Il monopolio delle assicurazioni e la questione dell’indennità delle imprese assicuratrici. (I pericoli di un principio applicabile a tutte le imprese industriali)
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/06/1911
Il monopolio delle assicurazioni e la questione dell’indennità delle imprese assicuratrici. (I pericoli di un principio applicabile a tutte le imprese industriali)
«La Riforma Sociale», giugno 1911, pp. 404-418
Il proposito del ministero attuale di creare un monopolio delle assicurazioni sulla vita ha fatto sorgere una questione interessante: quella della eventuale indennità a pagarsi alle compagnie assicuratrici per la espropriazione della loro azienda per causa di pubblica utilità. Io non credo che vi sia veruna pubblica utilità ricavabile dell’assunzione del monopolio delle assicurazioni vita.
Ed ho cercato di dimostrare altrove (vedi Corriere della Sera del 13 e 14 aprile e del 4 e 5 maggio) che si tratta di una ridicola cabala, annunciata per procacciare popolarità al Governo, non allarmare per ora i contribuenti chiamati poi a pagare in altra maniera il conto delle pensioni operaie e far vedere, ove il conto non si presenti, lucciole per lanterne agli operai pensionandi. Lo Stato non ne ricaverà nessun vantaggio e molti danni finanziari e sociali, dipendenti dall’aumento di quella burocrazia che è la vera piaga della civiltà contemporanea.
Comunque sia di ciò, poiché il Parlamento può far tutto, salvo che cambiare gli uomini in donne, potrà anche dichiarare, al fischiar della frusta elettorale di chi avrebbe davvero il potere, ove appena il volesse, di compiere una vera e grande rivoluzione economica in Italia, che questa inutilissima e perniciosissima cabala del monopolio delle assicurazioni vita è una impresa di pubblica utilità. Anzi quanto più grossa sarà la corbelleria tanto più facilmente essa sarà acclamata come un’invenzione geniale e mirabile.
Ammesso il principio del monopolio, sorge il problema della indennità per spropriazione. A dire il vero, il Governo, il quale trova comodissimo risolvere i problemi negandone l’esistenza, pare non si voglia impacciare di indennità col pretesto che esso lascia, vivere tutte le vecchie compagnie coi loro affari in corso, e soltanto interdice loro di assumere nuovi contratti a partir da un certo momento. Non essendovi dunque soppressione di imprese, né riscatto delle loro attività e limitandosi lo Stato a dichiarare di una spettanza certe operazioni che prima erano libere, non vi è luogo ad indennità.
Il ragionamento è troppo semplicista, come si dimostra con una breve analisi economica. Ed a porlo in tutta la sua gravità pensa già del resto la banda espropriatrice, sempre all’erta per consigliare al Governo nuovi saccheggi e nuove rapine della privata ricchezza. È questa una banda potente, perché nelle sue file si noverano, giova riconoscerlo, oltre ai soliti agitati ed energumeni dei partiti radico socialisti, anche parecchi conservatori, cosidetti «illuminati», che fan consistere la conservazione sociale nel difendere le cause «popolari» atte ad aumentare la tiratura dei giornali sedicenti conservatori, ed altri che, paladini di ogni fatta di protezione alle industrie nazionali, colgono l’occasione per distrarre l’attenzione pubblica dalle ruberie protezioniste col gridare al ladro! dietro alle persone oneste (giova invero darsi l’aria di difensori del popolo e degli operai vecchi chiedendo il sacrificio di una industria onestamente amministrata, non protetta da dazi a danno dei consumatori, anzi già ingiustamente tartassata dal fisco con imposte irragionevoli e dannose al risparmio, quando, con una nuova rapina, si riesca a conservare per qualche anno di più gli antichi saccheggi sul lavoratore onesto e sull’imprenditore ardimentoso che han nome di protezione granaria, siderurgica, zuccheriera, ecc. ecc.); e vi si mescolano tutti coloro che han la fregola di diventare deputati o senatori o direttori od alti funzionari della nuova baracca burocratica, ed hanno la sensazione (per alcuni è una nitida visione, per altri è un vago dubbio) che il monopolio da solo non direbbe nulla all’erario e che quindi – per potere poi vantare i loro meriti pubblici – occorre fare qualcosa di più che non sia il semplice monopolio, attuato colle norme imposte dalla giustizia e dei principii comuni del diritto.
È forse necessario di dire che ciò che la banda propone, oltre ed insieme col monopolio, può prendere il nome di furto o di rivoluzione indifferentemente, a seconda che noi stiamo dentro o vogliamo uscire fuori dai principii fondamentali di diritto che regolano la società così come oggi è costituita? Ed è forze necessario di aggiungere che quella che io, per brevità e per intenderci, chiamerò nel corso di questo breve scritto «banda espropriatrice», può essere chiamata, da chi ci ponga ad un altro punto di vista, la «scuola delle nuove idealità sociali», o «il gruppo dei precursori del nuovo diritto privato»?
