Opera Omnia Luigi Einaudi

Maior et sanior pars

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1945

«Idea», 1, gennaio 1945[1]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 92-112

La costituzione degli stati moderni è fondata sul principio della maior pars, della maggioranza. Quando i cittadini, in voto libero e segreto, hanno dichiarato, con la maggioranza della metà più uno, di voler il tale uomo a capo del governo, accolto il tale principio nella raccolta delle leggi, osservata una politica di pace oppure di guerra, nazionalizzata ovvero restituita alla privata iniziativa una data industria, attuato un piano economico governato dall’alto invece che dal mercato, preferita la libertà dell’insegnamento al monopolio scolastico dello stato o viceversa, il sindacato unico obbligatorio ai sindacati liberi e molteplici oppure il contrario, quando la maggioranza dei cittadini ha votato, direttamente o per mezzo dei suoi rappresentanti, nell’uno o nell’altro senso, tutto è finito. Vox populi vox Dei. La questione è decisa ed alla minoranza non rimane se non inchinarsi ed ubbidire. Anche se la minoranza sia composta di quarantanove su cento e minima sia la disparità con la maggioranza di cinquantuno, la voce della major pars ha parlato. Se questa voce non fosse ubbidita, la minoranza comanderebbe alla maggioranza; i quarantanove prevarrebbero sui cinquantuno. Ed è certamente più irrazionale che i quarantanove comandino ai cinquantuno di quanto non sia che la volontà dei cinquantuno prevalga su quella dei quarantanove. Tutta la logica del governo democratico sta in questo semplice nudo ineccepibile ragionamento. Eppure, noi sentiamo di non essere persuasi. Sentiamo che vi può essere una tirannia dei cinquantuno altrettanto dura, altrettanto odiosa, come la tirannia dell’uno, dei pochissimi su cento. Da secoli, da millenni la sapienza popolare ha affermato la distinzione fra la democrazia e la demagogia; fra la democrazia che è il governo della maggioranza “vera” e la demagogia che è il governo della maggioranza “falsa”. Ambedue sono il governo che deriva dai cinquantuno su cento; e tuttavia c’è nell’aria, c’è nel metodo di governare, c’è nelle leggi, c’è nel modo di vita, nei costumi, nelle relazioni sociali, nella vita spirituale qualcosa che ci dice: quello non è governo di popolo, non è governo di una maggioranza che abbia diritto di governare.

A varî segni noi siamo tratti ad affermare che quella, se è la major pars non è la sanior pars, che i meliores sono rimasti tra i meno ed i pejores hanno dominato i più ed hanno parlato come se fossero la voce di tutti. Accade ciò perché tra i più sono numerosi gli ignari, i quali non hanno alcuna attitudine a giudicare dei grandi problemi della cosa pubblica; od i poltroni, pronti ad usare del potere di coazione dello stato per vivere a spese di coloro i quali lavorano; o gli egoisti individuali, repugnanti a sacrificare il momento che fugge alle ragioni dell’avvenire; od i procaccianti, larghi promettitori alle folle di prossimi avventi del paradiso in terra? Chi non sa la difficoltà del mantenere, largamente promette e procaccia a sé il facile suffragio delle maggioranze. Alla major pars l’istinto spontaneo dell’uomo vivente nella società politica contrappone la sanior pars degli scolastici, la classe politica di Gaetano Mosca, la élite di Vilfredo Pareto[2].

