Il bilancio della guerra e la finanza sabauda alla pace di Utrecht – Parte IV: La finanza sabauda alla pace di Utrecht.Conversioni di debiti pubblici ed abolizione di tributi straordinari
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1908
Il bilancio della guerra e la finanza sabauda alla pace di Utrecht – Parte IV: La finanza sabauda alla pace di Utrecht.Conversioni di debiti pubblici ed abolizione di tributi straordinari
La finanza sabauda all’aprirsi del sec. XVIII e durante la guerra di successione spagnuola, Officine grafiche della Società tipografico editrice nazionale, Torino 1908, pp. 439-455
106. – Malgrado la gravezza dei sacrifici sopportati dai popoli, la vittoria aveva lasciato al Principe il guiderdone di nuove ampie provincie, non ricche forse per allora, ma capaci di progressi economici e di crescenti contributi alle finanze pubbliche. Cosicché i finanzieri sabaudi, prima che la pace di Utrecht avesse restituito la Savoia e Nizza e con quelle due provincie i redditi fiscali che per un decennio avevano profittato a Francia, poterono cominciare l’opera di ricostituzione finanziaria dello Stato. Qui ci limitiamo a dare un cenno dell’opera compiuta sino alla conchiusione della pace, opera modesta se vuolsi, ma pur siffatta da mettere il nostro Paese in significante contrasto con quel colosso francese che aveva presunto orgogliosamente di fiaccarne l’indipendenza. Erano i tempi infatti nei quali il Re Cristianissimo moltiplicava le emissioni di titoli di debito pubblico e di “billets de monnoye”, aumentava il valore nominale delle monete d’argento e rimborsava con queste, come fanno gli Stati bancarottieri, i “billets de monnoye” ad un corso inferiore a quello nominale. Ritardandosi dall’erario il pagamento degli interessi dei prestiti, accadeva che “les assignations et les billets de monnoye ont est negociez avec grande perte, et que n’ayant pu faire acquitter ces differents credits, ils ont donné lieu à des usures excessives”. Malgrado ogni ripiego, esclamava il Re in un suo editto interinato dal Parlamento di Parigi il 16 dicembre 1713, “la sterilitè de l’annee 1709, les mauvaises recoltes qui l’ont suivie, ont apportè un nouvel obstacle nos bons desseins; les revenus de nos fermes se sont trouvez tellement diminuez, que non seulement Nous n’avons pu continuer de payer par avance e de six en six mois les arrerages des Rentes; mais mesme Nous avons etè obligè de ne payer que six mois seulement dans le cours d’une annee, en sorte qu’il est deu aux proprietaires des rents deux annees d’arrerages”. Non pagati da due anni, sfiduciati sull’avvenire serbato ai propri titoli, i “rentiers” vedevano approssimarsi a grandi passi l’ora della riduzione forzata degli interessi, solito spediente dei Re di Francia, per trarsi d’imbarazzo; e, vendendo a furia i titoli di debito pubblico, affrettavano la loro rovina, poiché davano modo ai finanzieri di scagliarsi contro i “profits excessifs” che facevano i compratori di rendite, acquistandole ad un terzo meno del corso di emissione. Cosicché nessuno si stupì quando l’editto citato riduceva ai tre quarti del capitale nominale le rendite perpetue create dopo l’1 gennaio 1702 ed ai tre quinti quelle create dopo l’aprile 1706, convertendole tutte, anche quelle create prima della guerra, del 1680 in poi, in rendite nuove al 4% di interesse sul capitale ridotto. Né meglio furono trattati i possessori di rendite vitalizie al 10%, che si videro diminuire l’annuo reddito di un quarto o di una metà a seconda dei casi; i possessori di rendite metà vitalizie e metà perpetue, i quali dovettero contentarsi o della rendita perpetua intiera, soppressa la vitalizia, ovvero della metà dell’una e dell’altra. I possessori dei luoghi di tontina dovettero anch’essi tenersi paghi della metà dei loro crediti; e agli uni e agli altri fu scarso conforto la consegna di luoghi di rendita al 4% in pagamento delle due annate d’interesse non riscosso.
Così si operava in Francia verso il finire della guerra nostra; né, ripetiamo, la cosa destò stupore, poiché il fallimento era consuetudine antica dei Re francesi ed il Boileau già aveva descritto il “rentier qui palit a l’aspect d’un arret qui retranche un quartier”. Poterono bene costoro sfogarsi in critiche contro il Desmarets, nipote del grande Colbert ed allora controllore generale delle finanze e relatore al Consiglio del Re dell’editto per la riduzione delle rendite, e minacciarlo di qualche vendetta, se osava farsi vedere nelle vie di Parigi. Ma furono mormorazioni di breve durata, che non tolsero ai governanti la voglia ed il modo di far peggio in seguito[1].
L’esempio francese era seguito da Stati che pure non avevano dovuto in quegli anni traversare una guerra dura ed ostinata: la Repubblica veneta nel 1714 riduceva forzosamente gli interessi, già diminuiti nel 1699 dal 5 al 4%, dal 4 al 2%, nonostante si fosse tenuta paga durante la guerra di successione spagnuola di serbare la neutralità armata[2]. Ma non fu seguito da Vittorio Amedeo II e dai suoi finanzieri. I quali vollero, appena fu possibile, riprendere l’opera, già iniziata prima che la guerra scoppiasse, di graduale estinzione e conversione dei debiti pubblici. Nel 1700 si era infatti riscattato il dacito d’Asti venduto al conte Nicolò Facello nel giugno 1693 al prezzo di 70 mila lire[3]. Con ordine del 25 dicembre 1702 si era tentato di procedere all’abolizione del “diritto di nomina dei banditi” ossia del diritto di certe persone ed enti privilegiati di salvare ogni anno un certo numero di banditi, condannati alla forca. Era un iniquo privilegio, di cui facevasi indegno mercato. La Corona, riscattando dai privati questo diritto, volle riservata intiera a sé una delle più gelose prerogative sovrane[4]. Il sopravvenire degli anni terribili di guerra, mentre rese necessario ricorrere ad ogni sorta di spedienti per salvare lo Stato dal fallimento, impedì pure di continuare l’ammortamento dei debiti vecchi. Ma quando fu ristabilita la tranquillità, si volse subito il pensiero alla liquidazione del passato. Già, appena respinti i francesi oltr’alpe e diminuite alquanto le spese della guerra guerreggiata, si era provveduto a pagare i debiti più urgenti coi banchieri e coi fornitori. Un confronto fra le somme iscritte nel nostro sommario dei “fondi” a titolo di “prestanze e di anticipazioni temporanee” e quelle iscritte nel sommario delle “spese” a titolo di “interessi e rimborsi di debiti e di anticipazioni” (cfr. sopra pag. 351 e 363) dimostra come energicamente si profittasse del continuato pagamento dei sussidi delle potenze alleate negli anni dal 1708 al 1711 per diminuire il debito fluttuante.