Preferisco chiamarla in «banda espropriatrice» per mettere bene in rilievo il fatto che, a parere mio, non si può in alcun modo qui parlare di una vera e propria rivoluzione sociale, fatta da una classe che sale e vuole cacciare colla violenza di posto i degeneri discendenti di una classe altra volta potente ed utile e fattiva. Niente di tutto ciò nella espropriazione, che oggidì si tenta, delle imprese assicuratrici e altre che il prossimo avvenire ci riserva a danno di altre imprese. È una ingloriosa campagna invece, condotta dalla classe burocratica, parassitaria di natura sua, per crescere le sue schiere già fin troppo folte, e diminuire il numero degli uomini liberi che vivono indipendenti dalla greppia governativa.
È una rivoluzione di basso conio, che non vien su dalle energie feconde e compresse delle classi produttive vogliono conquistare potenza e ricchezza: bensì scende giù dalla dominatrice e sfruttatrice e vuol foggiare nuove armi di dominazione e di sfruttamento a danno della collettività. Non monta che in apparenza il gioco appaia diretto a favorire le classi più numerose. In cotali deformi contorcimenti e spudorate professioni di fede furono mai sempre maestri insigni i tiranni d’ogni tempo; e non è meraviglia che la burocrazia, erede odierna dei tiranni dei tempi andati, ne abbia ereditato la maschera. Come tutti i tiranni, anche la burocrazia è cieca, perché di qual vita vivrà il parassita, quando esso, col troppo suggere e l’orgoglioso gonfiarsi, abbia ucciso la vittima?
Volendo riassumere per sommi capi, tre sono gli elementi del conto patrimoniale di una impresa assicuratrice che possono essere espropriati per pubblica utilità. Si potrebbero schematicamente rappresentare così:
ATTIVO | PASSIVO |
Titoli, immobili, ecc. in cui sono investiti il capitale e le riserve sociali A | Capitale e riserve sociali a |
Titoli, immobili, ecc. in cui è investita la riserva matematica B | Riserva matematica o debito verso gli assicurati. b |
Valore attuale dei benefici industriali sperabili nel futuro C | Avviamento c |
Notisi che questi tre elementi si trovano, con altri nomi e con altre funzioni economiche, in qualsiasi impresa industriale. In una acciaieria, ad es., il capitale e le riserve sociali invece di essere investiti in titoli ed immobili saranno investiti nell’opificio e negli impianti industriali; un’altra parte degli impianti, invece di essere costruita con le riserve matematiche, che sono una specie di debito verso certi creditori a scadenze certe o incerte (assicurati), sarà costruita col ricavo di obbligazioni o di mutui cambiari od in conto corrente, che sono un’altra forma di debito; ed infine i benefici futuri saranno rappresentati da brevetti, spese di costituzione, prezzo di compera dell’azienda dai fondatori, ecc. ecc. Quindi le norme; che la banda oggi vuole applicare alle imprese di assicurazione, domani potranno essere applicabili alle imprese elettriche, dopo dimani ai cotonifici, in seguito alle imprese edilizie, poi alle imprese di bonifica di terreni incolti e così via, sacrificando di volta in volta al turpe feticcio burocratico quelle intraprese che i dirigenti avranno saputo meglio far prosperare.
È chiaro come si dovrebbe procedere alla espropriazione del primo elemento del conto patrimoniale. Una Società ha scritto nel suo bilancio:
ATTIVO | PASSIVO |
A) Titoli, immobili, ecc., in cui sono investiti il capitale e le riserve sociali | a) Capitale e riserva sociale |
L. 100.000 | L. 100.000 |
Cosa vuol dire questa scritturazione? Che la Società ha un capitale (più le riserve) di 100.000 lire; e questa somma la iscrive in passivo, perché è un suo debito verso gli azionisti, o meglio è la somma versata dagli azionisti nella cassa sociale e che gli azionisti dovrebbero poter ritrovare in un qualunque momento, se non vogliono perdere. Per dimostrare che appunto gli azionisti non hanno perso nulla, gli amministratori iscrivono nell’attivo i titoli, gli immobili, i crediti in cui le 100.000 lire sono state investite; e dimostrano così che c’è il pareggio. Ma in realtà non c’è nessunissima necessità che i titoli e gli immobili A abbiano un valore di mercato precisamente uguale ad a. Minore non lo devono avere, perché altrimenti una parte del capitale sarebbe andata perduta; e questo fatto deve essere (almeno dagli amministratori onesti e, entro certi limiti, anche secondo le tassative prescrizioni del codice di commercio) messo in chiaro riducendo il capitale, ad es., a L. 80.000; se le attività corrispondenti valgono più solo L. 80.000, od adottando quegli altri metodi che sono insegnati dalla ragioneria.
