per gli industriali, i commercianti, i professionisti agiati; il secondo, che per lo più quei prezzi saranno inferiori al costo di produzione e faranno sì che i produttori non avranno più convenienza prima a vendere e poi a produrre. Quei prezzi organizzeranno la carestia che è un malanno assai peggiore degli alti prezzi.
Altri riterrà che “giusto” prezzo sia quello che compensa le oneste fatiche del produttore, abolendo i profitti degli speculatori e dei commercianti; quel prezzo che dà al contadino un compenso equo per l’allevamento delle galline, la raccolta delle uova ed il trasporto al mercato, senza alcuna aggiunta, neppure del fitto della terra al proprietario fondiario. Anche questa interpretazione praticamente è assurda. Non vi sono due costi di produrre la medesima merce i quali sieno uguali l’uno all’altro. In un caso la terra è fertile, nell’altro è sterile; l’una è bene esposta, a mezzogiorno, l’altra, a mezzanotte, non vede quasi mai il sole; l’una è bassa, soggetta ad umidità, alla ruggine, all’allettamento dei cereali, l’altra è asciutta e ventosa; l’una patisce la siccità e l’altra gode di una regolare irrigazione. Peggio, se si guarda agli elementi personali della produzione. Vi è il contadino o la contadina intelligente, laboriosa, atta ad utilizzare tutti i sottoprodotti ed i residui, la quale ha tornaconto, anche oggi, a vendere le uova a 3 lire. La vicina sua tuttodì si lamenta di non riuscire a rifornire la tavola di sale, olio, condimenti – si sa che in campagna la vendita delle uova e dei prodotti della bassa corte deve servire a provvedere alle minori spese della tavola ed alle minute spese della massaia – anche se vende le uova a 5 lire. Le sue galline vengono su male, i pulcini muoiono, le uova sono deposte in luoghi inaccessibili, sono poche, non si trovano, la gallina se le mangia dopo averle fatte ecc. ecc. Quale sarà il prezzo giusto per il produttore? Saranno le 10 lire al metro che bastano a dare un profitto all’industriale abile, che sa organizzare bene la intrapresa, che compra bene la lana e colloca meglio i tessuti, che paga convenientemente gli operai e sa tenerseli affezionati o saranno le 20 lire le quali non sono neppure sufficienti a salvare dalla rovina il suo concorrente, incapace, presuntuoso, litigioso, i cui operai lavorano male perché non bene guidati, che sbaglia comprando la lana quando è al massimo e sbaglia vendendo quando è costretto a far fronte ad una scadenza imminente di cambiale? Se il prezzo giusto è di 10, non sarà ancora eccessivo, posto ché esso lascia un “profitto” all’industriale intelligente? Se glielo toglieremo, che vantaggio avrà ancora costui ad essere intelligente, invece che stupido?
Sia che il “giusto” prezzo si voglia stabilire sulla base dei bisogni dei consumatori o su quella dei costi del produttore, esso dunque porta al caos, alla confusione delle lingue ed è affatto inapplicabile.
Per molti l’idea del giusto prezzo si connette con la consuetudine. Gli uomini sono abitudinari; non amano le variazioni improvvise. Erano abituati a pagare le uova in media, tra l’estate ed il verno, 2 lire la dozzina e si inquietano vedendo le uova andare su e giù. Avrebbero anche, probabilmente, i consumatori, considerato ingiusto pagarle solo 50 centesimi; e reputano ingiustissimo pagarle oggi 5 o 6 o 7 lire. Circostanza interessante, gli economisti partecipano a questa aspirazione degli uomini. Anch’essi ritengono desiderabile che i prezzi in generale – non i singoli prezzi, che è cosa impossibile – subiscano poche variazioni. Ma gli economisti aggiungono – ciò che il popolo ed i prefetti ed i sindaci quasi sempre dimenticano – che per ottenere tale desiderabile risultato sarebbe necessario possedere una moneta la quale avesse una potenza d’acquisto costante. E da tempo gli economisti vanno alla cerca di questa moneta; né si può dire che i loro studi siano rimasti infruttuosi, sebbene per ora immaturi all’applicazione.
Oggi, però, non esiste in Italia, né altrove, una moneta avente una capacità di acquisto costante. Quando gli uomini parlano di 2 lire come di un prezzo “giusto” per la dozzina d’uova, intendono riferirsi alla unità monetaria lira, quale s’usava un tempo e con la quale sempre s’era usato comprare le dozzine d’uova. Ma la lira d’oggi è una cosa ben diversa dalla lira di prima della guerra. Da una interessante relazione dell’on. Alessio alla giunta generale del bilancio ricavasi che le lire, ossia i pezzi di carta circolanti con questo nome, erano 3.593 milioni al 31 dicembre 1914 ed erano salite a 12.274 al 31 dicembre 1918. Probabilmente ora abbiamo superato i 13.000 milioni. Come è possibile che la lira, di cui ci sono ora 13.000 milioni di unità, sia la stessa cosa della lira di cui ce n’erano solo 3.593 milioni di unità? Essa è una cosa tutt’affatto diversa. Essa è deprezzata, precisamente come lo sarebbero tutte le merci di cui si producesse una quantità strabocchevolmente più grande di prima. Non è evidente perciò che l’idea che il prezzo “giusto” delle uova sia di 2 lire la dozzina, è un’idea ragionevole finché le unità di moneta con cui le uova si cambiano rimangono suppergiù di 3.593 milioni – centinaia di milioni più o meno non monta -; ma diventa un’idea priva di senso quando, non essendo cresciute nel frattempo né galline né uova, le unità di moneta quasi si quadruplicano, diventando 13.000 milioni? La lira, sia di carta o d’oro, non ha nessun valore fisso, immutabile. Come tutte le altre merci, vale più o meno a seconda che essa è meno o più abbondante. L’arte di governo sta nel farne variare lentamente e con accortezza la massa circolante. Questo vogliono, questo sempre predicarono – al deserto -gli economisti. Non si fece; le lire sono divenute moltissime; e col loro moltiplicarsi tutte le idee degli uomini intorno al “giusto” prezzo delle cose devono forzatamente cambiare.