Fondi incassati per “prestanze ed anticipazioni temporanee” Lire | Spese fatte per interessi e rimborsi di debiti, ecc. Lire | |
1705 | 879.914. 9. 4 | 2.078.760. 5. 1 |
1706 | 1.813.335. 4.10 | 2.665.873. 8. 4 |
1707 | 1.875.015. 4. 9 | 3.434.505.11. 4 |
1708 | 1.547.213. 2.10 | 5.325.374.19. 8 |
1709 | 411.188.19. 8 | 2.920.941. 0. 3 |
1710 | 94.976.15. 4 | 3.480.121. 4.10 |
1711 | – | 2.940.031.19. 5 |
1712 | – | 2.025.158.12. 5 |
1713 | 160.000 | 2.422.308.13. 4 |
Nonostante i fatti pagamenti, grossi debiti residui rimanevano alla fine del 1713, perché, mentre le somme indicate nei “fondi” erano di soli capitali mutuati a breve scadenza, nelle spese fatte per “interessi e rimborsi di debiti e di anticipazioni” sono compresi gli interessi dei debiti perpetui e temporanei, i pagamenti di forniture, stipendi od appannaggi arretrati, la minor parte essendo di rimborsi di prestanze ricevute. Tuttavia l’aumento delle somme spese per il servizio dei debiti che si ebbe dal 1706 al 1711 in confronto della somma che prima e dopo era necessaria, prova che, se negli anni della guerra grossa furono notevoli le prestanze ottenute dai banchieri, una cospicua parte di esse era stata restituita negli anni medesimi o poco dopo, come del resto comportava la brevità dei termini assegnati dai creditori. Ciononostante, quando una commissione nominata nel 1715, volle accertare i debiti che alla fine della guerra rimanevano da pagare, il quadro non si presentava soverchiamente lieto. Astrazion fatta dai debiti consolidati, e cioè dai prestiti con la città di Torino, dai monti, dai tassi alienati ed infeudati, ecco come si presentava la situazione dei soli debiti fluttuanti, per forniture e stipendi non pagati, debiti con banchieri, liquidazioni dei danni di guerra, ecc.[5]:
Debiti | Pagamenti eseguiti in conto sino a tutto il 1715 | Debiti residui | |||
Per capitale | per interessi liquidati | Totale | |||
Debiti avanti la guerra del 1690/96 | 149.845. 2. 6 | 190.210.13. 2 | 340.055.15. 8 | 216.598.16.11 | 127.456.18. 9 |
Debiti dipendenti dalla guerra del 1690/96 | 508.913.11.11 | 144.677.16 | 653.591. 7.11 | 348.601. 7. 8 | 304.990. 0. 3 |
Debiti dipendenti dalla guerra del 1703/713 | 5.352.826.16. 7 | 996.477.16. 5 | 6.349.304.13 | 3.940.257.16. 8 | 2.409.046.16. 4 |
Debiti delle R. finanze pagati dal 1707 a tutto il 1714, non compresi nel libro formato d’ordine di S.M. nel 1715 | – | – | 2.347.236. 1. 8 | 2.347.236. 1. 8 | – |
Totale L. | 6.011.585.11 | 1.331.163.15. 7 | 9.690.187.18. 3 | 6.852.694. 2.11 | 2.841.493.15. 4 |
Nel bilancio del 1715 erano state dapprima assegnate L. 2.254 per il pagamento dei debiti, che invano si era reputato di poter restituire nel 1710, 1711, 1712 e 1713, oltre L. 688.065.4.4. di nuovi rimborsi. Ad anno inoltrato, riconosciute larghe le disponibilità di cassa, furono bilanciate ancora L. 2.242.485 per pagamento di altri debiti; e così l’erario rimase sollevato dal carico più grave. Nel 1716 si pagarono L. 157.764.5.6 e si continuò a stanziare qualche somma in tutti gli anni successivi, sicché nel 1721 il totale dei debiti non consolidati, compresi quelli dipendenti da conti che non si erano potuti definitivamente liquidare e gli altri dipendenti da fatti posteriori al 1713, giungeva a malapena a L. 775.476.0.7; piccola somma, che era possibile estinguere cogli avanzi di un anno solo. Se si pensa che i debiti non consolidati importarono talvolta l’onere di interessi esorbitanti (cfr. sopra par. 98) è chiaro il vantaggio grandissimo che pochi anni di pace avevano arrecato all’erario.
107. Mentre procedevasi energicamente a ristorare le condizioni dell’erario, riducendo i debiti temporanei e pagando gli arretrati di spese ancora dovute, si intendeva nello stesso tempo a diminuire l’onere dei debiti perpetui, convertendoli ad un tasso minore di interessi. Non mancavano a ciò recenti esempi. Già dicemmo (cfr. sopra par. 58, pag. 258) della conversione seguita nel 1688 dal 5 al 4% dei luoghi fissi della prima erezione del Monte di San Giovanni battista. Nel 1699, con biglietto del 20 dicembre alla Camera dei Conti, il Principe manifestava la sua volontà di riscattare i tassi alienati alla società granatica e ad altri al 6%, ove i creditori non si fossero contentati del 5%, servendosi per il riscatto dei capitali offerti da persone desiderose di impiegarli in fondi Pubblici (1). XXII. 1321). Sembra che in quel momento l’interesse del denaro fosse sul mercato disceso ancora al disotto del 5 % poiché in una memoria dell’ufficio delle finanze si legge che “avrebbe l’A. S. R. potuto ridurli a meno di detti 5 quando avesse voluto, perché eziandio su tal piede pare ancora eccessivo. Tuttavia ha stabilito di non minorare di più il provento a quei che in una occasione come la suddetta [della guerra del 1690/96] si sono mostrati zelanti per il regio servizio”. La conversione riuscì per non piccola somma: L. 857.957.14.4.6 in capitale che fruttavano prima al 6% L. 51.388.13.6.6 all’anno e costarono in seguito al 5% solo più L. 42.820.15.6.10 con un risparmio di L. 8.564.15.5.7[6].
Le conversioni del tasso continuano in seguito alla spicciolata, anche ad un saggio minore del 5 per cento. Con R.B. dell’1 dicembre 1702 il Principe autorizza la Camera a riscattare tassi alienati giovandosi delle somme offerte da chi volesse ricomprarli ad un saggio minore di interesse. “E siccome” – recita il regio biglietto – “diversi particolari hanno avuto racorso a noi e propostoci di riscattare col proprio loro denaro diversi tassi alienati per indi alienarli a loro stessi a minor provento di quello a che restano precedentemente alienati, habbiamo stimato d’incaricare come incarichiamo li nostri Patrimoniali generali che a misura le verranno fatte simili propositioni debbino, senz’altro ricorso a noi, far eseguire il riscatto di quei tassi, che li ricorrenti intenderanno acquistare col denaro loro proprio, indi alienarli ad essi sotto la riserva del perpetuo riscatto con l’istesse prerogative, privilegi et esentioni presenti, con che s’incorporerà nel nostro Demanio l’utile che si ricavarà dal minore provento suddetto”[7]. La conversione del debito pubblico avveniva dunque in modo assai meno solenne e momentoso d’oggidì. A mano a mano che il tasso dell’interesse scendeva coll’accumularsi dei risparmi, i privati offrivano i loro capitali disponibili al fisco che se ne valeva per riscattare debiti antichi portanti un tasso maggiore d’interesse. Così nella sessione camerale del 15 marzo 1704 si prende atto che il banchiere Michel Gerolamo Marchisio ha offerto di comprare tanto tasso su Carmagnola corrispondente, al 4 3/4%, al capitale di scuti d’oro del sole 1777.15.6.8 e che il patrimoniale generale conte Fecia ha perciò riscattato altrettanto tasso alienato il 13 settembre 1696 a Giovanni Tomaso Garone su Giaveno al 5 per cento. L’interesse antico era di scuti 88.17.9.4; e quello nuovo essendo di scuti 84.8.10.8, avevasi un guadagno pel fisco di scuti 4.8.10.8 all’anno. Il banchiere Marchisio era soltanto un intermediario, talché rivendette l’acquistato tasso al 4 3/4% alle madri carmelite di Torino, ricevendone autorizzazione dalla Camera il 13 settembre 1704[8].
Collo scoppiar della guerra i capitali rincarano nuovamente, sicché di conversioni minute più non si parla per qualche anno.