Ma possono le attività A avere in realtà un valore reale, di mercato superiore a 100.000 lire, ad libitum degli amministratori e degli azionisti, senza che né terzi né Governo vi abbiano nulla a ridire. Se, ad es., gli amministratori hanno investito le 100.000 lire in certi titoli che, dopo essere costati precisamente 100.000 lire, sono venuti ad avere un valore doppio, triplo, decuplo, la Società è padronissima di continuare ad iscrivere i titoli stessi al prezzo di costo, senza menomamente tener conto nelle scritture che i titoli (A) adesso valgono 200.000, 300.000 od anche 1.000.000 di lire, e senza menomamente mutare la cifra nominale del capitale (a) che continua a figurare per 100.000 lire.
Questo metodo, che è quello seguito da moltissime società, è moralmente utile, perché è sempre cagion di forza e di credito per una Società il risapersi che essa ha le attività calcolate in maniera prudenziale; e non fa danno a nessuno, perché gli azionisti ben sanno che la loro azione, del valore nominale di 100, in realtà vale 200, 300 o 1000 lire e gli eventuali compratori la pagheranno 200, 300 o 1000 lire non 100. Da questo fatto normale; logico, utile vuolsi sapere quale conseguenza incredibile ha tratto la banda espropriatrice dei conservatori «illuminati» in combutta coi frenetici di rivoluzioni e di trambusti e di mangerie avvocatesche uso miliardo delle Congregazioni francesi? Che lo Stato ha il diritto di espropriare le attività di titoli, immobili, ecc. (A) non, come dovrebbe, secondo le regole dell’onestà, della giustizia e dello Statuto, al valore corrente stimato da periti in 200.000, 300.000 o 1.000.000 di lire, ma al valore di 100.000 lire iscritte nel bilancio, senza tener conto del maggior valore che le stesse attività possono avere. è enorme, è brigantesco; ma è così.
A questa stregua la Fiat, la quale, in un certo momento della sua storia, aveva iscritto in bilancio i suoi stabilimenti per una lira, avrebbe potuto essere espropriata per una lira ed avrebbe, per giunta, dovuto dichiararsi soddisfatta della larghezza del Governo. Da quel che ho capito, la banda adduce due argomenti in sostegno dei suoi propositi di rapina:
1) che il Governo, dopo tutto, espropriando per 100.000 lire le attività (A) dell’impresa, non fa altro che giovarsi della confessione medesima della Società, la quale ha attribuito quel valore a quelle sue attività. Peggio per essa, se viene presa in parola. Doveva pensarci prima e valutare al valore reale, corrente e non ad un valore fittizio, inferiore alla realtà. Il ragionamento non è nuovo. Lo fece già, per restare in casa nostra, il Governo italiano quando incamerò i beni degli Enti ecclesiastici conservati sostituendoli con altrettanta rendita quanta corrispondeva alla cifra dei redditi denunciati dal clero agli effetti dell’imposta di manomorta. Lo ripeté quando dichiarò espropriabili le aree fabbricabili al prezzo denunciato, e per giunta in modo invariabile per 25 anni, dal proprietario. Ma per essere già stato fatto, il ragionamento non diventa plausibile.
La iscrizione di un certo valore (100.000 lire) nell’attivo di un bilancio per una certa partita delle attività sociali, non è affatto una confessione, una attribuzione di un valore effettivo a quelle attività. È un semplice avvedimento contabile che significa che, nell’opinione degli amministratori, i titoli indicati all’attivo non hanno un valore minore della cifra iscritta e, nel caso nostro, non hanno valore minore della cifra iscritta al passivo come capitale e riserva. Ma nessuno mai si è sognato di dire che in realtà quelle scritturazioni abbiano per iscopo di affermare positivamente che i titoli in cui sino investiti il capitale e le riserve valgono 100.000 lire e nulla più e nulla meno. Piuttosto, nella mente degli amministratori prudenti ed onesti, quella scritturazione vuol dire che l’attivo sociale, se realizzato, non può fruttar meno di 100.000 lire : salvo agli azionisti di beneficare di ogni maggior realizzo.
