Liberismo e protezionismo nella evoluzione agricola italiana
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 19/12/1913
Liberismo e protezionismo nella evoluzione agricola italiana
«L’Unità», 19 dicembre 1913
Dall’articolo La logica protezionista pubblicato dall’Einaudi nella «Riforma sociale» del dicembre, in risposta agli articoli protezionisti pubblicati dall’on. Colajanni sulla «Tribuna» e sulla «Rivista popolare», stralciamo, col permesso dell’autore, il seguente frammento, che ci sembra meglio adatto all’indole del nostro giornale.
Noi speriamo che questo piccolo campione dell’intero lavoro invoglierà molti nostri lettori a leggere gli articoli dell’On. Colajanni, documento oltremodo caratteristico della mentalità dei protezionisti di buona fede, e la risposta dell’Einaudi, mirabile esempio di argomentazione diritta e serrata e di polemica limpida e… ben educata.
Rispetto all’Italia agricola, l’on. Colajanni afferma che i 26 anni dell’Italia liberista dal 1861 al 1887 sono la prova delle tristissime condizioni in cui il liberismo lasciò l’agricoltura; mentre i 26 anni dell’Italia protezionista dal 1887 al 1913 sono contrassegnati da un progresso confortante e notevolissimo.
Con buona pace sua, questo del progresso aritmetico del regime liberista e del progresso geometrico del regime protezionista è un paragone che non onora davvero la mente acuta di uno scienziato dalle severe abitudini scientifiche, come è l’on. Colajanni. Il suo odio al calor rosso contro i liberisti gli impedisce di vedere che egli, nel fare questo paragone, dimentica le regole più elementari della logica statistica, le quali egli insegna pure ogni anno ai suoi studenti.
Le dimentica queste regole della comparazione statistica, appellandosi, non si sa perché, a Bastable e a Pareto, i quali probabilmente volevano ammonire gli studiosi contro i pericoli di paragonare due paesi che sono differenti sotto molti rispetti e non solo sotto il rispetto della politica doganale. Probabilmente, altresì, Bastable e Pareto, se avessero preveduto il malo uso, che egli avrebbe fatto della comparazione tra due epoche diverse entro uno stesso paese, lo avrebbero ammonito che non bisogna paragonare nello stesso paese due epoche le quali differiscono, oltreché per la mutata politica doganale, anche per altre circostanze importantissime e capaci da sole a spiegare le diverse conseguenze di fatto, che il Colajanni vuole affibbiare al protezionismo e al liberismo.
Come è, invero, possibile un paragone fra due epoche così profondamente differenti tra di loro, come furono in Italia i due periodi 1861-1887 e 1888-1912? in cui gli effetti diversi, se ci furono, sono spiegabilissimi senza ricorrere alla testa di turco del libero scambio come fattore di decadenza ed alla provvidenza protezionista come cagione di progresso.
Ricorderò solo alcuni fra i fattori diversi i quali rendono assurdo di attribuire la pretesa decadenza dell’agricoltura italiana nel primo periodo al liberismo ed il progresso nel secondo al protezionismo;
1) il risparmio nazionale fu nel primo periodo, più vigorosamente che nel secondo, assorbito dalle continue emissioni di titoli del debito pubblico ad alto tasso di interessi, dalla alienazione dei beni dell’asse ecclesiastico e degli altri beni demaniali, dagli inasprimenti tributari succedentisi ad ogni anno, ecc., ecc. Il capitale non andò alla terra, essendo assorbito da altri impieghi attraenti o dagli acquisti della terra medesima, i quali, sebbene la cosa sembri paradossale, sottraggono capitali all’agricoltura, invece di portargliene;
2) il primo periodo coincide nella prima parte, 1861-73, con un periodo di rialzo di prezzi e nella seconda parte, dal 1873 al 1887, con un periodo di ribasso mondiale di prezzi. A qualunque causa queste variazioni di prezzi siano dovute – al rincaro dell’oro, secondo gli uni, alla concorrenza transatlantica, secondo altri – certo esse producono l’effetto che le serie statistiche hanno nell’intero periodo una tendenza logica ad andare giù, perché si passa da anni di prezzi cari e crescenti ad anni di prezzi non ancora bassissimi, ma già calanti. Che cosa ha da fare il libero scambio in tutto ciò, io non riesco a comprenderlo. È chiaro che, liberismo e non liberismo, l’agricoltura italiana passò durante il 1861-87 da un periodo in cui i prezzi crescenti la incoraggiarono a progredire ad un periodo in cui i prezzi calanti scoraggiavano gli agricoltori da nuovi investimenti;