108. – Subito dopo la vittoria di Torino, il prezzo dei capitali a lunga scadenza ribassa, pur mantenendosi ancora elevato l’interesse sulle prestanze temporanee. Malgrado il denaro non fosse abbondante, si prevedeva che di lì a pochi anni il Principe si sarebbe trovato in grado di fare conversioni a più mite tasso di interesse; e quindi i capitalisti cominciarono a guardare di buon occhio investimenti che poco prima avrebbero spregiati come scarsamente fruttiferi. Di ciò si può avere la prova sovratutto nelle operazioni compiute dalla città di Torino, il grande banchiere, come dissimo, dello Stato sabaudo. Al principio del 1707 gli eredi Grognardi, avendo 1510 lire da impiegare, le avevano offerte alla città al 5%, di interesse. Malgrado che contemporaneamente si facessero emissioni di luoghi di monte dell’ottava erezione al 10 e 4% o all’8 e 5% e se ne dovessero ancora fare altre, della nona e decima erezione, al 6% (cfr. par. 64 e 65 pag. 225 e segg.), pure non si trovò nessuno il quale fosse disposto a “retrovendere” a ossia a cedere i propri censi al 5 per cento. Forse pensarono tutti che era meglio contentarsi del 5% dalla città, che comprare luoghi di monte al 6% soggetti a vicina conversione. Se gli eredi Grognardi vollero impiegare i loro denari presso la città dovettero comprare un censo di un signor Asinelli che fruttava appena il 4%[9]. Egli è che il credito della città si manteneva sempre più elevato di quello del Principe; e malgrado questi ricorresse all’accorgimento di contrarre suoi debiti coll’intermediazione e colla garanzia della città di Torino, pare che i capitalisti distinguessero pur sempre fra i mutui che la città contraeva per proprio conto e quelli per i quali si limitava ad essere il banchiere emittente del sovrano. Che le condizioni finanziarie della città di Torino andassero rapidamente migliorando negli anni di pace, chiarito da un discorso che il vassallo cavaliere Peracchio del Villar teneva, come sindaco, – al consiglio nella sua adunanza del 29 settembre 1709. Dopo aver ricordato che era a buon punto la restituzione dei capitali presi a prestito per le grosse provviste di grani fatte durante gli anni precedenti e che più veloce sarebbe proceduta la restituzione a mano a mano che si esigeva dai fornai il prezzo dei grani loro provvisti, aggiungeva che nessuna preoccupazione dovevasi avere riguardo alla nuova compra di ventimila sacchi di grano deliberata dal consiglio di pentecoste, così abbondanti essendo i fondi in cassa da bastare largamente a siffatta bisogna. Quando si volessero fare maggiori compre e non bastassero i fondi in cassa, il sindaco comunicava al consiglio “esservi continue oblationi di molte somme a censo ed a prestito a 4%, onde si potranno prendere in detto caso a misura del preciso bisogno e la Città sempre sogiacerà all’annui proventi più moderati di quelli ha pagato sin ora”. La abbondanza di capitali offerti a miti condizioni, in misura di gran lunga eccedente qualunque futuro bisogno per la provvista di grani, aveva fatto persuaso il sindaco a trarne giovamento a vantaggio delle finanze cittadine; sicché – concludeva -“si stima spediente e di servitio e vantaggio della Città di riceverle e con esse estinguere li capitali censi e crediti, per quali si pagano gli annui censi e proventi a censuari e creditori a sei e cinque per cento, ove questi non eleghino di ritratarli a detta ragione di 4% e che a tal effetto se li possi far l’intimazione della disdetta, conforme s’è già praticato altre volte e già con alcuni nel corrente anno per non perder l’occasioni dell’offerte ed il vantaggio che ne viene la città a sentire”[10].L’anno seguente, nella seduta del consiglio del 31 dicembre 1710, il medesimo sindico Peracchio del Villar, ad incoraggiare i consiglieri a fare una abbondante elemosina al “venerando hospedale della carità” che s’era dovuto caricar di debiti per mantenere i molti poveri in esso ricoverati, fa un lusinghiero quadro dello stato delle finanze torinesi: “Ma perché questo Conseglio potrebbe nel deliberare ed ordinare una elemosina congruente al bisogno di dett’hospedale forse esitar ed haver qualche dubbio delle forze della Città, perciò ha stimato di portarli a notizia che nell’anno scorso e cadente si è allegerita questa Città di debiti per l’ammontare di L. 500 mila e più col denaro soministrato dalla cassa della Città, cioè si sono estinti tutti li debiti dalla Città fatti dall’anno 1700 in qua per accompre de grani, comestibili e per altre urgenze della Città, a riserva di L. 20 mila circa, quali non si sono potute estinguere per esser incerti li proprietarij d’esse a causa della morte d’alcuni che hanno acquistati li censi, alcuni per essere absenti e per altre cause consimili. Inoltre essersi anche estinta quasi intieramente la portione per l’anno cadente de capitali delle L. 500 mila quali la Città tenuta riscatare fra gli anni 14 portati dalle risposte di S. A. R. al memoriale a capi sportoli dalla Città[11] sendo scorsi diversi anni in quali non se ne sono potuti riscatare a causa delle contingenze della guerra, anzi presi altri denari a censo ed a prestito ed essersi altresì estinte L. 20 mila e più di capitale sovra le gabelle dell’imbottato[12], e ritratati spontaneamente da censuari sovra dette gabelle gli annui loro proventi per l’ammontare de capitali di L. 300 mila circa da 6 a 4 per cento. Che però crede che la città puossi essere in stato di far elemosina abbondante a dett’hospedale ed a qualche altre opere pie e poveri, quali hanno sporti li loro racorsi”[13].
Nel 1711 proseguono le conversioni dei debiti cittadini con siffatta alacrità che il sindico conte Sansoz di Boville può nella seduta del consiglio del 31 dicembre di quell’anno annunciare che oramai la città ha ridotto al 4% tutti gli interessi dei debiti garantiti sovra la gabella dell’imbottato, e non ha più debiti per cui debba pagare l’interesse del 6% fuori di quelli che si ammortizzano col provento delle due gabelle piccole e dei luoghi fissi della terza erezione dei Monti di San Giovanni Battista, questi ultimi per il capitale di L. 488.550. Siccome le offerte di capitali alla città al 4% continuavano abbondanti, il sindico propone, ed il consiglio approva che anche ai montisti della terza erezione si debba intimare la disdetta pel rimborso del capitale loro dovuto, quando non preferiscano contentarsi del 4 per cento[14].
Qui cade in acconcio una osservazione. La città di Torino, oltre ai debiti che aveva contratto per cause proprie, erasi indebitata per causa del Principe in due maniere diverse (cfr. la tabella inserta a pag. 200/201). Per le erezioni dalla quarta alla decima dei luoghi fissi e dalla prima alla sesta dei luoghi vacabili dei Monti di San Giovanni Battista, la città, benché avesse prestata la sua fideiussione, riceveva, in una maniera o nell’altra, i fondi necessari al servizio del debito dall’erario del Principe; e quindi non poteva essa deliberare le conversioni, né ad essa andava il frutto delle conversioni felicemente riuscite. Invece per le erezioni dalla prima alla terza dei luoghi fissi di San Giovanni Battista, la città si era accollato l’obbligo di pagare gli interessi ai montisti sul provento, calcolato in L. 80.000 l’anno, della gabella di carni e corami (macelli), divenuta sua per acquisto fattone a titolo oneroso il 13 ottobre 1690 e il 30 marzo 1699. Così pure per i censi pagabili sul capitale di L. 635.500 mutuato al Principe e per i censi e gli alienatari garantiti sovra l’imbottato e la gabella degli hosti (contratto del 14 marzo 1705). In tutti questi casi la città di Torino aveva comprato a suo rischio le gabelle e s’era obbligata a pagare gli interessi dei debiti su quelle gabelle garantiti. Quindi nella stessa guisa che andava a suo vantaggio il maggior provento ed a sua perdita il minor reddito delle gabelle acquistate, così a suo vantaggio andava tutto il risparmio che riusciva a fare sugli interessi pagati ai censuari ed agli alienatari garantiti su quelle gabelle. Si comprende perciò come la città non avesse bisogno del regio consenso per procedere a conversioni su questi debiti e come essa serbasse a suo pro la differenza fra il 4 per cento che pagava ai suoi creditori ed il 5 per cento su cui era stato calcolato il prezzo d’acquisto delle gabelle. Poteva bensì il Principe, quando il lucro della città sembrava divenuto troppo elevato, intimare il riscatto delle gabelle, come s’era fatto nel 1699 per la gabella dei macelli (cfr. sopra pag. 196); ma poiché il Principe avrebbe dovuto riscattare tutta la gabella alienata e le somme a ciòoccorrenti non erano piccole, così la città, che di fronte ai suoi creditori faceva invece le conversioni alla spicciolata, riusciva sovente ad assicurarsi, per un periodo più o meno lungo di anni, un lucro da questo servizio di debito pubblico che essa compieva per conto del Principe.