Ma già Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto avevano chiarito che né le classi politiche né i ceti scelti (le élites) si identificano con i meliores, con i «savî» con i «prudenti», con i «buoni uomini», ai quali nelle ore del pericolo gli uomini ricorrono per averne consiglio o guida. La classe politica può essere moralmente od intellettualmente inferiore alla media degli uomini componenti la società dalla quale è tratta. Il problema fondamentale politico non sta nel costituire veramente un governo di maggioranza. Qualunque sia la struttura formale dello stato, il potere spetta sempre ad una piccola minoranza. Se noi chiamiamo società democratica quella nella quale il governo sia intento a procacciare il bene morale e materiale massimo possibile degli uomini componenti oggi e dimani la collettività nazionale, noi diremo che il fine della società democratica ha tanto maggiori probabilità di essere raggiunto quanto meglio la «maggioranza» riesce ad identificare gli eletti con la sanior pars del ceto politico. Al suffragio della maggioranza si offrono molti gruppi politici concorrenti, i quali presentano qualità morali intellettuali speculative esecutive economiche diversissime. Tra essi si noverano uomini che intendono, pur conservando le forme della libertà legale, a tirannia, ossia a procacciare onori ricchezze potere a se stessi; ed altri che, se anche siano mossi da legittima ambizione di primeggiare, vogliono elevar se stessi procacciando il bene dei più. La scelta, che la maggioranza faccia di un gruppo piuttosto ché di un altro non risolve il problema; essendo notevoli le probabilità, che in tutti i gruppi politici concorrenti vi sia una frequenza pressoché costante di qualità demagogiche e cioè egoistiche a favor del gruppo e di qualità democratiche e cioè volte al bene comune. Ove non esistano freni al prepotere dei ceti politici, è probabile che il suffragio della maggioranza sia guadagnato dai demagoghi a procacciare potenza onori e ricchezze a sé, con danno nel tempo stesso della maggioranza e della minoranza. I freni hanno per iscopo di limitare la libertà di legiferare e di operare dei ceti politici governanti scelti dalla maggioranza degli elettori. In apparenza è violato il principio democratico il quale dà il potere alla maggioranza; in realtà, limitandone i poteri, i freni tutelano la maggioranza contro la tirannia di chi altrimenti agirebbe in suo nome e, così facendo, implicitamente tutelano la minoranza. I freni esistono ed agiscono se gli uomini sono disposti a «tolleranza». La maggioranza, la quale avrebbe il potere di legiferare e decidere, tollera che la minoranza le vieti di agire a sua posta. I freni possono essere scritti nelle tavole fondamentali della legge. Se il principio della maggioranza fosse davvero decisivo, il comando legislativo ed esecutivo dovrebbe essere assunto dalla maggioranza della camera eletta a suffragio universale e segreto dei cittadini. Entro i limiti logici di quel principio non hanno luogo né la seconda camera, né le prerogative del capo dello Stato, né le dichiarazioni di incostituzionalità da parte di alcuna suprema corte giudiziaria. Tutti questi istituti non hanno ragion d’essere se si pensi che la maggioranza dei designati dal suffragio universale e segreto abbia diritto di avere una volontà e di farla eseguire. Essi vivono invece perché la maggioranza tollera che altri dica: tu sei la maggioranza dei delegati dei cittadini contati per teste; ma accanto a te esiste un’altra maggioranza di taluni uomini designati dall’eredità, dalle cariche coperte, dalla nomina regia o presidenziale, da corpi territoriali (stati, regioni, comuni)o professionali (università, accademie, corporazioni professionali) e talvolta, come accadeva in talune repubbliche saggiamente amministrate, persino dalla sorte. Siano costoro chiamati anziani o savi o senatori, essi hanno per legge il compito di rivedere, ritardare, modificare la volontà manifestata dalla maggioranza. Si riconosce, accanto al principio del contare le teste, che è il fondamento del governo democratico, sostituito al principio dello spaccarle, fondamento del governo tirannico, un altro principio: quello del pesarle; e si escogitano criteri oggettivi non arbitrari i quali facciano riconoscere le persone alle quali si vuole affidare il compito ritardatore dell’attuazione immediata della volontà della maggioranza. Non si nega che questa debba da ultimo prevalere; ma la si vuole difendere contro la sua propria intemperante frettolosità. Le passioni politiche possono persuadere a sopraffazione contro la parte avversaria; la riflessione imposta dall’obbligo di sentire gli anziani induce a tolleranza. Talvolta la moderazione è imposta dall’obbligo fatto dalla costituzione alla maggioranza di interrogare nuovamente se stessa a distanza di qualche tempo. Se la sua volontà è ugualmente ferma su quel punto, essa dimostra di essere dovuta non ad impulso improvviso, ma a ponderato giudizio; e la volontà può dar luogo all’azione.

L’obbligo delle maggioranze speciali, dei due terzi, dei tre quarti e perfino dei quattro quinti dei votanti o degli aventi diritto al voto è un altro aspetto dei vincoli che la maggioranza impone a se stessa contro la intemperanza, che nei momenti di grande passione politica la condurrebbe a sopraffare le minoranze. La volontà della maggioranza semplice non è ritenuta bastevole, se non è confortata da un più largo assenso. Alla formazione iniziale dello stato nella maniera odierna ha presieduto un equilibrio di forze sociali o territoriali, di tendenze di pensiero, di correnti politiche, mancando il quale lo stato non sarebbe sorto ed oggi sarebbe diversamente costituito. È naturale che le forze le quali erano giunte ad un dato equilibrio, quando per la fondazione o la nuova costituzione dello stato occorreva il loro consenso unanime, non intendono consentire ad una mutazione notabile di quell’equilibrio in seguito ad un subitaneo rivolgimento nella volontà della semplice maggioranza momentanea dei cittadini. Sarebbe troppo facile ad un gruppo numeroso di sopraffare un altro più sparuto dopoché questi ha rinunciato, entrando a far parte del nuovo stato, a quelle armi che prima gli avrebbero consentito di resistere alla sopraffazione altrui. Un tempo, innanzi alla rivoluzione francese, la resistenza alla volontà della maggioranza prendeva la forma di franchigie, di atti di dedizione, di statuti municipali o regionali, i quali non potevano essere violati dal principe, in cui si incarnava la volontà generale, senza che su di lui cadesse la taccia di mancata fede a giuramenti solenni. Nelle costituzioni federali odierne la volontà della maggioranza semplice od anche speciale più alta dei cittadini dell’intiera federazione non può prevalere contro la resistenza dei cittadini appartenenti alla minoranza degli stati federati. Questi si unirono inizialmente agli altri a date condizioni, le quali non possono essere mutate ove non concorra il loro particolare consenso. La maggioranza semplice può deliberare per le cose le quali non toccano negli stati unitari i principi fondamentali della vita civile e politica e negli stati federali, inoltre, i principi regolatori dei rapporti fra gli stati singoli e la federazione; ma per queste materie essenziali la maggioranza deve tollerare che la minoranza si opponga all’attuazione di nuove norme, le quali non sarebbero state consentite dai fondatori dello stato ove questi, al tempo in cui vissero, avessero dovuto deliberare tenendo conto delle nuove circostanze del tempo presente. Si vede qui la ragione profonda dei freni al potere delle maggioranze. I freni sono il prolungamento della volontà degli uomini morti, i quali dicono agli uomini vivi: tu non potrai operare a tuo libito, tu non potrai vivere la vita che a te piaccia; tu devi, sotto pena di violare giuramenti e carte costituzionali solenni, osservare talune norme che a noi parvero essenziali alla conservazione dello stato che noi fondammo. Se tu vorrai mutare codeste norme, dovrai prima riflettere a lungo, dovrai ottenere il consenso di gran parte dei tuoi pari, dovrai tollerare che taluni gruppi di essi, la minor parte di essi, ostinatamente rifiutino il consenso alla mutazione voluta dai più. Noi non volemmo porre i freni per capriccio o per smisurata opinione di noi stessi. Noi, che forse uscimmo da lotte cruente, che sapemmo quali ostacoli si debbono superare per fondare uno stato atto a durare nel tempo, sapevamo che uno stato si fonda e dura quando raccoglie attorno a sé il consenso della quasi universalità dei suoi cittadini. Noi non volemmo creare qualcosa che rispondesse alle aspirazioni fuggevoli della nostra sola generazione; ma riassumemmo nella nostra volontà quella di molte generazioni le quali avevano lottato e sofferto perché noi avessimo la ventura di toccare la meta che essi si proponevano. Perciò non volemmo che gli uomini viventi accidentalmente in un istante della successione dei secoli potessero sconvolgere d’un tratto l’opera nostra ed, obbligandoli a riflettere e ad ottenere il consenso dei meno, volemmo assicurare che la loro volontà fosse derivata da convinzioni profonde.