3) tutto contrario fu il secondo periodo 1887-1913 in cui l’on. Colajanni immagina di vedere i trionfi agricoli del protezionismo. Esso si scinde in due parti: la prima, la quale va dal 1887 al 1894-96, in cui continua e si accentua il ribasso già iniziato nella ultima parte del periodo precedente; ed una seconda, dal 1896 ai dì nostri, in cui si inizia e progredisce quel grande incremento odierno dei prezzi di cui tutti favellano e discorrono. È altresì chiaro che in questo secondo periodo, artificiosamente fatto cominciare dal 1887, le serie statistiche debbono tendere nel complesso all’aumento poiché si passa da anni di prezzi calanti ad anni di prezzi crescenti da un periodo in cui gli agricoltori si astenevano da ogni nuovo investimento capitalistico, perché vedevano che i prezzi del grano, del vino, del bestiame andavano giù, ad un periodo in cui il crescere continuo dei prezzi spinse ad un inopinato fervore di vita e di audacie gli agricoltori. Gli storici protezionisti ed officiosi somigliano alla mosca cocchiera la quale immaginava di trarre il carro, perché stava sulla schiena del bue. Essi immaginano che la «sapienza del governo» nell’istituire le «provvidenze» mirabili dei «dazi protettori del lavoro nazionale» sia stata la causa della maggiore energia produttiva degli agricoltori italiani, dei concimi chimici che si comprano in maggior copia, dei formaggi che a Reggio Emilia ed a Parma si producono in quantità crescente, delle conserve di pomidoro che spargono il nome d’Italia fino nella lontana Australia. E non s’avvedono che i governanti ed i loro dazi protettori sono delle mosche cocchiere, e che il bue il quale ha tirato innanzi il carro dell’agricoltura italiana è stato in primissimo luogo l’agricoltore italiano – che i governanti apprezzano solo per la sua pazienza nel pagare imposte, ed i trivellatori per la ingenuità con cui si lascia indurre a pagare fitti alti ai proprietari di terre, e prezzi esorbitanti per gli aratri, i concimi chimici, i rimedi cuprici, i vestiti, i materiali da costruzione, ecc. – allettato dalla speranza di prezzi meno bassi di quelli che prevalevano prima. Si illudono le mosche cocchiere di condurre il mondo scarabocchiando carte a Roma ed esigendo dazi alla frontiera: e non si accorgono che il mondo andrebbe assai meglio senza il fastidio della loro presenza; e malgrado esso, va innanzi da sé.
Una storia più esatta degli avvenimenti succedutisi dal 1861 in poi dividerebbe, forse, la storia dell’agricoltura italiana in tre periodi, diversi da quelli immaginati dall’on. Colajanni. Un primo, il quale va dall’unificazione fin verso il 1880, e che non dovette essere di regresso se in quel tempo si compì la grande trasformazione agricola del Mezzogiorno con lo sviluppo della viticoltura e della agrumicoltura se i fitti malgrado l’assenza di dazi in ogni parte d’Italia erano in aumento e se si ottenevano prezzi persino eccessivi, sebbene dopo il culmine del 1873, già leggermente calanti, per i prodotti agrari. I progressi forse non furono quanto potenzialmente potevano essere, a cagione della scarsità dei risparmi nuovi e del loro assorbimento da parte dello Stato. Ma non furono nemmeno irrilevanti.
Un secondo periodo comincia già verso il 1880, si accentua col 1887, dura acutissimo sin a quasi tutto il 1898, in cui si hanno le sue più rumorose, sebbene tarde manifestazioni, finché colla fine del secolo ha termine. È un periodo di depressione economica in Italia, come in tutto il mondo. La grande ondata dei prezzi bassi, la quale si abbassa al livello minimo verso il 1894-96, era cominciata fin dal 1873, ma solo dopo il 1880 si era resa sensibile. Quell’ondata toccava gli agricoltori italiani a causa dell’irrompere della concorrenza transatlantica; ma tutti gli indagatori sono d’accordo coll’indicarne la causa più importante, sebbene forse non unica, nella diminuzione della produzione dell’oro e nella febbre di smonetizzazione dell’argento da cui furono colti i principali Stati del mondo, che fecero rincarire la moneta e svilire i prezzi.