109. – Il Principe preferì convertire innanzitutto i debiti direttamente da lui contratti, anche perché gli recavano un onere del 6%, maggiore del tasso del 5% su cui era stato calcolato il prezzo della maggior parte delle gabelle vendute alla città. Fosse il più alto tasso iniziale, fosse il minor credito che egli godeva in confronto alla città, fosse la importanza maggiore dei debiti, non riuscì prima della pace al Principe di ridurre il tasso da lui pagato sui debiti perpetui a meno del 5 per cento. Alle conversioni si dette principio col regio biglietto indirizzato alla camera dei Conti dalla Veneria Reale il 7 novembre del 1709: “Sendo state fatte propositioni alli nostri patrimoniali da alcuni particolari, quali si sono offerti di somministrar il denaro necessario per il riscatto d’alcuni de tassi alienati pendente la corrente guerra et in seguito a nostri editti a 6 per cento e di riceverli et acquistarli da noi a 5, così abbiamo quelle accettato, come pure l’altre che in avvenire venissero fatte come vantaggiose al servizio nostro. Che perciò v’ordiniamo che per l’instanze che vi verranno date dalli nostri patrimoniali generali abbiate a procedere al riscatto de sudetti tassi col danaro che verrà esposto dalli suddetti particolari, volendo che questi subentrino in tutti li privileggi, prerogative et esenzioni portate da detti editti per la concorrente quantità del denaro che sborsaranno e dell’annuo reddito che acquistaranno, dovendone a tal effetto li medemi patrimoniali farne a nome nostro l’alienatione alli particolari sudetti alla ragione sovra espressa di 5% dell’annuo reddito, con facoltà alli sudetti acquisitori d’elegere nel tempo di detto contratto quelle città o comunità che meglio le parerà”[15].
Le operazioni cominciarono subito e colla fine del 1711 si potevano dire chiuse coll’accettazione del nuovo tasso d’interesse del 5% da pressoché tutti gli alienatari, ad eccezione di alcuni pochi che avevano preferito il rimborso del capitale e furono subito sostituiti da altri capitalisti, ben lieti di impiegare i loro denari al 5 per cento[16]. Il beneficio ottenuto si può valutare a L. 22.871.12 all’anno, che era l’1 per cento del capitale di L. 2.287.164.13.7 ottenuto colle alienazioni fatte al 6% sul tasso durante la guerra[17].
Incoraggiato dal felice esito della conversione dei tassi, Vittorio Amedeo II delibera di volgere le sue cure a diminuire il gravame dei monti di San Giovanni Battista, e naturalmente il suo pensiero si volge ai luoghi della ottava erezione, i quali rendevano ai loro sottoscrittori il 10 per cento durante la vita del primo acquisitore, ed il 4 per cento agli eredi ed aventi causa dopo la sua morte, ovvero l’8 per cento in vita e il 5 per cento dopo morte. Nel bilancio del 1711 l’onere di questa erezione su 500 mila lire di capitale era di L. 1696 per interessi al 4 per cento su 141 1/3 luoghi, di L. 6972 per interessi all’8 per cento su 290 1/2 luoghi, L. 37.045 per interessi al 10 per cento su 1234 5/6 luoghi, e L. 750 di spese d’amministrazione, e così in tutto L. 46.463 (cfr. sopra pag. 200). La spesa, per quanto a poco a poco riducibile colla morte dei primi acquisitori, era soverchia, ragguagliandosi in quell’anno al 9.29 per cento del capitale; sicché parve buon consiglio cominciare da questa erezione a ridurre gli interessi, indirizzando da Torino, il 5 aprile del 1711, il seguente regio biglietto alla Camera dei Conti: “L’esempio del riscatto de tassi seguito a favore delle nostre finanze col denaro di quelle persone che ne hanno fatto l’accompra a minor provento di quello erano stati alienati, ci muove con ragione ad accettare le offerte di chi parimenti s’esibisce d’accomprare sul piede di 5 per cento quei luoghi de Monti alienati a maggior provento e sendovi fra questi quelli che con mistura assieme di vitalizio e perpetuo sono stati alienati nell’ottava erettione, parte col vitalizio di 10 e perpetuo di 4 e parte col vitalizio di 8 e perpetuo di 5, abbiamo determinato di devenire sin d’ora al riscatto di tutti li sudetti luoghi di detta ottava erettione eziandio col denaro delle nostre finanze per tutto ciò che vi mancasse di quello de’ sudetti oblatori per compire all’intiero del capitale di essi, volendo però che i montisti, i quali invece del riscatto elegeranno fra giorni 15 doppo la publicatione dell’intramentionato manifesto di ridurre i sudetti luoghi al loro reddito annuo perpetuo di 5 per cento con departirsi dal vitalizio, debbano esser preferti con questa loro ritrattazione ad ogni altro concorrente. Voi perciò farete sapere a questa nostra Città i sudetti nostri sensi acciò si pubblichi il manifesto necessario per notificare ai montisti il sudetto riscatto, salvo eleghino la sudetta riduzione e ritrattazione fra il termine sovra espresso con monitione a’ medesimi montisti, in difetto di tal retrattazione, di presentarsi alla tesoreria di essa Città l’indomani di detto giorno 15esimo per ricevere li loro capitali”[18]. Il sindico conte Sansoz presenta il biglietto regio alla congregazione della città di Torino nella seduta del 17 aprile; ed il giorno stesso si pubblica il manifesto – nel quale da notarsi soltanto il prolungamento a giorni 30 del termine per la dichiarazione per i montisti abitanti fuori degli Stati di S. A. R. -ai montisti della ottava erezione, che era già stato dal sindico redatto d’accordo colla Camera dei Conti[19]. Il denaro doveva essere divenuto abbondante per modo che, quantunque il rinunciare al reddito vitalizio del 10 per cento dovesse sapere di forte agrume ai montisti, tutti si acquetano alla riduzione dell’interesse al 5 per cento e nessuno chiede il rimborso del capitale.
Senza por tempo in mezzo, il Principe si decide a por mano alla conversione delle erezioni quinta, sesta, settima, nona e decima, che erano state costituite al 6 per cento per un capitale complessivo di L. 2.375.000. Era la conversione più grossa finallora tentata, e si distingueva da quella dei tassi perciò che il riscatto non si intimava agli alienatari ad uno ad uno, ma a tutti insieme i montisti, lasciando loro tempo appena 15 giorni per decidersi. È opportuno riprodurre il regio biglietto indirizzato dalla Veneria il 22 maggio 1711 alla città di Torino, nel quale si ordinava la conversione e se ne spiegavano le maniere: “Come li Monti dell’ottava erezione ch’erano misti di vitalizio e fisso sono stati tutti spontaneamente riddotti alli 5% di fisso, senza che si sia devenuto al riscatto d’alcuno d’essi et in conseguenza non si ha fatto luogo a quei particolari ch’intendevano farne acquisto sul medesimo piede delli 5%, quali continuano tuttavia ad offerirci d’acquistarne altri a simil provento, il che ci muove a dirvi di dar le vostre dispositioni per notiziare li Montisti della 5, 6, 7, 9 e 10 erettione seguite sul piè di 6% esser nostra intentione di devenire al riscatto d’essi per allienarli a 5, salvo che fra giorni 15 doppo l’inthimaziono si disponessero a retrattarli e riddurli alli detti 6%; in qual caso vogliamo che, pendente tal termine, venghino prefferti”. Il conte Groppello era incaricato “di far pontualmente provedere tutto il denaro” necessario per rimborsare i capitali richiesti dai montisti[20]. Nello stesso giorno Vittorio Amedeo scriveva dalla Veneria un altro regio biglietto del medesimo tenore alla città di Cuneo perché intimasse il riscatto a quei montisti del Beato Angelo che non si contentassero dell’interesse ridotto del 5 per cento[21]. Per spiegare come tutte queste conversioni riuscissero splendidamente, bisogna rammentare che in quel torno di tempo la città di Torino riduceva i suoi debiti dal 5 al 4 per cento di interesse (cfr. sopra, 108), sicché agli alienatari e montisti pareva gran ventura poter ricevere ancora il 5 per cento dall’erario regio. Non fu piccolo il vantaggio avuto dalle finanze a causa delle conversioni: di L. 6250 sulla quinta erezione, di L. 4000 sulla sesta, di L. 4500 sulla settima, di L. 21.137 sulla ottava, di L. 4000 sulla nona e di L. 5000 sulla decima dei monti fissi di San Giovanni Battista, oltre a L. 2500 sui monti del Beato Angelo di Cuneo; in tutto L. 47.387 di risparmio annuo.