La banda avrebbe una parvenza di ragione quando da tempo lo Stato avesse avvertito le imprese che esso si riservava il diritto di espropriarle al valore dichiarato nel bilancio. Allora si che la scritturazione di una cifra o di un’altra nel bilancio avrebbe avuto l’importanza di una confessione, di una vera attribuzione di valori, ai quali si è disposti a vendere. Io non credo però che un Governo ragionevole darà mai un avvertimento di questo genere. Renderebbe impossibile la formazione di bilanci atti ad inspirar fiducia nei capitalisti, e quindi toglierebbe la possibilità della costituzione di imprese economiche a forma sociale. è già difficilissimo ora formare i bilanci; e discussioni lunghe e complesse sono già fatte intorno al miglior modo di valutazione delle attività e passività patrimoniali, talché davvero non v’è bisogno di introdurre una nuova cagione di confusione. Si deve valutare al costo o al valore corrente? E che cosa è il valore corrente? quello che c’è finché la Società non vende e funziona, o quello, ben diverso, che ci sarebbe se la Società mettesse sul mercato i suoi titoli o le sue attività? E che cosa è il valore di un elemento dell’attivo sociale avulso dagli altri elementi in combinazione coi quali funziona? Sul mercato si hanno valori correnti solo per beni singoli, non per combinazioni di beni. Adotteremo noi valori singoli avulsi dalla combinazione o valori di beni combinati insieme funzionanti? Questi sono alcuni pochi dei problemi delicati che la scienza dell’estimo tratta e che gli amministratori di una società devono risolvere in base alla loro esperienza e prudenza.
Se essi pensassero che della loro prudenza potesse profittare lo Stato per danneggiare la Società e per espropriare ogni volta che egli paresse di constatare l’esistenza di valori reali superiori ai valori iscritti nel bilancio, io non so davvero quali conseguenze ne deriverebbero. Certo uno stato di incertezza e di rischio, che, come tutti i rischi, crescerebbe il costo di produzione e si tradurrebbe in un onere per i consumatori. Si aggiunga una tendenza al gonfiamento, all’esagerazione dei valori, che produrrebbe i danni, di che sono fecondi in genere gli annacquamenti e le gonfiature dei capitali. E v’è da credere che, nove volte su dieci, lo Stato avrebbe la peggio e sarebbe burlato e truffato dai bricconi, i quali saprebbero ben trovare il mezzo di confezionare i bilanci in maniera da spingere lo Stato ad espropriarli;
2) che le Società hanno pagato le imposte sui valori iscritti in bilancio: e che quindi, avendo esse male adempiuto ai propri doveri tributari verso lo Stato, lo Stato ha diritto di espropriarle pagando loro la somma in base a cui esse in passato hanno adempito al loro debito verso lo Stato. Non ripeto un’altra volta l’osservazione già fatta: se lo Stato crede che i valori in base a cui si paga l’imposta siano i valori di spropriazione, deve dichiararlo prima; sicché i contribuenti sappiano regolarsi. Non dir niente, lasciar credere ai contribuenti che essi non saranno espropriati ed improvvisamente espropriare è un tradimento, una imboscata. Quando volle sancire questo principio per le aree fabbricabili, il Governo fece approvare una legge apposita e solo dal giorno dell’entrata in vigore della nuova legge poté applicare il nuovo – e per altre sue peculiarità iniquissimo – principio di espropriazione. Notisi poi ancora che il nuovo principio non potrebbe essere applicato senza sconvolgere del tutto il nostro ordinamento tributario.
Le nostre imposte sono sul reddito e non sul capitale; e non si vede come, iscrivendo in bilancio per 100 un titolo od un immobile che ne vale 200, le società abbiano potuto sottrarsi all’imposta dovuta. Se vale 200, sarà perché il reddito è salito da 5 a 10 lire, ed evidentemente la Società avrà dovuto pagare l’imposta su 10, senza che a nulla abbia giovato il valutare il titolo ad appena 100. La sotto valutazione non ha nemmeno giovato a pagare minori tasse di negoziazione o di registro, perché il fisco sa bene che le scritturazioni dei bilanci hanno un valore contabile e non un valore di confessione ed ha tassato per il passato e tasserà ancor meglio per l’avvenire, grazie alle modificazioni recenti alle tasse sugli affari, i valori dei titoli, degli immobili, ecc, sulla base del loro valore corrente di borsa o di mercato. Falso è dunque il punto di partenza di questa strana argomentazione tributaria della banda espropriatrice.
E passiamo al secolo elemento del conto patrimoniale. La Società ha scritto nel suo bilancio:
ATTIVO | PASSIVO |
B) Titoli, immobili, ecc. in cui sono investite le riserve matematiche L. 5.000.000 | b) Riserve matematiche o debito verso gli assicurati L. 5.000.000 |
La scritturazione vuol dire che la Società crede di avere un debito a scadenze varie di 5.000.000 lire verso gli assicurati ed ha investito questa somma in tanti titoli, immobili, ecc. del valore minimo, a suo parere, di 5.000.000 lire. I titoli, gli immobili descritti al capo B sono la garanzia degli assicurati; ma non sono nemmeno la sola garanzia; perché la Società risponde, verso gli assicurati, dei propri obblighi anche col capitale sociale e con le sue riserve (capo A) In caso di espropriazione per pubblica utilità (o disutilità), lo Stato quanto dovrebbe dare per questo capo?
