I prestiti pubblici durante la guerra – Parte III: Le alienazioni del tasso
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1908
I prestiti pubblici durante la guerra – Parte III: Le alienazioni del tasso
La finanza sabauda all’aprirsi del sec. XVIII e durante la guerra di successione spagnuola, Officine grafiche della Società tipografico editrice nazionale, Torino 1908, pp. 230-236
66. – Delle alienazioni del tasso abbiamo già parlato ripetutamente e già sappiamo che all’aprirsi del 1700 il tasso alienato ammontava a circa 885 mila lire all’anno, di cui L. 648.145.3.7 si riferivano a vere e proprie alienazioni per un capitale di L. 11.336.014.18.4 (cir. 51) ed il resto erano appannaggi di principi della famiglia regnante. Anche per le alienazioni propriamente dette non si può dire che in passato si fossero fatte sempre per ricavare un capitale nelle necessità supreme dello stato. Se si leggono gli editti e le lettere patenti dei secoli XVI e XVII si vede quanto fosse grande il numero delle alienazioni fatte in compenso di “servizi resi al Principe”, frase generica che poteva coprire favori e concessioni gratuite[1]. L’abuso delle alienazioni gratuite era giunto a tale che nel 1702 si calcolava che ben L. 123.815.18.7 di tasso annuo si fossero alienate senza correspettivo di capitale per “servizi resi, fondazioni, donazioni”, ecc. Vi erano poi tassi alienati ad un interesse molto elevato, superiore al 6 per cento che era l’interesse normale in tempo di guerra, e che tuttavia non si riscattavano, malgrado la facoltà perpetua della redimibilità concessa al demanio, evidentemente per favorire alienatari potenti. Così vi erano 221.125 lire che fruttavano il 6.10 per cento, L. 9186 il 6.05, L. 151.803 il 6.50, L. 7312 il 7, L. 202.000 il 7.50, L. 22.950 l’8 1/11, L. 142.031 l’8 1/3, L. 2541 l’8 2/3, L. 34.687 il 9 1/2 e L. 20.000 il 9 5/8 per cento[2]. A frenare gli abusi, i mastri auditori, senatori e presidenti della Camera dei Conti dovevano, assumendo la loro carica, giurare solennemente di nonacconsentire alle alienazioni che non fossero fatte per cause onerose o fossero ad interesse superiore al 5 per cento ed i patrimoniali dovevano giurare di rifiutarsi persino a dar l’istanza per l’interinazione delle patenti violatrici delle norme stabilite a tutela dell’integrità del demanio. Ma tutte le cautele erano state vane, si può dire sino all’avvento al regno di Vittorio Amedeo II; poiché ogni tanto un biglietto o un editto o una lettera patente di principi deboli e di madame reali ancor più deboli veniva ad esonerare i magistrati dal loro giuramento e ad ordinare l’alienazione gratuita o quasi di qualche somma di tasso. Tantoché nel 1719, quando fervevano i lavori preparatori per la audace e combattuta riforma, che doveva riunire al demanio tutti i beni e redditi regi posseduti da terzi senza titolo valido, si calcolava che le alienazioni nulle ammontassero a lire 180.644.1.9 all’anno e quelle dubbie a L. 117.233.17.5; poco meno della metà delle alienazioni di tasso fatte a privati[3]. Dopo il 1690 gli abusi però erano del tutto scomparsi e le grosse alienazioni che erano seguite durante la guerra del 1690/96, erano state dovute a motivi veramente gravissimi di difesa nazionale. Erano nientemeno L. 4.310.494 che si erano ricavate al 5 od al 6% da questa fonte copiosa di entrate straordinarie; incentivo non piccolo a ricorrere allo stesso mezzo durante la guerra nostra.