Fu allora che fu compiuta la grande inchiesta agraria la quale ebbe il colore pessimista del tempo. Ma che in realtà l’agricoltura italiana dal 1861 fino al 1880 avesse regredito sul serio, da quell’inchiesta non fu potuto dimostrare. Si vedeva la possibilità di ulteriori grandi miglioramenti, cosa ben diversa dalla constatazione effettiva di un regresso avvenuto nel passato. E che il libero scambio dei prodotti agrari non fosse creduta la cagione di un regresso insistente è dimostrato dalle conclusioni del presidente e relatore generale dell’inchiesta, il conte Jacini, il quale si palesò contrario all’introduzione dei dazi protettori per l’agricoltura. L’avviso contrario di chi fu davvero l’economista agrario principe dell’Italia vale almeno il consenso ai dazi protettori di tutto un esercito di agricoltori pratici e di cattedratici ambulanti – non tutti però, nemmeno adesso, sono convinti della necessità del dazio! – cresciuti dopo, all’ombra delle 7 e 1/2 lire di dazio. Ciò nonostante il dazio fu aumentato via via da 0,50 a 3 e poi a 5 e poi a 7,50 perché la finanza, assillata dai disavanzi caratteristici dei periodi di depressione economica, trovò comodissimo di ascoltare il grido degli agricoltori organizzati a cui il senatore Rossi da Schio faceva eco a nome degli industriali. Colajanni ha un bel dire che il dazio sul grano non fu il pretium sceleris del patto fra agricoltura ed industria ai danni dei contribuenti; ma la verità storica è proprio quella affermata dall’amico Prato e che, non si sa perché, dà ai nervi al Colajanni.
Si può ammettere che i bisogni della finanza abbiano avuto la lor parte nella formazione della tariffa doganale italiana; ma è certo che se i saltimbanchi della sinistra non avessero abolito il macinato, imposta incommensurabilmente migliore dal punto di vista di quella che si usa chiamare «giustizia tributaria», del dazio sul grano, la finanza non avrebbe avuto affatto bisogno di un dazio, che pei contribuenti è quattro volte più pesante, pur rendendo i due terzi all’incirca soltanto di quanto oggi renderebbe l’odiatissimo macinato. I bisogni della finanza condussero a cercare nuove entrate; ma il patto orrendo sancito tra fisco, agricoltori ed industriali indusse il governo a scegliere i dazi protettori quale mezzo di procacciare all’erario nuove entrate, mentre altri mezzi assai più corretti potevano essere adottati.
E, dicasi quel che si voglia, le sorti dell’economia italiana, in quanto dipesero dalla tariffa doganale del 1887, volsero pessime. Io non dirò, imitando i sofismi protezionisti, che i disastri dell’agricoltura ed in genere di tutta l’economia nostra dal 1887 al 1898 siano stati dovuti soltanto alla tariffa protettiva. Molti fattori contribuirono all’uopo: la liquidazione della crisi economica scoppiata in seguito alle pazzie ed agli errori commessi nel periodo 1880-87 (crisi edilizia, crisi vinicola crisi bancaria), gli errori commessi dal governo nella politica internazionale e nella gestione della finanza, le dilapidazioni del tenue risparmio nazionale nei grandiosi programmi ferroviari o nelle campagne eritree, ecc. ecc. Ma quando si vede, paragonando gli anni immediatamente precedenti e quelli immediatamente successivi al 1887, verificarsi una contrazione notevole del commercio internazionale, quando si assiste al languire di alcune italianissime industrie, mentre andavano sorgendo quelle protette; quando si riflette che a così breve distanza di tempo gli altri fattori influenti noti possono aver subito dei mutamenti profondissimi, allora si ha una certa ragione di concludere che il peggioramento avvenuto nella economia italiana dal 1887 fino verso il 1898 non possa essere considerato privo di ogni relazione di effetto a causa con la mutazione del regime doganale. Allora ci troviamo di fronte ad una di quelle riprove statistiche, che, se non hanno assoluto valore probatorio, l’hanno di gran lunga maggiore dei paragoni assurdi istituiti da Colajanni tra due periodi così diversi, così lontani come il 1861-87 ed il 1888-912.