Niente, risponde la banda; perché le riserve matematiche sono di proprietà degli assicurati; e quindi lo Stato, assumendo il debito di 5.000.000 lire della Società verso gli assicurati, e liberando di altrettanta passività (b) la Società, deve, per non perdere, assumere anche la corrispondente attività (B). La Società nulla perde perché, pur avendo 5.000.000 lire di meno di attivo, ha nel tempo stesso 5.000.000 lire di meno di passivo; e le sue condizioni patrimoniali non soffrono danno veruno. Sulla carta e secondo le apparenze contabili nulla muta certamente; ma potrebbero però in realtà le condizioni patrimoniali della Società avvantaggiarsi o essere danneggiate in misura più o meno cospicua.
Né la cifra iscritta al passivo, né quella iscritta all’attivo possono essere assunte a base di una espropriazione o riscatto che dir si voglia. Non può esserlo la cifra iscritta al passivo, perché la Società non è che debba 5 milioni di lire agli assicurati, bensì essa deve pagare certe somme in un tempo futuro, al verificarsi di avvenimenti incerti nel tempo (morte) od incerti persino nel loro verificarsi (maggiore età, morte entro dieci anni, ecc.). È vero che la Società ha calcolato che questi impegni futuri ed incerti equivalgono nel momento presente a 5 milioni di lire; ma il calcolo potrebbe essere sbagliato, e la Società dovere in realtà pagar di più ovvero invece di meno. Una discussione preliminare, non facile né semplice, dovrebbe essere fatta per stabilire i criteri (tasso di interesse, tabella di mortalità, ecc.) in base a cui tradurre quegli impegni futuri ed incerti in un debito presente.
Il calcolo potrebbe portare alla conclusione che il debito della Società è di 5.000.000 ovvero 4.800.000 ovvero 5.200.000 lire; e lo Stato, costituendosi alle Società, dovrebbe caricarsi di questa cifra di debito e non di quella scritta nei bilanci sociali. Nuova prova, se pur ve n’era bisogno, che le appostazioni di bilancio hanno un valore convenzionale e non possono essere accolte senz’altro per il procedimento del riscatto. Supponiamo pure che, fatti i calcoli, il debito della Società verso gli assicurati possa calcolarsi al presente in effetto di 5.000.000 lire. Ciò vuol dire che lo Stato accollandosi il debito b, possa senz’altro farsi consegnare le attività B scritte in bilancio per 5 milioni di lire? Mai no.
A contestare questa teoria, la banda espropriatrice mise innanzi l’argomento che le riserve matematiche sono una proprietà degli assicurati. La teoria è falsa come è falsa la teoria che la cosa ipotecata sia una proprietà del creditore ipotecario, che l’oggetto dato in pegno sia una proprietà del creditore che ha imprestato, su pegno, una somma. I titoli, gli immobili in cui è stata investita la cosidetta riserva matematica sono invece proprietà dell’assicuratore, e sono garanzia del credito dell’assicurato.
Nel caso nostro, se i titoli, immobili, ecc., peritalmente valutati, secondo il valore di borsa od il valore di mercato ad una certa data fissata di comune accordo, in realtà valessero 5.000.000 lire, l’assicuratore espropriato dovrebbe tutti cederli allo Stato in compenso dell’assunzione da parte dello Stato del debito identico di 5.000.000 lire verso gli assicurati. Se i titoli, ecc., risulteranno di un valore di 5.200.000 lire, l’assicuratore ne dovrebbe cedere allo Stato per 5.000.000 lire, tenendo per sé le restanti 200.000 lire. Se invece valessero solo4.800.000 lire, l’assicuratore oltre al dover cedere tutti i titoli componenti la riserva matematica, dovrebbe rifondere, prelevandoli dal proprio patrimonio o dalle proprie riserve (capo A), altre 200.000 lire allo Stato.
Come concetti così semplici abbiano potuto essere negati, si comprende agevolmente riflettendo che la banda espropriatrice aveva pensato di fare un ottimo affare espropriando per 5.000.000 lire (in cambio dell’accollo di un ugual debito) titoli di valore superiore, ossia del valore di 5.200.000 e più. Il calcolo poteva non essere sbagliato, riflettendo alla prudenza delle Società assicuratrici; ma, se era corretto, costituiva la predicazione della rapina pubblica. Se era scorretto, avrebbe significato perdita sicura per l’erario.