I freni legali scritti nelle costituzioni sono rigidi. La maggioranza speciale dei 66 su 100 non ha alcun rimedio contro l’ostinazione dei 34 su 100, i quali si rifiutino di accettare le proposte di legge presentate dalla maggioranza, nei casi gravi in cui la costituzione richiegga il consenso dei due terzi, il che vuol dire di 67 su 100. Se il 67° voto, che è decisivo, rimane fermo, l’ostacolo legale non può essere superato. In momenti di grande tensione politica, quando gli uomini diventano intolleranti, la mancanza di una valvola di sicurezza può condurre ad un mutamento violento del regime. La maggioranza la quale governa può essere tratta ad usare della forza per superare l’ostinazione della minoranza aggrappata al suo diritto di sbarrare la via alle riforme richieste ad alte grida dal popolo.

Il valore dell’ostacolo non deve essere esagerato. Se una minoranza di senatori americani rifiutò il voto al trattato di Versailles ed impedì l’adesione degli Stati Uniti alla Società delle Nazioni, quella minoranza si faceva in quel momento eco dell’opinione dei moltissimi ben decisi a ritornare all’isolamento tradizionale ed a non lasciarsi impigliare nelle contese europee; e la maggioranza incerta non era bene convinta della saggezza delle deliberazioni alle quali aveva acceduto. Quando invece il presidente Roosevelt volle superare l’ostacolo del diniego alla costituzionalità delle leggi del New Deal ostinatamente opposto dalla maggioranza dei giudici della corte suprema, egli si trovò dinnanzi a due contrastanti affermazioni della volontà della maggioranza dei cittadini. I quali erano bensì convinti che le leggi del New Deal dovessero entrare in vigore; ma erano altrettanto decisi a impedire che il presidente potesse, con un’infornata di nuovi giudici – egli aveva chiesto al congresso una legge la quale sanzionasse l’aumento del numero dei giudici della corte suprema e la legge, se votata, sarebbe certamente stata costituzionale, ed i nuovi giudici scelti dal presidente, avrebbero mutato la maggioranza della corte – sopraffare la volontà della corte quale essa era costituita. Dal dilemma legalmente insolubile si uscì grazie al senso di responsabilità storica dei giudici medesimi, alcuni dei quali, rinunciando a valersi della inamovibilità vitalizia garantita dalla costituzione e più dalla consuetudine ultrasecolare, richiesero di potersi ritirare dall’ufficio; e diedero così modo al presidente di compiere il numero antico scegliendo giudici favorevoli al New Deal. Ma la resistenza della corte suprema non fu vana; ché le nuove leggi approvate dal congresso attenuarono le punte le quali avevano eccitato critiche ragionate tra il pubblico ed i giudici più conservatori.

Un vecchio broccardo inglese afferma che la camera dei comuni può far tutto, salvo trasformare un uomo in donna e viceversa. Come tutti i broccardi, esso tace che vi sono tante cose che il legislatore potrebbe fare, ma non fa, perché un’invisibile misteriosa mano gli chiude la bocca e gli vieta di dire una parola diversa da quella che i secoli hanno inciso nelle coscienze degli uomini. I popoli hanno continuato per secoli a dilaniarsi ed a distruggersi per imporre altrui il proprio credo e da ogni strage nascevano nuovi martiri a chiedere la libertà di coscienza; sinché gli uomini si sono persuasi di non potere rinunciare alla libertà di professare la religione che essi individualmente preferiscono. Per millenni gli uomini hanno prima ucciso e divorato, poi ucciso e dato in pasto alle belve, poi ridotto in schiavitù il nemico, il forestiero, il debole; ma poiché gli schiavi hanno seguitato a ribellarsi, i popoli hanno scritto nei codici il principio che nessun uomo possa essere privato, anche se egli consentisse, della sua libertà personale, salvo nei casi contemplati dalla legge penale. Poiché i potenti, i re, i dominatori hanno usato sottoporre ad arresto arbitrario coloro che essi reputavano loro avversari o trattenere in carcere gli accusati di un delitto senza tradurli dinnanzi al giudice od inquisire a libito loro nelle case private, gli uomini insorsero e combatterono contro l’arbitrio e fu sancito il principio che il cittadino non potesse essere arrestato o la sua casa perquisita senza mandato del giudice; e nessuno potesse essere trattenuto in arresto preventivo, ma dovesse immediatamente essere deferito al giudizio del magistrato; e giudice dovesse essere quello proprio dell’accusato, colui cioè al quale la legge attribuiva l’ufficio innanzi che il presunto reato fosse commesso. Per secoli gli uomini furono perseguitati, incarcerati, martoriati, perché essi dichiaravano un pensiero, professavano opinioni, pubblicavano scritti sgraditi al ceto dominante ed alla maggior parte della popolazione; ma poiché i perseguitati, i bruciati vivi, i sepolti nei mastii delle fortezze dicevano parole ascoltate dagli uomini ed i tiranni sono vinti più dalla forza del pensiero che da quella delle armi, fu sancito nei codici il diritto di ognuno di esprimere liberamente il proprio pensiero colla parola e con gli scritti, purché la manifestazione esteriore del pensiero non ecciti il turbamento violento dell’ordine pubblico. È divenuto così, tra i popoli civili, dogma accettato che la maggioranza credente debba tollerare la pubblica espressione di altre fedi o della mancanza di fede; che la maggioranza repubblicana debba tollerare la pubblica propaganda della monarchia e viceversa; che la maggioranza anticomunista debba tollerare la divulgazione colla parola e cogli scritti dei principi comunistici, e viceversa; che i propugnatori della libertà degli scambi internazionali debbano tollerare ed anzi eccitare la dimostrazione della bontà dei vincoli doganali; che i legislatori debbano considerare come tabù, come cosa intoccabile i principi della libertà di coscienza, di religione, di pensiero, di stampa, della inviolabilità della persona umana e del domicilio privato contro gli arresti e le perquisizioni arbitrarie. Se in qualche contrada nuovamente imperversarono le polizie segrete, i giudizi amministrativi, i confinamenti politici, i tribunali speciali, noi giudicammo che quelle contrade erano sottoposte a tirannia e non facevano più parte del consorzio dei popoli civili.

