Personalità e progressività nella nuova imposta sul reddito
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 22/11/1909
Personalità e progressività nella nuova imposta sul reddito
«Corriere della Sera», 22, 24[1] novembre e 1[2] dicembre 1909
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 802-808
I
Nel disegno di riforma tributaria presentato dall’on. Giolitti, il titolo terzo sull’«imposta personale progressiva sull’entrata» merita un attento e particolare esame. Il problema dell’imposizione diretta, globale e progressiva sui redditi è certo grave; né qui lo si vuol discutere a fondo, importando assai più mettere in luce i pregi ed i difetti di quelle norme positive che il governo ha voluto sottoporre alla critica dell’opinione pubblica. Se si volesse riassumere in una frase paradossale, l’impressione che si ha dalla lettura degli articoli componenti il titolo terzo del disegno di legge, si potrebbe dire: che i pregi stanno tutti nell’intitolazione data all’imposta, ed i difetti nel modo con cui gli articoli praticamente applicano il principio formulato nell’intitolazione.
Ed invero: imposta personale vorrebbe dire imposta che tiene conto di tutte le condizioni particolari in cui si trova un contribuente, le quali menomano od accrescono la sua capacità contributiva: imposta progressiva dovrebbe essere quella che il principio della progressività non applica nelle sue maniere più crude e primitive, ma con quegli accorgimenti che sono diventati il patrimonio pacifico dei sistemi tributari più moderni; ed imposta sull’entrata vorrebbe finalmente significare una imposta che cerca di scovrire i redditi netti effettivi e su quelli percuote con giusta perequazione.
A volerlo fare apposta il testo contiene nei suoi articoli disposizioni cosiffatte che contraddicono i principi implicitamente accolti nel nome dato all’imposta; cosicché si potrebbe affermare che il tributo nuovamente proposto dall’on. Giolitti non è personale, non è progressivo secondo quei modi di progressività che oggimai sono universalmente accolti e non colpisce la entrata netta dei contribuenti.
L’imposta voluta dal governo non è una imposta personale, bensì si avvicina talmente ad una imposta reale da costituire un regresso in confronto della vecchia e tanto criticata imposta di ricchezza mobile. Potremmo chiamarla imposta «personale» perché esenta i redditi inferiori a 5.000 lire e perché tiene conto delle passività. Tutto ciò non basta. L’imposta sul reddito per la natura sua complementare ed aggiuntiva alle esistenti imposte dirette, evidentemente non poteva colpire i redditi piccoli e mediocri che fin troppo duramente sono già gravati, ma doveva però conservare il carattere di «personalità» anche e sovratutto rispetto ai contribuenti da essa colpiti. Non basta essere personale rispetto ai contribuenti immuni, sovratutto doveva esserlo rispetto a coloro che saranno chiamati a pagarla. A questo riguardo l’imposta pecca gravemente. Pagherà l’uguale imposta tanto il contribuente scapolo con 6.000 o 10.000 lire di reddito quanto il contribuente carico di famiglia ed avente uguale reddito. A Milano, quando si volle istituire la tassa di famiglia non solo si esentarono i redditi inferiori a lire 2.500, ma oltracciò si concesse una detrazione di lire 400 per ogni membro della famiglia. Le proposte Giolitti sono dunque più fiscali di quelle già invalse nei maggiori comuni italiani: dimostrazione del poco studio e della scarsa preparazione che precedettero l’annuncio a sorpresa del disegno di legge governativo. Né si dica che del numero dei componenti la famiglia si tiene conto riducendo di un decimo o due decimi il reddito presunto, ricavato, in mancanza di meglio, dall’affitto pagato per l’alloggio del contribuente, quando costui abbia figli o parenti a suo carico. Innanzi tutto al criterio dell’affitto pagato si può ricorrere quando non si riesca a scoprire per altra via il reddito dei contribuenti; ed inoltre, con quelle riduzioni del fitto si volle evitare solo di attribuire ad una persona, oberata di figli e costretta a vivere in parecchie camere, un reddito superiore a quello vero; ma tutto il suo reddito presunto sarà tassato mentre sarebbe stato equo ridurlo ad una minor cifra imponibile.
Ecco un esempio. In una città di più di 200.000 abitanti uno scapolo ed un padre di famiglia con tre figli abitano ciascheduno in un alloggio da 1.500 lire. Invece di attribuire ad amendue un reddito di 7.500 lire, il disegno suppone che lo scapolo abbia 7.500 lire di reddito ed il padre di famiglia 6.000; il che è probabile sia relativamente anche troppo per quest’ultimo e troppo poco per il primo. Ma qui si ferma il progetto governativo, il quale tassa i due contribuenti su tutte le 7.500 o 6.000 lire del loro reddito così scoperto; mentre a Milano una volta accertati i due redditi in lire 7.500 per lo scapolo ed in lire 6.000 per il padre di famiglia, il primo avrebbe potuto ancora dedurre dal reddito lire 400 ed il secondo una cifra assai maggiore, ossia lire 1.600, cosicché i redditi imponibili sarebbero stati di lire 7.100 e di lire 4.400. Questa è personalità che gradua l’imposta in ragione del potere contributivo; non quella del disegno governativo che tassa egualmente persone le cui circostanze familiari sono ben diverse.