Si pensi ancora alla portata del criterio nuovo di indennità di espropriazione che verrebbe in tal guisa sancito. Un industriale fa un debito di mezzo milione per allargare il suo impianto. Se l’affare va male ed egli deve perdere anche tutto o parte del suo patrimonio per rimborsare i creditori, lo Stato starà zitto e non interverrà. Se l’affare va bene e l’impianto, costruito col mezzo milione preso a prestito, viene con prosieguo di tempo a valere un milione, lo Stato si farà innanzi e dirà all’industriale: «alto là! questo impianto non è tuo: l’hai fatto coi denari dei tuoi creditori: è dunque proprietà dei tuoi creditori. Io, Stato, mi sostituisco a te industriale nel debito di mezzo milione verso i tuoi creditori: e mi prendo, senza indennità e senza dar ascolto ai tuoi lagni, l’impianto che ora vale bensì un milione, ma non è tuo, bensì dei tuoi creditori, ossia di me, che soddisfo o mi obbligo di soddisfare i diritti dei tuoi creditori». Non è forse vero che le conseguenze economiche sarebbero quelle stesse che derivano dalla mancanza di pubblica sicurezza e dal terrore del brigantaggio in un paese: ossia cresciuto rischio del risparmio, del lavoro, degli investimenti e rialzo del costo della vita?
E se queste sono verità inconcusse in generale, perché dovrebbero cessare di esserlo, se applicate alle imprese di assicurazione? Bene perciò ha fatto il Governo a non voler né l’espropriazione dal capitale e delle riserve (parte A del conto patrimoniale) né il riscatto delle riserve matematiche (parte B). Si sarebbe cacciato in un mare di guai, di controversie, di dubbi e di perizie se avesse seguito i consigli dell’onestà: e si sarebbe macchiato del delitto di rapina con imboscata se avesse dato ascolto alla banda espropriatrice.
Rimane la terza parte del conto patrimoniale, che può riassumersi così:
ATTIVO | PASSIVO |
C) Valore attuale dei benefici industriali sperabili nel futuro L. 500.000 | c) Avviamento L. 500.000 |
È la partita che è di trattamento più difficile e delicato. Non perciò il legislatore può chiudere gli occhi e fingere di non vederla. Deve, dirò di più, vederci anche se esplicitamente essa non figura nei bilanci delle intraprese. Ho già detto che bilanci sono un documento contabile, che serve a certi fini, e dove si registrano solo quei fatti è necessario legalmente e contabilmente di registrare.
Per lo più l’avviamento non è uno di quei fatti che sia necessario di registrare. Che sugo vi è di scrivere 500.000 lire al passivo come valore attribuito dagli amministratori all’avviamento dell’impresa, quasi come un patrimonio degli azionisti che gli amministratori debbono conservare e crescere, per controbilanciarlo all’attivo col valore attuale dei benefici che si sperano in avvenire e che sono appunto la realizzazione dell’avviamento ora esistente? Il commerciante nel suo conto patrimoniale di fin d’anno non tien conto in cifre dell’avviamento; nonostante ciò l’avviamento esiste ed egli non è disposto a cedere il negozio senza che il compratore gli paghi il valore che dal mercato al suo avviamento si attribuisce.
Le imprese assicuratrici possono avere – è questione di fatto giudicare se l’abbiano davvero – un valor d’avviamento. C’è una organizzazione, c’è una clientela, c’è un nome che in decenni, forse in quasi un secolo di vita hanno acquistato un valore e che sono una proprietà dell’impresa stessa. Sono beni immateriali si, ma sono beni che hanno un valore nello stesso preciso modo come l’hanno i terreni, le case, ecc. Lo Stato, per ragioni di pubblica utilità (o disutilità) crede di espropriare le imprese d’assicurazione del loro avviamento? Sta benissimo. Fa ciò che non è nel suo interesse, ma è nel suo diritto di fare.
Però il beneficio presunto della collettività non deve esser ottenuto a danno dei singoli; e deve essere ripartito sulla stessa collettività l’onere dell’indennizzo ai singoli danneggiati. Ciò deriva dai principii elementari della espropriazione per pubblica utilità; i quali non si possono violare senza patente offesa alla giustizia. Il che per un economista significa che quei principii non si possono violare senza patente offesa alle condizioni stesse d’esistenza della vita economica.
Né si dica che lo Stato nulla espropria, perché si limita a proibire alle imprese di assicurazione di esercitare la loro industria per l’avvenire. In questo caso, e per questo terzo elemento del conto patrimoniale, proibizione equivale ad espropriazione. Proibire di lavorare vuol dire proibire di utilizzare la ricchezza consistente nell’avviamento, nell’organizzazione, nel nome; vuol dire cioè annullare il valore della ricchezza medesima. Lo Stato viene a profittare (od almeno crede di profittare) dell’impulso dato a questa industria; a raccogliere nel campo che è stato seminato da altri. Il proposito non appare turpissimo (come è) solo perché i danneggiati sono pochi.
Apparirebbe in tutta la sua laidezza, se esso fosse applicato, ad es., ai medici, agli ingegneri, ai negozianti al minuto. Se lo Stato dicesse: «a partire dall’1 gennaio 1912 nessun medico potrà esercitare la medicina, nessun ingegnere far progetti, nessun negoziante tener bottega aperta; provvederò io con medici, ingegneri, rivenditori miei, scelti e pagati da me»; se ne starebbero quieti i medici, gli ingegneri, i negozianti espropriati del loro diritto di lavorare, della clientela faticosamente acquistata, del nome che essi forse speravano, collo studio o colla bottega, di poter trasmettere ai figli?