Qual è la fonte da cui vien fuori l’alone di intoccabilità posto attorno a certi principi? Se si ficca lo sguardo in fondo, si giunge a Cristo, il quale annunciò agli uomini che essi erano tutti uguali innanzi a Dio e, dichiarandoli uguali, proclamò che il fine della vita era il perfezionamento, l’elevazione morale della persona umana. Tuttociò che degrada, opprime la persona umana, tuttociò che costringe l’uomo a fingere di credere, di pensare, di agire in modo contrario alla coscienza, è il male, è il peccato. La legge esteriore, la norma coattiva non può entrare nel dominio riservato alla coscienza, senza violare deformare sminuire la persona umana; e non può impedire neppure la manifestazione esteriore della fede e del pensiero perché l’uomo non vive isolato nella società e, quando non violi l’uguale diritto altrui, ha diritto di far proseliti, di conquistare nuove coscienze alla propria fede ed al proprio pensiero. Erra chi afferma che la fede, che la credenza in una data visione della vita sia un affare privato. Colui il quale ristringe la fede alle pratiche del culto e non informa a quella fede tutta la propria vita, la vita religiosa e quella civile, la vita economica e politica, la vita del pensiero e quella dell’operare pratico, non è un vero credente. Colui il quale assume a principio regolatore la libertà, non può limitarlo alla libertà del pensare solitario, ma deve vivere e predicare ed agire conformemente alla sua convinzione della vita. Poiché i principi della libertà di coscienza, di religione, di pensiero, di stampa sono divenuti carne viva dell’uomo moderno, l’offesa recata in questa materia alla libertà di un uomo solo in una società composta di milioni di uomini è giustamente reputata offesa recata a tutti gli uomini.

Giungiamo qui all’estremo della tolleranza; che è l’intolleranza verso qualunque potere di una maggioranza anche fortissima che si arrogasse di toccare i diritti fondamentali della persona umana. In quel campo neppure l’unanimità di tutti gli uomini viventi in una società politica varrebbe a giustificare la legge coercitiva negatrice delle libertà fondamentali dell’individuo. Quella invero non sarebbe unanimità, ché gli uomini viventi oggi non possono negare l’eredità dei loro padri, la quale ha diritto di rivivere nei figli ancora non nati. Gli uomini possono rinunciare temporaneamente all’esercizio di date libertà esteriori, quando il pericolo incombe di vedere rovinare la società politica, la patria e con essa le vere libertà che sono quelle interiori e spirituali. Salus publica suprema lex esto;, ed i popoli affidano perciò temporaneamente ad un dittatore poteri di vita e di morte. Ma poteri siffatti possono essere affidati solo a chi sia pronto a rinunciarvi non appena sia passato il pericolo; né mai i poteri stessi possono estendersi sino a sopprimere i diritti della persona umana i quali non siano incompatibili con la salvezza dello stato in guerra. Anche nell’ora del pericolo, giova che la libertà di coscienza e di pensiero, che il diritto della libera critica dell’opera dei governanti siano serbati vivi. Unico limite alle libertà fondamentali è il pericolo di giovare al nemico, che quelle libertà vuole distruggere. Perciò sono razionali le norme che l’ordinanza del consiglio federale svizzero del 22 settembre 1939 sulla protezione della sicurezza del paese ha dettato per limitare in tempo di guerra i diritti individuali di libertà:

  • Ogni persona deve ottemperare all’ordine che l’organo competente dell’esercito gli dia in ordine alle esigenze della sicurezza del paese. Gli organi competenti dell’esercito hanno il diritto di penetrare in qualsiasi momento negli immobili costruzioni ed altri locali e farvi perquisizioni ove la sicurezza del paese lo richiegga. Essi possono procedere a perquisizioni sulla persona di persone sospette. Su richiesta di un organo competente dell’esercito, ogni persona ha l’obbligo di aprire i locali ed i mobili di cui essa dispone e di esibire tutti gli oggetti e documenti che vi siano contenuti. Gli oggetti ed i documenti medesimi possono essere sequestrati.
  • In tutti i paesi in guerra o soggetti a pericolo nemico sono ordinate temporanee limitazioni alla libertà del singolo. Nella medesima maniera si risolvono i quesiti relativi alla repressione dei tentativi di sovvertire gli ordinamenti politici e sociali vigenti in un paese. Verso la metà del secolo scorso un gruppo di scrittori politici cattolici si fece paladino di una tesi respinta poscia dai dottori della chiesa.