E maggior guadagno meditavasi di ottenere con altre acconce conversioni. Nel 1712 si calcolava di ridurre i monti fissi dalla quarta alla decima erezione di San Giovanni Battista di Torino e quelli di Cuneo dal 5 al 4 per cento, con un guadagno annuo di L. 35.383; più ancora si divisava di riscattare le gabelle ed i censi alienati alla città di Torino, togliendo a questa il lucro che essa s’era assicurata con le precedenti conversioni fatte alla spicciolata in confronto ai propri alienatari (cfr. par. 108 in fine). L’alienazione dei macelli era già stata ridotta al 4 per cento nel 1699; ma sulla base di un reddito annuo di L. 82.260.8, mentre invece il reddito medio netto, depurato da spese, degli ultimi dieci anni era di L. 106.802. Il fisco poteva riscattare la gabella pagando il capitale corrispondente a L. 82.260.8, quando la città di Torino non avesse creduto più spediente di pagare altre L. 615.540 per assicurarsi la continuazione del possesso della gabella. Anche sulla terza erezione dei monti fissi, che era stata conteggiata al 5 per cento, poteva il fisco risparmiare L. 4885.10 all’anno, riducendo l’interesse al 4 per cento, ovvero pretendere dalla città un altro capitale di L. 122.137. Riducendo l’interesse sulle L. 635.500 di censi alienati alla città di Torino, si avrebbe avuto o un guadagno di L. 6355 l’anno, ovvero un maggior capitale di L. 158.875 qualora la città avesse preferito di conservare intatto il suo reddito. Persino ai vecchi Monti di Fede s’era volto lo sguardo, reputandosi che la spesa di L. 52.867.16 su un capitale di L. 1.142.309.5.6 fosse eccessiva; e meditavasi ridurli tutti al 4 per cento[22]. Ma il vasto e fruttuoso disegno non fu potuto attuare prima della fine della guerra; poiché forse difettavano le riserve necessarie a persuadere montisti e città di Torino della inevitabilità di piegarsi alla nuova riduzione dell’interesse al 4 per cento, e si era preferito di impiegare gli avanzi di bilancio nella diminuzione dei debiti temporanei, di gran lunga più onerosi al fisco (cfr. par. 106). Il disegno fu ripreso con tela più vasta e con risultati più larghi dopo la pace, quando già l’animo del Principe volgevasi all’impresa memoranda e discussa della indemaniazione dei redditi fiscali abusivamente alienati ai privati, della quale si dirà nel prosieguo di questa raccolta.
110. – Per allora, nella letizia della riacquistata pace e della ottenuta corona di Re, si intese, più che a scemare gli oneri del Principe, a togliere i tributi straordinari che dall’inizio della guerra riducevano allo stremo i popoli. Non che il Principe avesse aspettato sin allora a persuadersi della gravezza dei sacrifici imposti al Piemonte; poiché solo la dura necessità l’aveva costretto ad imporre prima tributi di guerra, a crescerli dappoi ed a mantenerli sino alla pace. Vi fu un momento anzi, nel quale s’era pensato se non avrebbe forse giovato meglio a combattere la guerra contro lo straniero il togliere persino i tributi ordinari, per quelle comunità e quei sudditi che avessero dato qualche prova di valore singolarissimo. Del qual proposito interessante testimonio una minuta d’editto che leggesi nei pubblici archivi sotto la data dell’11 novembre 1703. Erano passate poche settimane dalla dichiarazione della guerra con la Francia, e ad eccitar lo zelo dei Piemontesi si divisava di abolire il tributo della macina che si era imposto con editto del 15 aprile 1701 quando Savoia era alleata coi Gallispani contro l’impero. “Come non vanno mai disgiunte dal zelo dei sudditi le grazie e munificenze del Prencipe, mentre da questi nelle presenti congiunture speriamo tutta quella magior attenzione che la loro fedeltà verso di noi e proprio loro interesse richiede acciocché sendo necessitati abbandonare per maggior parte li loro traffichi et affari ne ricevino da noi in riscontro qualche sollievo, havemo stimato, oltre quella remunerazione che particolarmente devono sperare tutti quelli che con marche più distinte si segnalassero fra gli altri in quest’occasione che l’inimico minaccia l’invasione de Stati, abbollire presentemente il dritto e gabella della macina ma ancora concedere l’esentione de tributi a noi dovuti a quelle comunità et etiandio a quei particolari che con prontezza e vigore impugnaranno le armi per opporsi et abbattere quelle del nemico”. Questa la motivazione del progettato editto; alla quale seguiva il dispositivo coll’ordine della totale abolizione dell’invisa macina. Giova ricordare del dispositivo solo le norme con le quali si voleva regolare la promessa temporanea esenzione dai tributi ordinari: “Per dar animo a tutte le città e comunità de’ Stati nostri d’agire con tutto quel vigore e forza che l’urgenza presente e la loro fedeltà ci promette habbiamo accordato come accordiamo la gratia e liberatione delle debiture ducali e militari a quelle d’esse, che uniendo almeno li due terzi delli uomini atti al porto dell’armi del loro luogo e finaggio si distingueranno in resister non solo, ma offender a viva forza gl’inimici, di qual gratia et esentione principiaranno godere dal giorno che sarà seguito il fatto e continuarà detta gratia et esentione pendente la guerra e per tre anni doppo quella terminata, persuasi che mentre gioiranno di simil gratia continuaranno a darci marca del loro zelo con seguitare a respinger et offender in ogni occorrenza il nemico. E perché vi possono essere comunità o luoghi che, o per mancanza di huomini o per diffetto d’armi, non potessero unirsi per l’effetto sudetto e che per altro in esse vi fossero particolari, la di cui habilità e zelo gl’invitasse anco a distinguersi in quest’occasione, volendo noi che parimenti questi sentino gli effetti della sudetta gratia, accordiamo a caduno d’essi particolari, che si distingueranno con qualche attione vigorosa, in servitio delle nostre armi et offesa del nemico, la stessa gratia de carichi e tributi ducali e militari per l’ammontare del loro registro et ciò per il tempo sovra espresso”.
Il progetto d’editto, tuttoché prodotto da animo generoso verso i sudditi, minacciati da grossa guerra, e dal desiderio di stimolarli a strenue imprese a vantaggio della patria, non trovò buona accoglienza presso tutti i ministri. Di uno di essi, che pure dapprincipio s’era dimostrato propenso alle divisate larghezze, si conservano alcune “riflessioni” sull’editto che è bene qui trascrivere: “Primo che non si dà esempio che nel principio di una guerra si devenghi ad una diminutione d’imposti, mentre il solito anzi è daugumentarli in simili casi, per poter supplire alle spese indispensabili; e così produrrebbe un mal effetto il diminuire presentemente e poi esser fra poco astretti di devenire a nuove imposizioni. Che nemeno possi produr buon effetto tanto nell’animo de’ sudditi, quanto de nemici l’esser il Sovrano obligato, per mover i primi a fare quanto per dovere sono tenuti, di liberarli da quei tributi cotanto necessari in queste circostanze, il che può far concepire agli uni et agl’altri idee poco vantaggiose. Che non si conseguirà il fine preposto, sia per la mancanza d’uomini per esser li più abili al maneggio delle armi levati per le milizie, altri non si risolvono d’abbandonare loro fameglie ed altri che non hanno dispositione di fare alcuna intrapresa. Quinto poi che si deve supporre mancanti le armi nelle provincie, mentre s’è veduto non essersene ritrovate in esse da poter armare li regimenti delle milizie levati. Che quantonque l’assicurazione della grazia di qual nell’ordine possa muover alcuni ad agire, nulladimeno produrrebbe ben poco effetto; e per altro le loro pretensioni per il conseguimento d’essa ponno ascender a sommo considerabili, quali uniendosi a quelle che o per l’occupazione o invasione de nemici non si potranno conseguire, lascian luogo di temere d’un forte mancamento de fondi”[23]. I prudenti consigli furono seguiti; né era possibile che il Principe consentisse a rinunciare ai consueti tributi quando maggior facevasi il bisogno di denari e quando invece certissima si annunciava la necessità di imporre nuove e forti gravezze straordinarie.