Ed invero l’alienazione del tasso presentava vantaggi notevoli per il fisco e per i capitalisti che volevano mutuare denari allo stato. Il fisco, il quale allenava 5009 lire di tasso annualmente pagabile da una comunità, perdeva è vero – in compenso di un capitale di 100.000 lire e fino a che non si fosse servito della facoltà del riscatto, rimborsando il capitale ricevuto a mutuo – questa somma di reddito; ma l’avrebbe perduta egualmente se avesse emesso luoghi di monte per 100 mila lire, obbligandosi a pagare ai montisti 5 mila lire di interesse. Più ancora lo stato veniva a disinteressarsi compiutamente dell’esazione del tasso, risparmiando spese e rischi. Al fisco si surrogava in tutto l’alienatario del tasso il quale doveva agire contro le comunità morose, spesso sopportare falcidie per causa di tempeste o di corrosione; essendo obbligato il fisco soltanto a fornire la mano militare per gli atti esecutivi a quell’alienatario che anticipasse le spese salvo rimborso dalle comunità. Eravi per lo stato l’inconveniente che essendo il tasso alienato riscosso direttamente sul luogo dai creditori, non poteva ritardare il pagamento degli interessi del debito e giovarsi frattanto del fondo intiero del tasso per altre sue occorrenze più urgenti; inconveniente a cui si opponeva il singolar vantaggio che per questa maniera lo stato veniva efficacemente a resistere alla tentazione di ritardi e di fallimenti dannosissimi al suo credito. Le comunità erano alquanto vessate dalla molteplicità degli esattori pubblici e privati a cui dovevano pagare il tasso e dalle spese cresciute in caso di ritardo; ma era d’altra parte forse più agevole venire ad accordi con creditori residenti sul luogo e conoscitori delle necessità e dei bisogni dei contribuenti[4].
Quanto ai capitalisti i vantaggi del tasso erano di due sorta:
a) I capitalisti residenti in provincia, i quali avrebbero trovato discomodo comprar luoghi di monte e riscuoter ogni trimestre gli interessi alla cassa della città di Torino col rischio e le spese dell’invio del denaro contante, più facilmente potevano indursi ad anticipare danari allo Stato, quando potevano farsi pagare gli interessi dalla comunità dove essi risiedevano o da altra vicina. Era un metodo che suppliva alla imperfetta organizzazione degli uffici riscotitori e pagatori in quel tempo ed allargava d’assai la cerchia dei possibili creditori dello Stato. Se i capitalisti viventi nella capitale per ragioni di impiego, di professione, di negozio, ecc., preferivano i luoghi di monte, le alienazioni del tasso erano accessibili ai proprietari di terre, dovunque queste fossero situate, perché dovunque potevasi operare la compensazione col debito d’imposta, ed erano pregiate dai capitalisti abitanti nelle città minori e nelle comunità rurali. Le alienazioni del tasso non si estendevano però fuori del Piemonte, poiché solo su questa parte degli Stati sabaudi l’imposta fondiaria era antica e solidamente assettata e solo il Piemonte pareva sicuro dalle occupazioni prolungate di eserciti nemici. Le taglie di Savoia non si alienavano perché di esazione malsicura e perché dovute da paese soggetto facilmente ad essere conquistato da Francia; in Nizza il donativo da poco tempo (16 gennaio 1702) era stato convertito in tasso perpetuo ed invariabile e vicino incombeva sempre il pericolo della Francia; né i capitalisti avrebbero volontieri anticipato somme sulla garanzia del donativo degli Stati generali del Ducato d’Aosta, che ad ogni sei anni mutava a seconda degli umori dei maggiorenti e della povertà degli abitanti. Cosicché il Piemonte, come rimaneva solo a pagare tributi in tempo di guerra, solo forniva del pari capitali in prestito al Principe nelle circostanze straordinarie. Che se potevano vendersi cariche o feudi, come vedremo, in Savoia e Nizza, non fu possibile mai erigervi monti nés’usava alienarvi taglie o tassi.
b) I proprietari di terreni registrati e soggetti al tasso potevano redimere, grazie a codesta maniera di debito pubblico, l’imposta gravante sul loro fondo. Se infatti un proprietario pagava 500 lire di tasso annuo, poteva, quando si apriva una sottoscrizione sul tasso al 5%, versare alle finanze diecimila lire, ed acquistare così il diritto di farsi pagare dalla sua stessa comunità 500 lire all’anno. Egli in questo modo veniva ad essere nel tempo istesso debitore come proprietario e creditore come alienatario di 500 lire di tasso verso la sua comunità; e il tutto si riduceva quindi ad una partita di giro nei libri esattoriali senza movimento effettivo di denaro.