Noi vogliamo utilizzare il principio, posto dalle leggi liberali, della libertà di insegnamento, di religione, di stampa, di riunione per far propaganda a favore di un ordinamento cristiano e cattolico dello stato. Ma quando noi avremo, col favore della libertà, conquistato il potere, noi non potremo dimenticare di essere, noi cattolici, possessori della verità, e di avere il dovere di inculcarla altrui e di opporci a qualsiasi insegnamento o propaganda contraria alla verità di fede. Perciò noi sopprimeremo quelle libertà che ci avranno consentito di conquistare il potere. Noi siamo logici ora, perché invochiamo le leggi liberali vigenti e saremo logici in seguito, quando obbediremo all’obbligo che la nostra fede ci fa di combattere l’errore.

Poco prima due uomini insigni, due pensatori i quali esercitarono una influenza profonda sul pensiero moderno, Enrico di Saint-Simon ed Augusto Comte sostennero, partendo da un principio diverso, la medesima tesi. Se la scienza è vera scienza, come può essa condurre all’errore? Se lo scienziato consiglia, se il legislatore legifera e il ministro esegue sulla base di un principio scientifico, di una verità dimostrata dalla matematica, dalla fisica, dalla chimica, dalla meccanica razionale, come potrebbero le conseguenze dell’azione essere erronee? Come potrebbero essere ammesse tergiversazioni e discussioni e contrasti intorno al miglior modo di far leggi? Vi è un «unico modo di risolvere i problemi ed è quello indicato dalla “scienza”». Ogni altra maniera è assurda ed antisociale. Lo scienziato, il quale conosce la verità, il quale sa le vie lungo le quali la verità si attua, non tollera, non può tollerare discussioni e resistenze. C’è forse qualcuno il quale neghi la verità della legge di gravitazione? Perché si dovrebbero negare le verità della meccanica sociale scoperte dalla scienza? Non esistono due verità scientifiche intorno al medesimo problema; la vera verità, che è una sola, si impone. Chi la nega è un criminale antisociale e deve essere eliminato.

Più di cent’anni fa, Saint Simon, il grande precursore del socialismo pianificatore, proclamando che un ordine sociale perfetto è possibile solo se «assegniamo ad ogni individuo o nazione la precisa specie di attività a cui sono adatti», si scagliava contro la «rivoltante mostruosità», contro il «dogma antisociale» della libertà di coscienza e dichiarava essere necessario un «potere sprituale» il quale deliberatamente costruisca il codice morale che gli uomini debbono osservare (nel Producteur 1825-1827). Dopo venti anni di intrinsichezza spirituale con Augusto Comte, altro precursore del socialismo organizzatore, Giovanni Stuart Mill era costretto a concludere melanconicamente nell’Autobiografia che i piani di organizzazione scientifica della società, accarezzati anche da lui per tanto tempo, erano «il più compiuto sistema di despotismo spirituale e temporale mai uscito da cervello umano, eccetto forse quelli concepiti da Ignazio di Lodola». Sentenze intolleranti verso la libertà di coscienza e del pensiero si leggono nuovamente in modernissimi libri i quali pretendono di illustrare i compiti sociali della scienza. In Inghilterra studiosi ammiratori dei piani “scientifici” atti ad amministrare le cose sociali, scrivono  (I.G. Crowter, The social relations of Sciences, 1941; L. Hogben, Science for the Citizen, 1938; ed altri) libri di 665 pagine per dimostrare che non solo si debbono far piani scientifici per organizzare l’umana gente e condurla al porto della felicità, ma che anche la scienza deve proporsi come “unico” scopo il bene sociale. Ogni ricerca scientifica cosidetta disinteressata, rivolta alla scoperta della verità pura è perciò antisociale e futile. La resistenza degli scienziati al controllo sociale delle loro ricerche e la loro pretesa ad una compiuta libertà di pensiero è irragionevole.

Non v’ha dubbio che da queste correnti di pensiero discendono nel tempo stesso la morte della scienza e la fine della libertà pratica. Non esiste libertà pratica, non esiste ordinamento democratico libero se ai cittadini non si dia ampia facoltà di parlare ed agire allo scopo di mutare gli uomini ed i sistemi esistenti di governo. L’ordinamento detto “totalitario”, qualunque sia il suo nome, qualunque sia la sua ideologia, è sinonimo di tirannia; nega la ricerca scientifica, la quale consiste nel sostituire una visione più perfetta dei fatti e della vita ad una visione più imperfetta; ma la visione più perfetta dell’oggi è pur sempre monca e probabilmente erronea ed importa sia continuamente provata e riprovata alla cote della critica, allo scopo di giungere via via a verità più alte o più generali, sebbene probabilmente sempre imperfette. Quell’ordinamento nega medesimamente la libertà pratica degli uomini, perché li costringe a vivere secondo una norma che è detta ottima da taluni uomini, i quali negano agli altri il diritto di proporre altre norme di vita, che i cittadini forse preferirebbero.