Ma il pensiero d’abolire le invise imposte straordinarie non era deposto; e appena dopo la sottoscrizione dei trattati di Utrecht e la certezza della pace finalmente riacquistati, Vittorio Amedeo II pubblicava il 31 luglio 1713 un editto di indulto generale, che già parecchie volte ricordammo, e che importa integralmente riportare nella parte che tocca i tributi aboliti o riformati.
“Nell’obbligo strettissimo in cui siamo, di rendere umilissime ed incessanti grazie a sua Divina Maestà, non solamente per averci dato la pace sì lungamente sospirata, ma ancora per essersi degnata di protegerci in tanti riscontri dell’or scorsa guerra, con assistenza singolare di quella mano onnipotente, da cui sola dipende la sorte de’ Prencipi, e la conservazione de’ Stati; conviene che alla nostra riconoscenza s’uniscano gli effetti de’ nostri sudditi per celebrare con ogni maggiore pienezza le lodi dovute all’Altissimo. E perché la pubblica allegrezza, che nasce dalla pace sempre più dispone gli animi a ringraziare con fervore la divina beneficenza, quando viene eccitata ed accresciuta dagli atti della clemenza, dell’alleggiamento de’ pesi, e dell’estirpamento degl’abusi; abbiamo perciò stimato opportuno d’esercitarli in questa sì felice congiontura, preferendo l’utilità de’ sudditi a quella delle nostre finanze, o dimostrando generalmente a tutti i nostri popoli, quanto abbiamo concepito d’aggradimento per gl’esempi gloriosi, che quelli lasciano a’ posteri, del loro zelo, valore e virtù militari praticate nelle azioni, o pericoli della scorsa guerra o per la fede e costanza, colla quale hanno sostenuto i pesi indispensabilmente necessarii alla difesa de’ nostri Stati. Che però di nostra certa scienza, piena possanza, ed autorità assoluta e col parere del nostro Consiglio, abbiamo stabilito, ordinato e comandato, come in virtù del presente pubblico Editto stabiliamo, ordiniamo e comandiamo quanto segue” (Seguono i numeri dal 1° al 7° del dispositivo d’indulto per i delinquenti, con varie esclusioni e dichiarazioni).
“8. E Perché in quest’occasione non vogliamo contenere la nostra beneficenza nella sola gratia a favore de’ delinquenti, ma intendiamo estenderla al sollievo universale dello Stato con la soppressione de’ carichi infrascritti; perciò cominciando dal quartiere d’inverno[24], e dall’accrescimento del comparto del grano[25], che sono carichi straordinarii imposti in ogni anno della guerra hora terminata, cioè l’accrescimento del comparto del grano nel Piemonte, et il quartier d’inverno nel Piemonte e nel Monferrato: vogliamo, che li detti nostri Stati siano rispettivamente liberati dalla continuazione di detti carichi e suppressa, come noi ne aboliamo, ogni impositione in avvenire.
9. Vogliamo inoltre che cessi dal giorno della Pubblicazione di questa pace in avvenire l’esazione del dritto di macina da noi imposto per l’Editto del 15 aprile 1701[26], e che s’abbia per abolito e suppresso detto imposto, come noi l’aboliamo e supprimiamo, in maniera che i grani e marsaschi che indi si macineranno ne nostri Stati, non siano più soggetti al pagamento d’esso, e resti pure annullata ogn’altra obbligazione portata dal dotto Editto, quale dichiariamo non dover avere più alcun effetto dal giorno suddetto della Pubblicazione della pace in avvenire, salvo per quelle cose che riguarderanno il tempo d’indi a dietro passato.
10. Mentre stiamo meditando e disponendo un regolamento allo nostre gabelle tanto nel Piemonte, che nei paesi di nuovo acquisto, a fine di rendere più abbondante il commercio[27], abbiamo intanto deliberato di supprimere, come supprimiamo, il dacito di Trino[28], in maniera che non si esiga più nell’avvenire.
11. Desiderosi di accorrere al sollievo di alcune comunità, che nei libri del nostro Tesoriere generale sono ancora poste in debito di varie somme di reliquati per gli anni scorsi, abbiamo fatto prendere le opportune notizie dai Delegati mandati a spese delle nostre finanze alle città o comunità delle dodeci provincie del Piemonte; quindi ad effetto d’approvare non solo le grazie ma anco tutte le sospensioni sin qui fatte, et accordare ad alcune di esse comunità la liberazione graziosa di qualche parte di detti loro reliquati, ne abbiamo in tale conformità trasmesso alla Camera nostra de’ Conti un stato da noi firmato, affinché le comunità dopo aver avuto questa pubblica notizia; che loro ne porgiamo, possino rapportare dalla detta Camera le provvisioni, che abbiamo ordinato doversi spedire caduna d’esso a tenore del suddetto stato trasmesso, con quali potranno ritirar le quitanze dai contabili, in conto delle respettive debiture[29].
12. In seguito alle suddette suppressioni e liberazioni, portiamo ancora la nostra benefica attenzione in sollievo dei paesi di nuovo acquisto smembrati dallo Stato di Milano, affinché questi pure partecipino dei vantaggi della pace; e perciò abbiamo suppresso e supprimiamo l’imposto della diaria, che a tenore del stabilimento fattosi nel suddetto Stato di Milano li 11 ottobre 1707, si è continuato annualmente sinora in detti paesi, che ne sono stati come sopra smembrati, volendo che cessi d’or in avvenire tale imposizione nella città e contado d’Alessandria, provincia Lumellina e sue congregazioni, Valenza colle terre tra il Po e il Tanaro, e terre separate; ma poiché ci resta indispensabile di ricevere da quei paesi qualche sussidio per supplire alle spese militari, abbiamo imposto et imponiamo per modo di provvisione, e sia che altrimenti venga da noi ordinato, sopra li suddetti paesi a titolo d’ajuto militare, soldi uno e denari quattro moneta di Milano al giorno per caduno scudo di quota, a qual restano caricate le città, corpi e congregazioni e comunità sopra nominate, da cominciare rispetto a quest’anno, dal giorno della pubblicazione di questa pace, in cui vogliamo che cessi l’imposizione di detta diaria, da pagarsi in avvenire di mese in mese, e cinque giorni dopo spirato ogn’uno d’essi, in mani e con quitanza del Ricevidore nostro deputato in Alessandria presente e successori[30].