Praticamente il sistema poteva condurre alla redenzione dei proprietari dall’imposta fondiaria, considerata come un canone fisso, dal quale il proprietario poteva affrancarsi pagando un capitale corrispondente al canone o tasso redento. Ma le differenze con una redenzione vera e propria erano parecchie e tutte favorevoli al metodo dell’alienazione: l’alienazione del tasso non avveniva ad arbitrio del proprietario, ma per motivi di pubblica necessità e dietro invito del Principe; il tasso alienato era sempre riscattabile dalle finanze e queste non correvano il rischio di vedersi sfuggire per sempre la materia imponibile; l’interesse stipulato per l’alienazione poteva essere ridotto col metodo della conversione libera e il proprietario creditore poteva quindi essere costretto, se voleva conservare l’immunitàintiera dal tributo, a versare un supplemento di capitale; e finalmente l’alienazione del tasso non esentava il proprietario/creditore da ogni imposta, ma soltanto da quella del tasso, lasciandolo soggetto al sussidio militare ed ai tributi straordinari di guerra. Insomma l’alienazione del tasso era di molto superiore alle redenzioni o consolidamenti del tributo fondiario attuate o proposte dal Pitt in Inghilterra, dal Gianni in Toscana e dallo Scialoia in Italia. Se noi trascuriamo infatti gli altri scopi del consolidamento dell’imposta fondiaria (istituzione di urna nuova imposta sul reddito), o credito che l’intento di estinguere il debito pubblico era illusorio in quanto se s’aveva minor debito, non s’aveva nemmeno più il reddito del tributo che era destinato al servizio del debito e per giunta lo Stato rinunciava alla possibilità di giovarsi delle future variazioni del tasso dell’interesse per ridurre l’onere del proprio debito. Se il valor capitale del tributo riscattando era superiore al debito da estinguersi, il tesoro correva il rischio di ricevere forti somme in un momento nel quale il bisogno non ne era sentito; facile esca codesta agli sprechi. Forse quest’ultimo pericolo praticamente non esisteva data l’enormità dei debiti pubblici moderni; sempre però rimaneva l’inconveniente che i proprietari allora soltanto avrebbero redento il tributo fondiario quando vi avessero trovato convenienza, ossia quando il tributo riscattato fosse superiore all’interesse corrente del capitale di riscatto; circostanza questa che impedì il compimento del piano del Gianni in Toscana e ritardò assai il consolidamento della landtax in Inghilterra.
67. – Ritornando alle nostre alienazioni del tasso diremo come il primo editto di alienazione si ebbe l’11 giugno 1704 per un mezzo milione di lire. Sono da notare le clausole apposte in questo e nei susseguenti editti: 1) L’allodialità del tasso alienato. Il tasso alienato sarà considerato come “effetto proprio” degli alienatari ed aventi causa da loro in perpetuo, “libero, allodiale e disponibile a loro piacere”; 2) L’immunità da ogni imposta. Ad assicurare gli alienatari contro qualunque pericolo di riduzione degli interessi pattuiti, si stabiliva espressamente che il tasso alienato “non sarà sottoposto ad alcun diffalco per causa di corrusione, tempesta né altro qualsivoglia peso, diminuzione od imposto, sia de soldi 55 che altri di maggior o minor somma tanto pensati che impensati quali venissero a farsi sì in tempo di pace che di guerra e per cause di pubblica o privata utilità o necessità”; 3) La garanzia dell’esazione diretta “a drittura dalle comunità et esattori d’esse con loro [degli acquisitori ed aventi causa] propria quittanza senza passare per la via de’ nostri tesorieri”; 4) La gratuità del contratto d’alienazione che doveva stipularsi davanti al primo presidente della Camera dei Conti o suoi delegati “senza pagamento d’alcun dritto né emolumento, e con tutte le clausole e cautele a totale loro sicurezza”; 5) L’obbligo dello sborso della somma capitale in contanti e non con alcun incontro; il che voleva dire che il tasso poteva essere alienato solo a chi effettivamente sborsasse il capitale in contanti, proibita qualunque alienazione di favore (D. XXII. 1325).