Il quesito politico il quale deve essere risoluto è: dobbiamo tollerare la esistenza di gruppi e di partiti, decisi a profittare della libertà ad essi garantita dagli ordinamenti democratici per abolire, una volta conquistato legalmente il potere, quella libertà di pensiero e di azione che aveva ad essi consentito di giungere al potere? Una società di uomini liberi non deve sbarrare il passo a coloro i quali, apertamente od implicitamente, si propongono il fine di costituire uno stato tirannico, in cui il gruppo che è riuscito ad ottenere per una volta la maggioranza dei suffragi, impedirà in seguito alle minoranze di muovere, nelle maniere legali, opposizione al governo costituito e di tentare di divenire nuovamente maggioranza? È doveroso che i poteri legislativi, esecutivi e giudiziari di un paese democratico dicano: «noi siamo decisi a garantire il rispetto più ampio al diritto di opposizione di qualunque partito, qualunque sia il suo credo politico sociale religioso morale. Ad una condizione: che si tratti di partiti ugualmente decisi, ove ad essi riesca di conquistare il potere, a garantire a noi, divenuti minoranza, uguale diritto di critica, di opposizione e di propaganda. Noi non possiamo consentire il diritto di propaganda a chi professa di volere distruggere la base medesima dell’ordinamento democratico, che è la libertà di critica e di opposizione». Questa posizione del problema deve essere nettamente negata. In primo luogo perché essa è futile. Gli uomini i quali, una volta conquistato il potere, negheranno la libertà, manderanno a morte, alla galera, al confino o, se vorranno dar prova di straordinaria mitezza, all’esilio gli oppositori, oggi certamente sono tra i più ferventi paladini di libertà. Nella fase preparatoria della conquista del potere, nessuno è, più di essi, fervente assertore di libertà per tutti i partiti. Finché siano minoranza, essi affermano il diritto di critica, di opposizione e di propaganda per tutti i partiti. Come distinguere, fra i tanti partiti che tutti, in tutti i paesi, vogliono la libertà ed oppugnano la tirannia, quelli i quali negheranno la prima ed instaureranno la seconda? Sarebbe d’uopo fare il processo alle intenzioni; inquisire nei più riposti segreti della mente umana; creare strumenti polizieschi propri della tirannia medesima, dalla quale si aborre. Oppure bisognerebbe argomentare dalla dottrina del partito che si presume negatore futuro di libertà alle sue conseguenze liberticide logicamente necessarie. Ma non basta, ad esempio, che nel programma dei comunisti si parli di dittatura del proletariato, per dedurre che il comunismo è “necessariamente” un regime di tirannia, sia pure a vantaggio degli operai. Il postulato può interpretarsi nel senso che, giunta la pienezza dei tempi, l’ordinamento attuale della proprietà appaia privo di contenuto, sicché la sua sostituzione con un ordinamento comunistico sia conforme all’interesse generale e non sia contestata se non da minoranze insignificanti e rassegnate a non diventar mai più maggioranza. L’interpretazione è fondata su previsioni storicamente ed economicamente assai dubbie; ma non può essere esclusa a priori; ed a priori non possono essere escluse costruzioni teoriche di economie comunistiche pianificate dal centro, le quali siano o sembrino compatibili con il mantenimento della libertà.

I credenti nell’idea della libertà non fondano tuttavia la loro negazione su una argomentazione empirica. Essi affermano che un partito ha diritto di partecipare pienamente alla vita politica anche quando esso sia dichiaratamente apertamente liberticida. Allo scopo di sopravvivere, gli uomini liberi non debbono rinnegare le proprie ragioni di vita, la libertà medesima della quale si professano fautori. Bisogna combattere i partiti liberticidi, mettere in luce l’errore dei loro programmi, usare di tutti i mezzi di propaganda offerti per convincere i cittadini dell’errore che essi commetterebbero rinunciando, in cambio della promessa, impossibile a mantenersi, di un bugiardo effimero apparente vantaggio materiale, al bene supremo della libertà spirituale e morale, dalla quale unicamente derivano i beni terreni. Gli uomini amanti della tolleranza civile hanno il dovere di combattere sino all’ultimo; ma, combattendo, non possono rinunciare ad essere se stessi. Epperciò essi debbono concludere: «se, nonostante la nostra parola e la nostra opposizione, i cittadini preferiscono i liberticidi a noi, segno è che essi non apprezzano il bene supremo, e fruges consumere nati, rinunciano alle ragioni della vita, che è liberazione continua dal male, che è lotta, che è sofferenza, aspirazione verso l’alto, verso il perfezionamento morale. Tale essendo la loro volontà, la loro sorte è segnata. Noi destinati a morire, formuliamo l’augurio che l’esperienza non sia troppo dura e troppo lunga per il popolo accecato e non occorra in avvenire troppo sangue e troppa fatica per riconquistare la perduta libertà. Sinché avremo fiato e potremo parlare seguiteremo ad ammonire i concittadini sulla sorte che li attende ove porgano ascolto alle parole lusingatrici della Circe liberticida; ma se gli uomini vorranno seguirla e tramutarsi in bestia, tal sia di loro».

Nulla può dunque fare lo stato democratico per impedire che gruppi o partiti liberticidi minino le sue stesse fondamenta? Nulla che violi la libertà degli uomini di darsi, se credono, un governo tirannico; ma tutto ciò che valga ad impedire che alla mutazione degli ordini liberi si giunga colla violenza e coll’inganno, fuor della volontà, liberamente manifestata, dei cittadini. Perciò mi sembrano indice di tolleranza e di libertà le seguenti norme, che leggo nell’ordinanza del 5 dicembre 1938 del consiglio federale svizzero, le quali puniscono variamente:

  • chi intraprenda a rovesciare o mettere in forse in modo illecito l’ordinamento sulla costituzione della confederazione o di un cantone;
  • chi, in particolare, favorisca una propaganda straniera tendente a modificare le istituzioni politiche della Svizzera;
  • chi, pubblicamente ed in modo sistematico, vilipenda i principi democratici, i quali stanno a fondamento della confederazione e dei cantoni, ed in particolare coloro i quali consapevolmente lancino o diffondano a tal uopo informazioni inesatte;
  • chi pubblicamente ecciti all’odio contro taluni gruppi della popolazione per ragion di razza, religione o nazionalità.