Evidentemente no. Farebbero un baccano indiavolato; e ne avrebbero grandissima ragione. Governo e deputati si accorgerebbero subito, poiché gli urlanti sarebbero molti, di avere violata la ragione della giustizia, e non darebbero ascolto ai pochi poltroni, medici ed ingegneri senza clienti, negozianti disertati dal pubblico perché venditori di roba cattiva e cara, i quali si profferissero di passare ai suoi servigi. Or dunque mutano le ragioni della giustizia solo perché le imprese assicuratrici, a cui vuolsi togliere senza indennità l’avviamento, sono poche?
Certo, la valutazione dell’indennità per la distrutta ricchezza d’avviamento non è cosa facile. Vuolsi tenere conto di molti fattori. Oltre al lucro cessante, vi è il danno emergente. Le imprese assicuratrici lavorano ad un costo determinato, per es., del 20% dell’incasso premi, perché esse erano imprese in sviluppo continuo. Domani, quando non potranno più avere nuova materia assicurabile, le spese in proporzione aumenteranno. La mortalità effettiva che oggi può lasciare un breve margine, inferiore di molto a quello che da taluno si favoleggia, ma pur sempre un margine in confronto alla mortalità calcolata, tenderà, per causa del divieto di assumere nuove assicurazioni, a diventare maggiore della calcolata.
È noto invero come la mortalità per due assicurati, amendue di 40 anni, non sia la medesima, ma sia minore per quello che si è assicurato nel medesimo quarantesimo anno che per l’altro che si è assicurato 5 anni prima. E ciò perché la visita medica, recentissima nel primo caso, ha consentito di fare una selezione accurata rispetto alle sue condizioni fisiche nel quarantesimo anno di età; mentre invece per il secondo, essendo la visita medica stata fatta nel trentacinquesimo anno, dal trentacinquesimo al quarantesimo anno si possono essere accumulati nel suo organismo germi di decadenza fisica, che l’avrebbero fatto scartare se la visita si fosse compiuta al quarantesimo anno.
Col divieto di nuovi assicurati, le Compagnie non avranno più assicurati di 40 anni, con visita medica fatta al quarantesimo anno di età; ma tenderanno ad avere solo assicurati di 40 anni con visita fatta al trentanovesimo, trentottesimo, trentasettesimo, trentaseiesimo ecc. anno, 0ssia assicurati con mortalità in media più elevata di quella media su cui i calcoli sono fondati. È lecito allo Stato, solo perché si chiama Stato e può fare le leggi, recare un siffatto ingiusto danno ad imprese, che non hanno scopo immorale, anzi l’hanno, sebbene di ciò esse non abbiano né merito, né colpa, moralissimo; che sono sorte conformandosi alle leggi e sotto l’egida concessa da un governo civile, come si suppone essere il nostro, a tutti coloro che lecitamente lavorano e rischiano? Troppo andrei in lungo se volessi enumerare tutti i casi di danno emergente che la semplice proibizione di lavorare può infliggere alle imprese assicuratrici. Ne ricorderò ancora uno. Lo schema della parte terza del conto patrimoniale può assumere questa forma, che è una fusione della prima parte e della terza:
ATTIVO | PASSIVO |
A) Titoli, immobili, ecc. in cui è investito il capitale sociale L. 500.000 | a) Capitale L. 500.000 |
C) Spese da ammortizzare L. 500.000 | c) Avviamento L. 500.000 |
Questo schema ha per iscopo di far vedere che ci sono imprese assicurative non ancora giunte allo stadio redditizio. Hanno seminato, spendendo tutto il capitale in spese di organizzazione e di conquista della clientela, in perdite di esercizio dei primi anni. Si citano in Italia casi di capitali spesi e non ancora recuperati di centinaia di migliaia e di qualche milione di lire.
L’impresa ha fiducia di ricuperare queste somme, perché sa che prima si semina e poi si raccoglie, e sa che nell’industria assicurativa il periodo della seminagione dura da 10 a 20 anni. Giustamente perciò l’impresa conserva la partita capitale (a) nel proprio conto patrimoniale, sebbene l’abbia speso tutto e non abbia nulla da iscrivere come contropartita (A) in titoli, immobili, ecc.; perché essa ha fiducia di ricuperarlo. Essa però inscrive in C come spese da ammortizzare le stesse 500.000 lire. Col tempo, a poco a poco, essa guadagnerà, ed i guadagni li porterà ad ammortamento e progressiva cancellazione della partita spese da ammortizzare, accrescendo d’altrettanto la partita titoli, immobili, ecc., in cui è investito il capitale sociale.