Non basta. Carattere essenziale della personalità è di tener conto della natura del reddito: tassando meno il reddito delle professioni e del lavoro, più quello delle industrie e dei commerci e più ancora il reddito del capitale. Donde la celebre distinzione che fin da quarantacinque anni fa insigni statisti introdussero nell’imposta di ricchezza mobile fra redditi del capitale puro, del capitale misto a lavoro e del lavoro puro; distinzione che, sotto questo rispetto, collocò l’italiana imposta di ricchezza mobile nel novero delle più perfette ed imitabili imposte dei paesi civili. Distinzione che di recente fu imitata, sebbene imperfettamente, dall’Inghilterra (qualche volta anche gli stranieri non temono di copiar noi!); distinzione che fu introdotta dal comune di Milano nella imposta di famiglia riducendo di un quarto i redditi degli impiegati di enti pubblici, delle opere pie e delle amministrazioni, i cui documenti permettono un calcolo preciso e certo dei guadagni dei loro dipendenti.
Di questa distinzione, che è vanto del nostro sistema tributario, non si trova più traccia nel disegno di legge del governo, dove si tassano i redditi netti accertati e non, come si sarebbe dovuto, i redditi netti già ridotti ad imponibile, ossia diminuiti in quelle proporzioni che il legislatore del passato, più sapiente di quello odierno, aveva concesso ai redditi del lavoro, dell’industria e del commercio. Cosicché, a parità di reddito, pagheranno ugualmente impiegati e proprietari di case, professionisti e proprietari terrieri, industriali e detentori di titoli di stato, commercianti e possessori di obbligazioni fondiarie a reddito certo e fisso. Se questa sia «imposta personale» lascio giudicare a chiunque. La personalità, che è vanto nostro e conquista recente del più squisito diritto tributario, c’è solo nel titolo, non nella sostanza della nuova imposta.
A sminuire il carattere di personalità concorre una disposizione caratteristica contenuta nell’articolo 33, la quale dice: «Si comprendono nella denuncia per l’applicazione dell’imposta anche redditi che godono di esenzione temporanea o speciale». Quale il significato delle parole di colore oscuro?
È difficile afferrarlo subito in tutta la sua estensione. Par certo, però, che si siano volute rinnegare le conseguenze più benefiche della recente legislazione a favore del mezzogiorno e delle isole. Con questa si erano concesse esenzioni quinquennali, decennali, ventennali, ecc., a coloro i quali importassero nuove industrie, nuove utilizzazioni di forze idrauliche, o rimboschissero terreni franosi ed abbandonati. Il legislatore aveva detto: poiché si tratta di iniziative di grande interesse pubblico, poiché i coraggiosi, i quali si renderanno benemeriti del risorgimento agrario ed industriale del mezzogiorno, dovranno nel primo quinquennio, o decennio, o ventennio correre tanti rischi da potersi fondatamente presumere che essi non abbiano reddito (frutta una industria nuova sul serio per i primi 5 o 10 anni o frutta una foresta prima dei 20 anni?) così essi devono essere esentati dalle imposte sui terreni, sui fabbricati e sulla ricchezza mobile. Oggi vien fuori il governo, il quale sembra preso da uno strano furore contro il mezzogiorno (anche da altri punti di vista la riforma tributaria danneggia le regioni meridionali) e dice: quelle esenzioni rimarranno ferme per i vecchi tributi, ma è come se non esistessero per la nuova imposta progressiva. La riduzione del 30% nell’imposta erariale sui terreni concessa al mezzogiorno avrà effetto rispetto al nuovo tributo? Ne dubito forte, perché l’articolo al capoverso 4 dice che per conoscere il reddito dei terreni si moltiplica per 10 l’imposta erariale, ed al capoverso 6 dice, come sopra si è visto, che non si tiene conto delle esenzioni temporanee e speciali; quindi pare, a meno di espliciti emendamenti, che si debba moltiplicare per 10 la vecchia imposta non diminuita del 30%. Anche sotto questo rispetto, dunque, l’imposta è tutt’altro che «personale», perché colpisce redditi dichiarati inesistenti da leggi precedenti.