E queste altre le quali integrano quelle ora riprodotte:

Il consiglio federale può sciogliere i gruppi o le imprese che compromettano la sicurezza esterna od interna del paese o limitare ovvero interdire la loro attività politica e confiscarne i beni.

Il consiglio federale può, se necessario, vietare espressamente talune specie di propaganda dirette contro le fondamenta politiche e culturali della Svizzera.

Anche quando nessuna persona determinata può essere accusata o condannata, il consiglio federale può vietare per un massimo di sei mesi o per sempre in caso di recidiva, i giornali o periodici i quali abbiano servito alla perpetrazione di uno degli atti previsti nella ordinanza.

Le autorità cantonali debbono vietare le manifestazioni e particolarmente le radunanze ed i cortei, i quali si presuma possano dar occasione o provocare infrazioni alla ordinanza; e, se necessario, il consiglio federale medesimo può pronunciare il divieto.

Le norme, sebbene redatte in linguaggio generico, sono evidentemente indirizzate contro le mene naziste – quelle fascistiche, sebbene non ignote, non ebbero mai sostanziale importanza – di sovvertimento dei liberi ordini politici della confederazione; ma potrebbero essere e furono applicate anche contro tentativi comunistici. Esse in sostanza non sono volte contro la parola o gli scritti intesi a negare le basi dell’ordinamento democratico; sì contro i mezzi illeciti, contrari alle leggi, usati nella propaganda liberticida; contro la calunnia, la diffamazione, il vilipendio sistematico, l’opera di odio antisociale, specie se assoldata da potenze straniere. Lo stato rispetta tutte le idee, anche quelle più repugnanti all’uomo libero; ma non tollera che la propaganda delle idee antiliberali assuma forme esteriori nocive all’ordine pubblico ed alla sicurezza della nazione. La linea di distinzione fra il mezzo lecito e quello illecito, fra la predicazione pacifica e l’eccitamento alla violenza ed al disordine, fra la convinzione spontanea e la professione esterna assoldata dal nemico è, sì, sottile. Ma ogni distinzione giuridica di tal genere è delicatissima; e l’unica guarentigia per la libertà del cittadino contro i soprusi dell’autorità politica è l’indipendenza della magistratura. Se esistano magistrati consapevoli della loro missione, il cittadino non corre alcun pericolo a causa dei divieti posti a tutela dei liberi ordinamenti. Là dove i magistrati ubbidiscono al cenno del politico, a che pro andar cercando guarentigie nella lettera delle leggi? La legge, sia d’ordine costituzionale che ordinaria, non può essere opera della sola maggioranza. Almeno non può essere tale, ove essa debba durare a lungo ed essere applicata fruttuosamente. Se la norma di legge fu voluta dalla maggioranza contro la netta opposizione di una minoranza notabile e convinta; se essa lasciò uno strascico di importanti interessi lesi e se la lesione è reputata ingiusta da forti gruppi di interessati; se essa offese ideali cari a talune regioni o città o gruppi sociali, non illudiamoci. Quella chiamasi legge, ma è un’arma di lotta di gruppo contro gruppo, di regione contro regione, di città contro città. Essa eccita resistenze, provoca nuove lotte, inacerbisce gli animi. Può darsi essa prevalga alla lunga sulle forze che la contrastano; ma gli strascichi di odii e di vendette che essa lascia dietro di sé sono forse più dannosi dei benefici che se ne ritraggono.

La legge duratura, feconda ha per caratteristica essenziale l’adesione della minoranza ai deliberati della maggioranza. Adesione non vuol dire voto favorevole. La critica, il contrasto all’approvazione di un disegno di legge, articolo per articolo, capoverso per capoverso, parola per parola è collaborazione altrettanto efficace alla nuova legge quanto e forse più, della difesa del testo originale. L’oppositore, il quale, dopo vivacissima discussione e lunghe schermaglie, è riuscito a far modificare la dizione di un articolo, a far introdurre un nuovo comma, ad attenuare o ad accentuare la norma originariamente proposta, è forse più orgoglioso della variazione chiesta ed ottenuta con tanta fatica di quel che non sia il ministro proponente del suo trionfo nel voto finale. La legge diventa il frutto comune della maggioranza e della minoranza. Anche colui il quale ha dato il voto contrario deve riconoscere che nella formulazione ultima si è tenuto conto del suo contributo, che in essa si rispecchia un aspetto della sua volontà ed è tratto ad inchinarsi alla volontà della maggioranza. Il tipico risultato del contrasto liberamente manifestato è il compromesso fra le parti e le tendenze opposte; ed il compromesso conduce alla adesione leale della minoranza alla decisione lungamente contrastata alla quale la maggioranza finalmente è giunta.