Quest’ultima norma fu osservata sino a quando le tristissime condizioni delle finanze durante l’assedio di Torino non consigliarono di smettere alquanto della prima rigida osservanza della legge. Conviene a questo proposito ricordare che le prime lettere di plenipotenza al Groppello lo autorizzavano a “devenire a qualsiasi contratto d’assignatione, dation in paga od alienazione di qualsivoglia de’… redditi demaniali, ecc.”. (Lettere 15 giugno 1706 in D. XXV. 411). Il Groppello, pressato dalla necessità di far quattrini, chiede il 17 luglio alla Camera dei Conti, se in base alla sua plenipotenza, avrebbe interinato un contratto col quale egli avrebbe venduto 200 mila lire di tassi al 6% a certi eredi del mercante Olivero, che essendo già creditori delle finanze di 150 mila lire si offrivano di sborsare in contanti nella tesoreria 50 mila lire. La Camera, esaminata attentamente la questione, a voti unanimi respinge la domanda, ritenendo che il Groppello non avesse facoltà “di poter dare in paga un sì riguardevole effetto di dote della Corona” ed espone la massima che nessun contratto di alienazione del tasso sia valido “dal quale … non si conseguisca il contante od altro equivalente stimato precisamente necessario a supplire all’urgenze presenti e continuatione d’esse”. Rispetto al contratto cogli eredi Olivero, v’era da riflettere alla circostanza che “in circostanze così ristrette, nelle quali mancano intieramente li redditi della Corona a sostenere le premurose spese correnti di guerra” non era consigliabile “pagare un debito della guerra passata che non ha continuatione d’assistenza alla presente” [il credito Olivero di L. 150 mila], tanto più che preponderebbero “di gran longa le dationi in paga delli tre quarti al quarto di contante si ricaverebbe dalla pretesa alienatione”[5].
La Camera aveva fatto il suo dovere, nell’opporsi ad un’alienazione in cui per ricevere appena 50 mila lire di contante – sola cosa utile durante l’assedio – si vendevano tassi per 200 mila lire. Ma il Groppello, a cui quelle 50 mila lire doveano sembrare tanta manna, scrive al Duca e si fa spedire da Bubiana le nuove lettere di plenipotenza del 29 luglio 1706, le cui vicende già narrammo e nelle quali la sua autorità veniva espressamente estesa sino a “comprender qualsivoglia sorte di contratti e massime di dationi in paga per debiti fatti dalle nostre finanze sì pendente questa guerra che prima d’essa, con quali le medemevenghino a ricever qualche contante in quella quantità che converranno col detto Conte e generale delle nostre finanze, da sborsarsi esso contante nella Tesoreria generale per convertirsi nelle premurose urgenze et anche col sodisfare in tal modo quei partitanti et providenti del fin qui dovutoli, portarli eziandio (ove così le riesca) a continuare le loro provisioni e manutenzioni per quel tempo, che potrà convenire con essi” (D. XXV. 418). La Camera, viste le nuove lettere, avrebbe almeno almeno voluto apporvi la clausola che il contante effettivamente sborsato in tesoreria uguagliasse le dazioni in paga per crediti vecchi e forniture passate. Ma il Groppello risponde che “una tale dichiaratione apposta nell’interinatione le havrebbetolto la confidenza de’ Contrahenti quali havrebbe procurato di maneggiare al maggior servitio delle finanze” e dichiara che “non havrebbe fatta alcuna dation in paga, anco per somme non riguardevoli, senza prima proporle al Magistrato, per haverne i più accertati sentimenti e risolutioni”. In seguito alla quale dichiarazione venendo per equivalente esser provvisto il regio servitio ha il Magistrato stimato di compiacerli e si contenta di apporre la condizione già saputa che “li debiti da pagarsi con alienatione di tassi o altri redditi demaniali siano debiti della Corona o fatti per difesa dello Stato”[6]. Senza questa condiscendenza della Camera, il Groppello si sarebbe trovato in un imbarazzo non piccolo, perché egli, senza nemmeno aspettare l’arrivo delle nuove lettere da Bubiana, sicuro dell’approvazione del suo Principe se non di quella degli arcigni magistrati della Camera, avea stipulato il 29 luglio un contratto, manifestamente fittizio, nel quale egli vendeva agli eredi Olivero che erano il conte e contadore generale Michelangelo Lodi ed il patrimoniale Giovanni Giacomo Audiffredi 855 scudi (equivalenti a L. 6412.10) di tasso annuo per il capitale di 106.875 lire. La tesoreria dovette avere incassato di meno, quantunque questa sia la somma che figura nei conti del 1706, perché il 9 luglio 1709, quando si addivenne ad una liquidazione dei conti, si verifica che agli eredi Olivero furono accreditate L. 149.517.6.6 per vestiari provvisti alla cavalleria ed alla fanteria, L. 9.998.14.5 per interessi decorsi e solo L. 53.258.11.9 pagate in contanti. Il totale del credito degli eredi Olivero ora di L. 212.774.12.8, in compenso di cui si diedero L. 106.875 di tassi o L. 105.899.12.8 di Monti del Beato Angelo di Cuneo[7]. Se in questo caso, essendo troppo preponderante il credito, per cause oramai antiche, al contante, il Groppello credette opportuno di passar sopra all’approvazione camerale, non così per il credito di Gio. Michele Giacoletto, creditore di L. 80.289.13.7 per forniture fatte per le caserme e gli ospedali durante l’assedio. La Camera senza nessuna obbiezione ammise la vendita di tasso per altrettanta somma al Giacoletto in pagamento del suo credito[8].