Col 1898 circa, comincia l’ultimo periodo storico dell’agricoltura nazionale, che è periodo di ascensione. Ecco, dicono i protezionisti, i beneficii della politica protettiva! E perché, rispondiamo noi, il protezionismo ha aspettato tanto a manifestare i suoi benefici effetti? Perché ha aspettato proprio a rivelare le sue virtù, quando l’asprezza dei dazi delle tariffe del 1887 era stata temperata dai successivi trattati di commercio, specie da quelli del 1902 con le potenze centrali?
In verità anche quest’ultimo periodo della nostra storia economica è straordinariamente complesso. Il risparmio, non più assorbito dallo Stato, può dedicarsi a migliorie agricole. La classe contadina dai prezzi crescenti delle derrate agrarie riceve i mezzi per intensificare le culture. L’ascesa coincide, in Italia come altrove, coll’inizio della nuova grande ondata all’insù dei prezzi provocata sovratutto dalla straordinaria e crescente produzione d’oro (Transvaal). In questi periodi di prezzi crescenti i redditi aumentano, gli scioperi procacciano agli operai aumenti di salario, i quali si convertono in aumenti di consumo di vino, di carni, di latticini, formaggio, uova, frutta, ecc. ecc.
A questo risveglio economico, segnalato dagli osservatori in tutti i paesi del mondo ed in non pochi compiutosi con metro assai più rapido che in Italia, è dovuta la resurrezione dell’agricoltura padana, che nell’inchiesta agraria del Jacini era parsa la più sofferente e che sola in Italia, salvo la provincia di Napoli, aveva chiesto l’acceleramento delle operazioni catastali, perché si riteneva la più gravata d’imposte in confronto a redditi allora decrescenti.
La fioritura della terra padana è contrassegnata specialmente da quale fatto specifico nel rapporto del regime doganale? Dalla minore importanza data alla cultura del grano, fortemente protetta, e dalla crescente estensione della cultura dei foraggi, assai meno protetti, e dall’allevamento del bestiame e dei caseifici e dalle culture secondarie, come la frutta, la pollicoltura, l’orticoltura (pomidori di Parma!!), le quali o non sono protette, od hanno una protezione nominale, perché essendo industrie esportatrici, il dazio non funziona rispetto ai prezzi, non essendosi finora stabiliti sindacati simili a quelli degli zuccherieri e dei siderurgici per estorcere ai consumatori i prezzi massimi consentiti dalla protezione.
E qual è il fatto caratteristico della cultura a grano? Che essa, per l’alto prezzo del grano, alto non solo per i prezzi migliori mondiali, come per gli altri prodotti, ma per l’enorme sovraprezzo dovuto al dazio, si è estesa per modo da diventare un vero flagello economico.
Il Colajanni ha certamente meditato a lungo le pagine del Valenti sull’agricoltura italiana nella grande pubblicazione dei Lincei e più le statistiche pubblicate da lui quand’era a capo dell’ufficio di statistica agraria, sulla ripartizione delle culture nelle varie regioni d’Italia, a seconda dell’altitudine. Se una verità chiarissima zampilla fuori da quelle indagini è questa: che la cultura del grano non ha bisogno per vivere di dazio dove essa è produttiva; e sarebbe meglio non ci fosse, ove il dazio è indispensabile a renderla conveniente. Andiam gridando: boschi boschi! ed ogni giorno lasciamo distruggere sotto i nostri occhi i boschi, perché il contadino vuole rubare in fretta ed in furia tutta quella maggior quantità di grano caro che la terra diboscata gli può dare, né si cura se, dopo alcuni anni, quelli che erano boschi diventano gerbidi incolti e rocce nude.
Ecco gli effetti specifici del dazio sul grano e non i progressi mirabili di talune plaghe agricole d’Italia, a tutt’altre cause dovuti!