Il “compromesso” ha due significati opposti: del do ut des fra interessi opposti e dell’avvicinamento fra partiti estremi. Il primo è moralmente e politicamente deprecabile; il secondo è strumento di stabilità sociale. Il compromesso del do ut des non è indice di tollerante adattamento parziale alle idee opposte, sì invece di puro calcolo partigiano egoistico. L’avvocato degli industriali cotonieri freddamente calcola quanti voti può aggiungere a quelli dei suoi fidi se egli, mercanteggiando, promette il voto favorevole dei venti suoi affiliati alle proposte sostenute singolarmente dagli avvocati dei lanaiuoli, dei siderurgici, dei meccanici, dei cerealicultori e dei viticultori. Nessuno di questi gruppi ha ideali da difendere, nessuno bada all’interesse generale. Basta ad ognuno di contrattare con i rappresentanti di interessi diversi la propria adesione alle richieste altrui pur di ottenere l’adesione altrui alle richieste proprie. Così nascono le tariffe doganali, le quali proteggono non le industrie le quali abbiano ragioni di interesse generale da far valere (industrie nascenti, industrie in transizione o soggette a svendite temporanee ecc. ecc.), ma quelle le quali sono politicamente forti e possono influire su un numero maggiore di rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori. Così nascono le distribuzioni dei lavori pubblici tra regioni diverse e tipi diversi di occupazione. Non si bada al piano preordinato in tempi prosperi, di lavori atti ad assorbire, nella maniera più adatta a compiere opere di interesse generale, gli operai che saranno disoccupati nei tempi di crisi; ma si contrattano opere per soddisfare ad esigenze politiche elettorali nei tempi e nei luoghi preferiti dalle parti le quali dispongono dei voti necessari a formare maggioranze parlamentari. Ovvero anche, nel sistema proporzionale, quando i partiti si moltiplicano e basta il possesso di un quoziente elettorale per dar luogo ad un partito, ognuno di essi intende ad attuare il proprio piccolo programma, che può essere il voto alle donne o la parificazione della scuola privata a quella pubblica o il divorzio o la proibizione delle bevande alcooliche o il dazio sul grano o l’unicità dei sindacati operai e padronali e simili cose sconnesse tra loro e forse derivanti da correnti ideali opposte; ed ogni partito vende all’altro il voto nelle cose altrui per conseguirne l’assenso al proprio postulato. Questo è falso compromesso, il quale trasforma i codici in antologie di norme arlecchinesche e dà il governo in mano a faccendieri intriganti.

Il vero compromesso è invece avvicinamento tra gli estremi, superamento degli opposti in una unità superiore. In verità maggioranze composte di uomini fermamente convinti della bontà di un programma non esistono. Pochi uomini posseggono un proprio sistema di idee, una ferma convinzione intorno ai problemi fondamentali della convivenza sociale. Intorno ai pochi si adunano i seguaci, e con essi formano parti politiche, scuole letterarie od artistiche, raggruppamenti sociali o religiosi. Pochi sono i capi ed i seguaci veramente convinti e sono minoranze più o meno attive nella predicazione e nella propaganda. La grande maggioranza degli uomini non pensa colla propria testa. Aderisce al pensiero ed alla volontà altrui. Ma vuole essere persuasa. Alla grande massa che non pensa, dispiacciono, salvo quando essa è folla radunata in piazza, i colori vivi abbaglianti; e la attirano invece le sfumature, le finte di transizione. Per conquistare gli incerti, i dubbiosi, i non pensanti è necessario che i partiti organizzati abbandonino una parte di se stessi, quella parte che allontanerebbe un troppo gran numero di titubanti. Fa d’uopo che ogni parte faccia proprio quel che di buono, di attraente per la moltitudine degli incerti vi è nel programma della parte avversa. In questa necessità di ottenere e conservare il favore della moltitudine politicamente passiva è radicato il gioco politico dell’appropriazione dei punti migliori dei programmi avversari. La legislazione sociale, le riforme tributarie ed agrarie, proposte dapprima da filantropi solitari, da apostoli di comunismo e di socialismo utopistico o rivoluzionario, da organizzatori operai, da liberali utilitaristi, furono quasi sempre attuate, nei paesi politicamente sani, dai conservatori. Non a caso; ché, filtrate attraverso il vaglio della discussione, le riforme perdono della asperità e crudezza originarie; da enunciazioni vaghe di principi si voltano in norme precise giuridiche, da paurose minacce di sovvertimento sociale in garanzie feconde di elevazione di tutti gli uomini. I conservatori, i quali hanno il vanto di attuare la riforma, non ne sono in verità i soli e neppure forse i veri autori; ché nel linguaggio tecnicamente perfetto della legge sono tradotte le predicazioni del filantropo, gli insegnamenti del sacerdote, le arringhe degli oratori comunisti, gli eccitamenti degli organizzatori, i ragionamenti degli economisti liberali. Filantropi, sacerdoti, socialisti, organizzatori, economisti non sono pienamente contenti della traduzione che i conservatori hanno fatto delle loro idee; e tuttavia veggono in quelle formule giuridiche, in quelle norme precise riprodotta, quando sia giunta la pienezza dei tempi – ed il contributo dei conservatori lungiveggenti sta appunto nella scelta del momento più adatto alla riforma – la sostanza del loro pensiero, in quanto essa è atta ad essere tradotta in azione. Sicché, quando la norma è da ultimo promulgata, come legge, essa non è in verità l’espressione della volontà di una parte intesa a sopraffare l’avversario, ma della volontà generale. La legge è osservata da tutti, è legge attiva e fruttuosa perché è frutto del compromesso fra gli opposti, e della adesione dei meno alla norma deliberata da coloro che si sono fatti l’eco della volontà dei più. La legge è sempre formalmente coattiva; ma è viva ed operosa solo se ad essa aderisce subito, senza rimpianto, la minoranza vinta. Soltanto allora il popolo dice: questa e legge. E ad essa ubbidisce.

 

[1] Con il titolo «Maior et senior pars», ossia della tolleranza e dell’adesione politica [ndr.].

[2] Della distinzione, usata dai canonisti medievali, fra major e sanior pars, avevo letto primamente in Il principio maggioritario, di Edoardo Ruffini, Bocca, Torino 1927.

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