Non volle però la Camera dare il suo consenso alle alienazioni di tassi a persone di ben maggior levatura e più potenti che non un qualunque fornitore Giacoletto. È questo uno degli episodi più belli della ostinata resistenza della magistratura piemontese contro le facili condiscendenze a favore di persone privilegiate e a danno degli interessi generali. Il 17 agosto 1706 il conte Groppello fa sapere alla Camera per mezzo del patrimoniale generale Fecia di Cossato che vi sono parecchi ambasciatori e ministri presso le corti straniere i quali pretendono di essere in credito dalle finanze di residui di loro trattenimenti dal 1690 in poi. Proporrebbero costoro di “dar contanti in aggionta a tal loro credito ove li si diino in paga redditi demaniali, purché prima il Magistrato decida se siino debiti di Corona”. Il patrimoniale faceva istanza per una pronta deliberazione “stante li notorij bisogni d’haver denari per supplire all’urgenze correnti” (le parole in corsivo sono nel testo). Le opinioni della Camera si manifestano subito contrarie alla richiesta del Groppello. Parecchi magistrati rispondono non potersi alienare rodditi demaniali per pagar listipendij non pagati anche che potessero dirsi Debiti di Corona perché questa qualità potrebbe bensì in qualche modo considerarsi per darle efficacia sopra frutti del Demanio, ma non sul corpo e proprietà di esso Demanio”. Il conte presidente Ferraris, coll’autorità conferitagli dall’esercizio per 28 anni della carica di avvocato patrimoniale generale, informa la Camera che in parecchi casi le alienazioni di tassi fatte per credito di stipendi, e spese d’ambasciata, residenze e ministeri in corti straniere sono state annullate; esservi su di ciò pendenti diverse cause in giudizio, sicché si sarebbe recato nocumento all’interesse del fisco se ora si fosse dalla Camera accolto il principio che quelle alienazioni potessero farsi. La Camera, uditi questi pareri, rimanda la risoluzione definitiva della quistione; ma gli umori erano così manifestamente contrari che in una seduta successiva del 4 settembre il generale di finanze informa che gli ambasciatori e ministri, di cui aveva manifestato l’intenzione di comprare tassi, non aveano dato seguito ai loro propositi. Più grave e memorando fu il rifiuto che la Camera diede nella seduta dell’8 agosto alla richiesta di un altissimo personaggio, appartenente alla famiglia regnante. Il serenissimo principe di Carignano era creditore di 30 mila lire di appannaggi del quartiere di luglio, ed avrebbe desiderato di ricevere in pagamento del suo credito altrettanti tassi. Il Groppello ne chiedeva perciò licenza alla Camera. “Il Magistrato” – così il verbale delle sessioni camerali, con sintassi zoppicante, ma con chiarezza espressiva, – “presi li voti, a riserva d’uno, stati concordemente uniformi, ha risoluto non esser luogo alla proposta alienatione, in concorso così urgente della difesa della Corona, per pagar un credito anche privilegiato, il quale deve esser pagato de’ frutti, mancanti di gran longa a supplire alle precise spese del bisogno presente e fra gli altri motivi, quando manchi in aggionta al preteso Credito qualche somma di contanti, motivo della facoltà data al Generale delle finanze di dare in paga per ricavar denari nella predetta assistenza alle premure correnti”[9]. Cosìgiudicavano i magistrati in Torino contro l’interesse di altissimi funzionari e di Principi reali, mentre sugli spalti delle fortificazioni cittadine ferveva la resistenza indomita contro lo straniero!
Chiudiamo l’argomento dell’alienazione dei tassi collo specchio seguente, nel quale si leggono insieme colla data degli editti e dei contratti, le somme capitali ottenute con le alienazioni tutte compiutesi durante la guerra e gli oneri per tal modo assunti dalle finanze.