Così fanno tutte le imprese, e non solo le assicurative, meglio amministrate. Le assicurative hanno la peculiarità che il periodo del ricupero delle spese da ammortizzare dura molto a lungo. L’assunzione del monopolio da parte dello Stato che effetto produce? Che quelle 500.000 lire che non erano finora una perdita, che erano un capitale investito in una certa necessaria ed utile maniera, che erano, secondo previsioni fondate trattandosi di imprese bene amministrate, ricuperabili, diventano senz’altro una perdita.
Non potendo più lavorare in futuro, l’impresa non ha modo di ricuperare il capitale impiegato e lo deve passare a perdita. Anche qui si chiede: quale delitto hanno commesso le imprese assicuratrici perché a loro sia negato quell’indennizzo che subito si riconoscerebbe dovuto, secondo il buon senso e le norme universalmente accolte di giustizia, a quegli ingegneri, quei medici, quei negozianti appena avviati, i quali non ebbero ancora il tempo di ammortizzare le ingenti spese del loro lanciamento, qualora fosse ad essi proibito, per pubblica utilità, di lavorare in futuro?
Non nego che la indennità sia difficile a stabilirsi e riconosco che lo Stato debba difendersi contro esagerate pretese. Né vuolsi dimenticare la difficoltà di distinguere le imprese bene amministrate, che avrebbero potuto ricuperare le spese d’impianto, dalle imprese cattive, che nulla possono pretendere perché esse hanno già definitivamente perduto il loro capitale. Ma queste tutt’al più sono nuove ed ottime ragioni per astenersi dall’imbarcarsi in una cabala rovinosa e pazzesca; non lo sono, per negare persino il principio di una indennità, a stretto rigore di logica e di giustizia, dovuta.
Queste verità non avranno però alcuna probabilità di prevalere contro i propositi degli espropriatori se gli imprenditori italiani, – vorrei augurare anche i lavoratori italiani, se ad essi non facessero velo l’offa delle pensioni di Stato e l’adorazione verso la burocrazia governativa – non faranno blocco. Gli espropriatori hanno adottato la tattica che conduceva alla vittoria le prime leghe operaie contro gli imprenditori disorganizzati. Dichiaravano sciopero negli stabilimenti uno per volta, facendo sussidiare gli operai scioperanti dello stabilimento A da quelli occupati degli stabilimenti B, C, D, E, ecc. Ottenuta la vittoria, passavano allo stabilimento B, facendone sussidiare gli operai scioperanti da quelli occupati in A, C, D, E, ecc. E così via finché il giro era finito. Alla tattica operaia gli imprenditori opposero, l’unione e la serrata degli stabilimenti B, C, D, E, ecc., appena lo sciopero era scoppiato in A, così da impedire i sussidi degli occupati agli scioperanti. La lotta non cessò, ma fu combattuta in campi più vasti e con necessità più sentite di accordi fra le due parti.
Gli espropriatori hanno adottato l’antica tattica operaia, la tattica, per nostra ventura riuscita, della Casa di Savoia, di mangiare le foglie del carciofo lombardo una per una. Ieri hanno espropriato i proprietari di aree fabbricabili, oggi passano alle imprese di assicurazioni, domani esproprieranno qualche altra industria. Finora i non colpiti si sono contentati di sghignazzare e magari di plaudire ai bei colpi degli espropriatori.
Ora però il gioco comincia a diventare pericoloso. Ogni società anonima, ogni industriale deve cominciare a riflettere che domani potrà arrivare il suo turno di essere cacciato fuori di casa, senza complimenti e senza indennità. Non ci sarà il precedente delle imprese di assicurazione vita? Poiché il monopolio non frutterà nulla, la burocrazia non mai sazia penserà alle assicurazioni incendio e poi a quelle grandine; e poi ai fiammiferi e alla navigazione e alle imprese elettriche; e così via via, per tappare le falle cagionate dai nuovi spropositi ne commetterà dei peggiori.
Contro la banda espropriatrice occorre che gli industriali onesti facciano blocco. È meno facile sgominare un esercito saldo che le pattuglie disperse. Tanto meglio se al blocco non tutti vorranno aderire. Dovrebbero anzi gli industriali indipendenti, che vivono di vita propria, escludere dal blocco quelli che vivono di preda, che avendo bisogno della protezione doganale e dei favori governativi, sono i naturali alleati della burocrazia espropriatrice contro di loro. Blocco contro blocco. Industriali liberi, desiderosi soltanto di vivere in uno Stato fornitore di giustizia, di educazione, di sicurezza e di indipendenza, contro industriali predoni e burocratici monopolisti espropriatori, che hanno bisogno di uno Stato asservito a gruppi politicanti e pronto ognora ad offendere, a pro di bande ristrette, le ragioni supreme del vivere civile.