Poiché tuttavia una definizione del “giusto” prezzo delle cose bisognerà pure che prefetti e sindaci e tribunali la diano, non foss’altro per mandare in carcere coloro che avranno violato il decreto che impone l’osservanza di un giusto prezzo, senza dire che cosa esso sia, mi azzarderò a dare anch’io una definizione. “Giusto” prezzo potrebbe dirsi quel prezzo dato il quale la quantità prodotta e portata sul mercato di una merce è uguale alla quantità che a quello stesso prezzo è domandata. Se a 4 lire la dozzina, si portano ogni giorno sul mercato di Milano 25.000 dozzine d’uova e se a 4 lire tutte quelle 25.000 dozzine sono acquistate, 4 lire sono il prezzo “giusto” delle uova. Infatti, a quel prezzo, le uova si comprano e si vendono tutte, senza litigi, senza code, senza lasciare troppi compratori e venditori male soddisfatti. Se il sindaco fissasse il prezzo delle uova a 3 lire, i produttori ne porterebbero sul mercato solo 15.000 dozzine, perché ad una parte di essi non conviene produrre uova a quel prezzo, a cui essi perdono. Viceversa, se a 4 lire si acquistavano 25.000 dozzine, ora che il prezzo è di 3 lire se ne domanderanno 30 o 35.000 dozzine. Essendo tanto minore la offerta (15.000) della domanda (30.000) ed essendo il calmiere a 3 lire, nasceranno baruffe tra i compratori, ognuno volendo arrivare il primo. Di qui le code, il malcontento dei rimasti a mani vuote, gli accaparramenti dei primi fortunati, le tessere, il razionamento, ecc., ecc. Se invece il prezzo fosse fissato a 5 lire, probabilmente i contadini alleverebbero più galline da uova, essendo il prezzo tanto remunerativo e finirebbero alla lunga per portare sul mercato 30.000 dozzine. Ma a 5 lire, la domanda, che era di 25.000 dozzine a 4 lire, diventa solo più di 20.000. Ci sono più uova offerte, di quelle domandate. Ecco che il calmiere non serve più a nulla; ed i magistrati dovrebbero mandare in galera i produttori perché vendono al disotto del giusto prezzo.
Quello di 4 lire o quel qualsiasi altro prezzo – 2 o 3 o 5 o 6 a seconda dei casi – che renda di fatto la quantità offerta uguale alla quantità domandata è dunque il solo “giusto” prezzo che non sia privo di senso comune.
Riusciranno i sindaci ed i prefetti ed i commissari ed i tribunali a scoprire e fissare precisamente questo giusto prezzo? Non lo so; ma ne dubito molto, non potendo fare a meno di ricordare le loro recenti prodezze in argomento. Per lo più, essi tenteranno di rimanere al disotto di questo, che è il solo “giusto” prezzo. Essi si illuderanno di fare, con ciò, il vantaggio dei consumatori. Pura illusione; perché il risparmio che i consumatori faranno pagando le uova 1 lira meno del giusto prezzo la dozzina, lo dovranno perdere:
- sotto forma di imposte necessarie a mantenere in piedi la macchina degli uffici tessere, razionamento, requisizioni, vigilanza di polizia necessaria per distribuire 15.000 dozzine a 3 lire tra consumatori che, a quel prezzo, avrebbero voglia di comperarne 30.000. Tutto si paga, anche gli uffici di annona;
- sotto forma di attesa nelle code dei consumatori facenti ressa per non rimanere privi d’uova o di altri generi. Il ricco manderà la domestica a far coda, e stipendierà una persona apposita per sbrigare questa faccenda dei pugni e delle male parole, del freddo, del vento e della pioggia dinanzi alle botteghe dei rivenditori di commestibili. Che differenza c’è tra pagare una lira di più le uova ovvero stipendiare una persona che le procuri a una lira di meno? Nelle famiglie di modesta fortuna, sarà la madre di famiglia o la ragazza che dovrà perdere tutta la mattinata, alzarsi di buon’ora, buscarsi malattie per potere ottenere il necessario per il desco familiare. Tutti questi disagi, tutta questa perdita di tempo, tutti questi rischi di malattia non compensano, ed al di là, il risparmio nel prezzo d’acquisto?
Sia lecito azzardare la facile profezia che prefetti, sindaci e magistrati non indovineranno quasi mai il vero “giusto” prezzo e che dagli inevitabili spropositi discenderanno guai infiniti, del genere di quelli che si è tentato di descrivere or ora.