Alienazione | Data |
| Capitale ricevuto dalle finanze | Interesse % | Tasso annuo alien. | Annotaz. |
I Editto | 11 giugno | 1704 | 500.000 | 6 | 30.000 |
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II “ | 22 febbraio | 1706 | 500.000 | 6 | 30.000 |
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III “ | 2 giugno | 1706 | 500.000 | 6 | 30.000 |
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IV “ | 15 settembre | 1707 | 200.000 | 6 | 12.000 |
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V “ | 18 febbraio | 1708 | 400.000 | 6 | 24.000 |
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| 2.100.000 |
| 126.000 |
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Contratto | 9 agosto | 1706 | 80.289.13.7 | 6 | 4.817.7.6 | In pagam. Di forniture senza sborso di contanti |
“ | 29 luglio | 1706 | 106.875 |
| 6.412.10 | Compresa in maggior somma data parte a saldo crediti e parte contro sborso del contanti |
e 2 luglio | 1709 |
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| 2.287.164.13.7
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| 137.229.16.6 |
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[1]Ad es. il 26 gennaio 1581 si alienano certi tassi su Moncrivello “in consideratione della grata servitù fatta dalla fu molto magnifica et ben amata nostra carissima Dama Barbara Purpurata d’Annebault … Governatrice della persona nostra” (D. XXII. 1247); il 12 maggio 1653 si assegnano 3000 lire di tasso su Scalenghe e Cerrenasco al “molto reverendo padre abbate Don Valeriano Castiglione Benedetto, historico di M.R. mia signora madre et nostro” per “il virtuoso e fedelservitio che per anni vent’otto ha reso e tuttora rende a questa Real Casa, molto benemerito perciò della nostra Corona” (id. 1274).
[2]A.S.M.E.Demanio, Donativo e Sussidi. M. 4, n. 17.
[3]A.S.M.E.Demanio, Donativo e Sussidi. M. I di II addizione, n. 6.
[4]Cfr. le considerazioni esposte a questo proposito dal Reinaldo nel progetto esposto e criticato al p. 39.
[5]A.S.C. Sessioni Camerali, Registro 1705 in 1707, sotto la data del 17 luglio 1706.
[6]A.S.C.Sessioni Camerali. Registro 1705 in 1707, sotto la data del 9 agosto 1706
[7]A.S.M.E. Demanio, denativi e sussidi, M. 4, n. 19 e A.S.F. II a. Capo 9, n. 101, pag. 124
[8]A.S.C.Sessioni Camerali. Registro 1705 in 1707, sotto la data del 9 agosto 1706. Questi non furono i soli contratti di questo genere che il Groppello fece durante l’assedio. In A.S.F. Capo 16, n. 14. Libro Amministrazione generale Finanze vi è un elenco di contratti fatti negl’urgenti bisogni pendente l’assedio, dal 10 luglio al 20 settembre 1706, per una somma totale di L. 309.4911.0.6. Con questi contratti il Groppello vendeva tassi, monti, infeudazioni per riceverne in cambio L. 71.120.9.1 (il 22.98%) in contanti, L. 194.777.11.9 (il 62.93%) in forniture diverse di lardi, risi, vini, biade per la cavalleria, cera, zuccari, medicinali, olio, pece, cordaggi, ecc., L. 2.281.8.4 (il 0.74%) in boscami per l’intendenza, L. 7.009.16.6 (il 2.27%) in prezzo di lavori affidati ad impresari. Fin qui (e si trattava dell’88.92% della somma totale di tassi e monti venduti) si erano fatti debiti ricevendo in cambio contanti o forniture necessarie per la condotta della guerra. Per il resto ci si dov’è contentare di compensazioni con crediti vecchi di privati per L. 22.561.7.4 (il 7.29%), con paghe arretrate per L. 10.219.3.6 (il 2.27%) col prezzo di trasporto di vino da Francia per la Casa reale per L. 808.4 (il 0.26%) o con onorari dovuti a un medico per L. 720 (il 0.23%). Le proporzioni del contante e delle forniture attuali ai crediti vecchi dimostrano come il Groppello e la Camera dei Conti andassero guardinghi nel giovarsi della autorità loro concessa dal Principe di far debiti.
[9]A.S.C.Sessioni Camerali. Registro 1705 in 1707, sotto lo date del 7, 9, 17 agosto e 4 settembre 1706.