13. E finalmente ad effetto d’invitare sempre più a beneficio dei nostri Stati la tanto necessaria protezione della Divina clemenza, abbiamo risolto di togliere i giuochi del seminario ed altri, che per esperienza si sono riconosciuti perniciosi al pubblico bene, et aver dato fomento a molti abusi opposti alli buoni costumi; e perciò prohibiamo in primo luogo il giuoco detto del seminario[31], che da qualche anni in qua è stato tollerato in questi nostri Stati, e di cui si facevano in questa città due volte l’anno le estrazioni; volendo che il detto giuoco ed estrazioni siano d’or avanti suppresse ed abolite come noi le supprimiamo et aboliamo; ed in oltre per li medesimi motivi e fini prohibiamo a chi si sia de’ nostri Stati tanto di qua che di là da monti e colli, compresi il Monferrato, città e contado d’Alessandria, e provincia Lumellina, Valenza, colle terre tra il Po e Tanaro, terre separate, e Valle di Sesia, di poter ricever denari sopra le estrazioni, che si fanno per simile giuoco, tanto in Milano che in Genova, e tutto ciò sotto pena di scudi cento d’oro per caduno in caso di contravvenzione, applicandi per la metà al fisco nostro, e per l’altra metà al denonciante, il quale sarà tenuto segreto, oltre ad altra maggiore arbitraria, et etiandio corporale in riguardo de’ recidivi, secondo le circostanze de’ casi; ed in conformità di tali prohibitioni, vogliamo pure che resti prohibito, come prohibiamo a chi si sia di giuocare, né di far giuocare sotto finto nome ad alcuna di dette estrazioni, che potrebbero farsi in avvenire nelle suddette città di Milano e Genova, et in qualunque altra parte, sotto pena di scudi vinticinque d’oro applicandi come sopra per caduno, e per ogni volta, che si scoprirà si sia giuocato o fatto giuocare come sopra. E similmente sotto le medesime pene da incorrersi rispettivamente da quelli, che terranno li giuochi infrascritti, e che vi giuocaranno, o vi faranno giuocare, prohibiamo in detti nostri Stati i giuochi del biribisso, virotta et altri simili[32], cassando e rivocando a quest’effetto ogni tolleranza, permissione e convenzione sin ora seguite con gl’appaltatori di detti giuochi, e con qualsivoglia, che pretenda o pretender possa ragione di tenerli ne’ nostri Stati, per essere tale l’esigenza della pubblica utilità. Mandiamo pertanto a tutti li Magistrati, Ufficiali, et a chiunque spetti, di così osservare e far osservare, et alli Senati nostri, Camera dei conti, Conseglio Superiore di Pinerolo, d’interinar il presente secondo sua forma, mente e tenore; dichiarando che alla copia stampata dal stampator nostro Valetta si debba prestare tanta fede, come al proprio originale, che tal è nostra mente[33]“.
Nel preambolo di quest’editto d’indulto, il Principe dichiara di aver abolito i tributi straordinari di guerra per invitare i sudditi a “celebrare con ogni maggior pienezza le lodi dovute all’Altissimo”, e per dimostrare ai suoi popoli quanto egli avesse “concepito d’aggradimento per gl’esempi gloriosi, che quelli lasciano a’ posteri, del loro zelo, valore e virtù militari praticate nelle azioni e pericoli della scorsa guerra e per la fede e costanza, colla quale hanno sostenuto i pesi indispensabilmente necessari alla difesa de’ [suoi] Stati”. Mentre così rendeva omaggio ai dettami della carità cristiana e soddisfaceva al suoi sentimenti di affetto verso i sudditi, il nuovo Re obbediva a consuetudini tributarie vivacissime tuttora al principio del secolo XVIII. Altra volta osservammo già (cfr. par. 32, pag. 119) che la potestà del Principe di imporre tributi non era per veruna guisa assoluta, e che limiti non scritti nelle costituzioni, ma saldamente vivaci nelle consuetudini, frapponevano ostacoli insormontabili al disfrenarsi della tassazione. Aggiungiamo qui che, secondo consuetudine antica, appena proclamata la pace, dovevano essere aboliti quei tributi che la necessità della guerra aveva consigliato di imporre. Chi legge le carte piemontesi del tempo, è tratto a formulare per questo rispetto un’ipotesi, che vagliata alla luce di più ampia messe di fatti, potrebbe diventare forse una regola generale di interpretazione. E l’ipotesi dice: essersi a poco a poco stabilita una separazione tra il demanio del Principe e la fortuna privata; abbracciare il demanio del Principe non soltanto le cose sue mobili ed immobili, ma altresì le gabelle, i diritti ed i tributi ordinari; ed esigere egli questi tributi, diritti e gabelle non a titolo di gravami imposti sui sudditi, ma di redditi di una sua proprietà demaniale. In tempo di guerra, ed in nessun altro caso, allargarsi temporaneamente questa proprietà demaniale ad alcuni tributi straordinari che già altre volte si erano imposti e che la consuetudine aveva sancito. Da questo concetto della demanialità dei tributi discende che i sudditi non aveano ragione di chiedere mai condoni di tributi ordinari, neanche se il Principe godesse di larghi avanzi di bilancio e potesse accumulare tesori cospicui; nello stesso modo che il debitore non può chiedere una riduzione di interessi soltanto per ciò che il ricco creditore non ha bisogno di quegli interessi per vivere. Gabelle e tributi erano una proprietà che il Principe poteva vendere, ipotecare e che egli in effetto vendeva ed ipotecava ed infeudava, e che quindi non poteva essere mai rivendicata dai sudditi, della cui fortuna privata gabelle e tributi non facevano parte da secoli. Ma dal medesimo concetto della demanialità discende che il Principe “possedeva” i tributi straordinari soltanto fino al giorno in cui durava la causa per cui il loro ammontare era passato dal patrimonio dei sudditi al suo demanio; e poiché soltanto la guerra poteva operare questo effetto, colla pace i tributi doveano essere aboliti e far ritorno ai sudditi. Poteva ben darsi che il Principe si trovasse tuttora in strettezze non lievi ed urgesse il pagamento di grossi debiti contratti per causa della guerra; ma, poiché questa era cessata, il Principe doveva pagare i suoi debiti con i redditi del demanio di pace e non con quelli ricavati da un demanio non più esistente. L’agire diversamente sarebbe parso contrario ai dettami della ragion tributaria vigente ed avrebbe offesa la coscienza giuridica dei popoli. Non passerà gran tempo che il figlio del nuovo Re, forte dei lunghi anni di assoluto incontrastato potere goduto dal padre suo e da lui, farà durare i tributi straordinari dopo la pace, sino al pagamento dei più gravi debiti di guerra. Per ora, l’ipotesi esposta sembra atta a spiegare la sollecitudine con la quale si interrompeva l’iniziata opera di conversione dei debiti e si cresceva ai popoli il giubilo della pace riacquistata col vantaggio dei tributi straordinari aboliti.
Non tutti i tributi venivano tuttavia aboliti, e per altri la soppressione tardava. Così non fu abolita la gabella del tabacco, imposta con editto del 22 aprile 1702 nel Contado di Nizza e nel Principato d’Oneglia (cfr. par. 41, pag. 149); e fu conservata sino al 1716 la capitazione in Savoia (cfr. par. 49, pag. 147). Ma riesce agevole spiegare queste apparenti infrazioni alla regola; poiché, non potendo la gabella del tabacco, esatta fin dal 1651 a favore della città di Nizza, dirsi in verità una nuova imposizione, la guerra aveva porto soltanto al Principe la desiderata occasione di rivendicare una Parte del suo demanio e di estendere al Nizzardo e ad Oneglia una gabella su una cosa voluttuaria e non necessaria che negli altri paesi dello Stato da tempo egli pacificamente riscuoteva (cfr. pag. 148/50). Si volle poi continuare in Savoia ad esigere la capitazione sino al 1716, quasi a compensare in piccola parte il Principe della perdita dei tributi straordinari sofferta durante gli anni dell’occupazione nemica; ed anzi, parendo tal compenso fin troppo esiguo, si invitarono le città della Savoia a votare un donativo in ringraziamento della riacquistata signoria dei Principi nazionali (cfr. pag. 147).
Quanto profondo fosse l’impero della consuetudine e di quella che oggi dicesi pubblica opinione, dimostrato ancora dall’abolizione del giuoco del lotto e dall’estensione dell’indulto del 31 luglio 1713 alle provincie di nuovo acquisto. Il reddito del gioco del seminario, istituito nuovamente nel 1699, non poteva dirsi un tributo di guerra e neppure era reputato un tributo, come quello che consisteva in un canone pagato dall’appaltatore dell’impresa. Non parve dicevole, quando si rendevano “umilissime ed incessanti grazie” a Dio per la ridonata pace ed i cresciuti dominii, conservare un gioco riprovato dagli insegnamenti divini e dai consigli della pubblica morale. Fu saggio consiglio del pari abolire nel Monferrato il quartier d’inverno e mutare nell’Alessandrino e Lumellina la vecchia diaria nel più mite aiuto militare; poiché in siffatta maniera si obbediva alla regola di non innovare alcunché nei vecchi stili locali che anch’essi distinguevano fra tributi ordinari e straordinari e si coglieva il destro per rendere bene affetti alla nuova signoria popoli per tradizioni ed interessi legati alla capitale lombarda. Si iniziava così, con un atto di clemenza tributaria, quell’opera di affratellamento e di fusione tra i popoli del vecchio Piemonte e delle nuove provincie, che doveva portare suoi frutti più di un secolo dopo, quando il più ampio Piemonte divenne lo Stato più vigoroso e compatto che esistesse in Italia e poté essere strumento fortissimo di lotta nelle mani degli apostoli e degli statisti che fecero l’unità nazionale.
[1]Vedi in A. S. F. II a. Capo 57, n. 664. Lettere diverse, anni 1712 e 1713, una copia dell’editto a stampa del Re di Francia del 15 dicembre 1713 sulla riduzione delle rendite ed una lettera accompagnatoria del 18 dicembre da Parigi nella quale l’informatore Garbilliau parla della mala accoglienza fatta dai parigini all’editto. “Tout Paris se recrie contre et parle d’une baute voix qui ne lui est pas ordinaire”. Ma furono parole, presto soffocate dal timore di peggio.
[2]Luigi Einaudi, Studi di economia e di finanza, Torino, 1907, pag. 127.
[3]A. S. C. Sessioni, vol. 1700 in 1702, sotto la data del 20 dicembre 1702.
[4]A. S. I. F. II a. Capo 58, n. 3, Registro generale finanze di Discarichi, Patenti, ecc. ecc., dal 31 gennaio 1701 sino l’8 marzo 1709, sotto il 25 dicembre 1702. Il tentativo non deve essere in tutto riuscito, forse perché si opponevano tenacissimi privilegi ed anche perché non si poterono indennizzare dalla finanza compiutamente gli interessati. Cfr. le Regie Costituzioni del 1723, lib. IV, tit. XXXI, art. 23, in D. VIII. 394.
[5]Il quadro fu compilato da G. Prato, Il costo della guerra, ecc., pag. 368 e segg., sui dati contenuti in A. S. F. II a. Capo 43, n. 6. Registro debiti prima e dopo la guerra.
[6]A. S. M. E. Donativi e feudi, M. IV, n. 13 sotto: Retrattazioni de redditi de tassi alienati. Il guadagno calcolato dall’ufficio risulta un po’ minore della differenza fra il tasso del 6 e quello del 5% che sarebbe di L. 8.567.27.8. Il divario può essere cagionato dal conteggio delle frazioni di lira.
[7]A. S. C. Sessioni camerali, vol. 1702 in 1703, sotto il 6 dicembre 1702.
[8]A. S. C. Sessioni camerali, vol. 1703 in 1705, sotto li 15 marzo e li 13 settembre 1704.
[9]A. C. T. Ordinati. Anno 1707, vol. 237, pag. 34. Congregazione del 2 marzo 1707.
[10]A. C. T. Ordinati. Anno 1709, vol. 239, pag. 115. Consiglio del 29 settembre 1709.
[11]È la prestanza di 500 mila lire fatta dalla città di Torino sulla garanzia delle due gabelle dette “piccole” delli soldi 2 per emina di grano e delli denari 2 per libbra di carne, di cui largamente si discorse sopra nel par. 54, a pag. 186 e segg. Siccome le 500 mila lire erano dalla città pagate senza diritto di restituzione, doveva essa ammortizzarle entro il periodo di 14 anni, per cui le era stato concesso il godimento delle due gabelle piccole. Cfr. nota (2) a pag. 194.
[12]Che la città aveva comperato in virtù delle patenti del 14 marzo 1704 (cfr. par. 56 pag. 202 e 203), accollandosi il servizio degli interessi ai vecchi alienatari. La città, rimborsando il capitale dovuto qualcuno di questi alienatari, veniva a godere essa il reddito corrispondente.
[13]A. C. T. Ordinati. Anno 1710, vol. 240, p. 177. Consiglio del 31 dicembre 1710.
[14]A. C. T. Ordinati. Anno 1711, vol. 241, p. 86. Consiglio del 31 dicembre 1712.
[15]A. S. C. Inv. gen. Art. 692, par. 1, Biglietti regi, 1700 in 1709, pag. 167.
[16]Cfr. in A. S. C. i conti di tesoreria generale del 1710 (credito, dal n. 359 al n. 861 interpolatamente) e del 1711 (credito, dal n. 67 al n. 839).
[17]Cfr. sopra pag. 236. Che quella all’incirca fosse la somma risparmiata, risulta dal confronto tra le somme riportate a pag. 329 del tasso alienato ed infeudato dal 1709 al 1713. Trascurando le variazioni accidentali dovute a maggiori o minori pagamenti eseguiti di fatto in un anno, la diminuzione è da L. 1.070.420.10.9 nel 1709 a L. 1.056.182.5.6 nel 1713.
[18]A. S. F. II a. Capo 58, n. 162. Registro Biglietti S. M., 1708 in 1713, sotto li 5 aprile 1711.
[19]A. C. T. Ordinati, anno 1711, vol. 241, pag. 31. Congregazione del 17 aprile 1711. Il Manifesto si legge integralmente riprodotto in D. XXV. 430.
[20]A. S. F. II a. Capo 58, n. 162. Registro Biglietti S. M., 1708 in 1713, sotto li 22 maggio 1711. Il R. B. si legge anche in A. C. T. Ordinati, anno 1711, vol. 241, pag. 42. Consiglio del 25 maggio 1711.
[21]A. S. F. II a. Capo 58, n. 162. Registro Biglietti S. M., 1708 in 1713, sotto li 22 maggio 1711. Questa erezione dei monti fissi del Beato Angelo di Cuneo ammonta a L. 250.000 in capitale.
[22]Questi calcoli, preparatori alle disegnate conversioni, leggonsi in A. S. F. I a. Alienationi Demanio, M. I, n. 8. Scrutinio sovra diverse alienationi, assegnationi, pensioni e proventi a carico finanze, scrittura che ha la data del 1712.
[23]A. S. M. E. Macina e Comparto, M. I, n. 9 Minuta d’Editto per l’abolizione della Macina, con le riflessioni sovra detta soppressione et esenzione del pagamento de carichi alle comunità e particolari che si distingueranno in occasione della presente guerra (11 novembre 1713). pubblico Editto stabiliamo, ordiniamo e comandiamo quanto segue”. (Seguono i numeri dal primo al settimo del dispositivo dell’indulto per i delinquenti, con varie esclusioni e dichiarazioni).
[24]Imposto con l’ordine del 13 marzo 1704. Cfr. sopra par. 46, 47 e 48, pag. 164 e segg.
[25]Ordinato il 10 giugno 1704. Cfr. sopra par. 45, pag. 162 e segg.
[26]Cfr. sopra par. 43 e 44, pag. 152 e segg.
[27]Cfr. sulla commissione nominata l’8 marzo 1709 per lo studio della riforma daziaria il par. 5, pag. 24 e segg. ed il par. 91, pag. 318.
[28]Cfr. sopra par. 5, pag. 23.
[29]Sull’opera dei delegati cav. Martini e conte Ruschis e sul calcolo dei reliquati da essi formato, cfr. sopra par. 97, pag. 377.
[30]Sulla diaria e sull’aiuto militare che con quest’editto le fu sostituito, cfr. par. 90, pag. 314 e seguenti.
[31]Instituito nuovamente nel 1699, come leggesi nel par. 11, pag. 42 e seguente.
[32]Cfr. sopra par. 11, pag. 42.
[33]L’editto firmato da Vittorio Amedeo, vistato dal gran cancelliere De Gubernatis e dal generale delle finanze Groppello, registrato dal controllore generale Buonfiglio, e sottoscritto dal primo segretario di Stato De San Thomas, fu interinato dal Senato e dalla Camera dei Conti di Piemonte il giorno stesso 31 luglio 1713, e si legge intieramente in D. VIII. 602.