Né soddisfano le norme relative alla deduzione dei debiti. L’articolo 31 dice a questo proposito che si dedurranno le passività che sono a carico del possessore e delle quali sia legalmente comprovata l’esistenza, purché risulti che delle stesse si è già tenuto conto nella tassazione del creditore agli effetti dell’imposta di ricchezza mobile. Tutto ciò corre liscio sulla carta, ma darà luogo a difficoltà non piccole nell’applicazione e ad ingiustizie stridenti. Non parliamo dei debiti per cambiali o chirografari che rimarranno occulti al fisco; poiché in questo caso il debitore, se pagherà l’imposta su un reddito che non ha, perché gravato dal debito occulto, avrà ciò fatto per sua volontà, con parziale espiazione della sua frode. Tutti sanno però che alle solite specie di mutuo si sono aggiunte nuove maniere, come, ad es., quelle risultanti dai contratti di anticipazione e di riporto. I debitori, che hanno ottenuto anticipazioni su titoli o su merci, come faranno a dimostrare che il loro creditore ha pagato, per quell’operazione, l’imposta di ricchezza mobile e come potranno ottenere la deduzione per un debito che essi di fatto hanno? Se il creditore, come quasi sempre accade, è una banca, questa non sarà stata tassata per il titolo di creditore, ma per il titolo di banchiere; né pare quindi si possa tenere conto della imposta di essa pagata, per il complesso della sua industria bancaria, a sollievo del debitore. O almeno dal testo della legge non si riesce a capire come queste passività potranno essere accertate; e nasce il pericolo che il regolamento futuro, sempre più fiscale della legge, sancisca irreparabilmente una sperequazione per cui moltissimi debitori (specie nelle regioni più evolute, dove i mutui sotto forma di anticipazione o riporto hanno una importanza grandissima) siano costretti a pagare su redditi inesistenti.
Il secondo carattere che il disegno di legge attribuisce alla nuova imposta, quello di essere «progressiva», è innegabile; ma è innegabile del pari che si tratta di una progressività grossolana, di un tipo oramai superato. Il sistema seguito è il seguente: detratte sempre 5.000 lire, alla somma residua si applica un importo dell’1% se il reddito non supera le 10.000 lire, del 2% se il reddito non supera le 30.000, del 3 fino alle 70.000, del 4 fino alle 100.000, del 5 fino alle 200.000 e del 6% oltre le 200.000 lire. Qualunque studente d’istituto tecnico o d’università, a cui venga presentata questa scala di aliquote, sa che essa è difettosa perché procede a sbalzi repentini e forti. Quali saranno invero le imposte pagate da coloro che si troveranno al limite o vicinissimi al limite da una categoria all’altra? Ecco per esempio che cosa capiterà a due contribuenti con 15.000 e 15.100 lire di reddito:
A | B | |
Reddito | L. 15.000 | L. 15.100 |
Deduzione | L. 5.000 | L. 5.000 |
Reddito tassabile | L. 10.000 | L. 10.100 |
aliquota | 1% | 2% |
Imposta pagata | L. 100 | L. 202 |
Colui che abbia 100 lire di reddito più di un altro (od anche magari 1 lira sola di più) pagherà 102 lire di più di imposta. Nel passaggio da 30.000 a 30.100 lire di reddito tassabile l’imposta balza da 600 a 903 lire, da 70.000 a 70.100 lire di reddito si va da 2.100 a 2.804 lire di imposta; da 100.000 a 100.100 lire si passa da 4.000 a 5.005 lire d’imposta e così via. Qualunque studente sa anche indicare la maniera o le maniere tenute per togliere cotesto grave difetto, il quale urta il senso di giustizia distributiva e spinge alle frodi i contribuenti poco superiori ai limiti tra una categoria e l’altra.
Si può, ad esempio, seguire il sistema di Milano (ci sia consentito di citarlo ancora una volta, a spiegare come le riforme si possano fare e non solo enunciare, assai più facilmente, quando siano studiate e rispondano ai principi accolti di giustizia), il quale consiste nel fare molte categorie di redditi. Il governo da 5.000 a 200.000 fa appena sei categorie di redditi; Milano da 600 imponibili a 100.000 ne istituì trentasette. Le molte categorie fanno sì che l’aliquota, invece di saltare bruscamente dall’1 al 2, al 3, ecc., può progredire in maniera più continua dall’1 all’1,05, all’1,10, dal 2, al 2,5, ecc. ecc. Il passaggio da una categoria all’altra produce uno spostamento di qualche lira e non di centinaia di lire, e diventa quindi poco sensibile.
Oppure si poteva seguire l’esempio del legislatore italiano del 1902 (non vado a cercare esempi stranieri), il quale, volendo rendere progressiva l’imposta di successione, applicò le aliquote successivamente più elevate non su tutto l’ammontare della quota ereditaria, ma solo sul sovrappiù oltre il limite precedente. Per essere chiari e rifacendo l’esempio precedente del contribuente avente 15.100 lire di reddito, ridotte a 10. 100 tassabili, questi dovrebbe continuare a pagare l’1 per cento sulle prime 10.000 di reddito e il 2 per cento solo sul sovrappiù di 100 lire; cosicché pagherebbe lire 102, che sono in giusto rapporto con le 100 lire pagate da chi ha 10.000 lire di reddito tassabile. Naturalmente si sarebbe certo dovute cambiare le aliquote volendo sempre ottenere i previsti 25 milioni di lire. L’imposta avrebbe avuto un andamento continuamente progressivo e non saltellante in guisa capricciosa, come ha quella proposta dal governo.
II
Se l’imposta personale progressiva sull’entrata non è personale ed è malamente progressiva, essa non è neppure una imposta sull’entrata, qualora almeno si voglia dare alla parola «entrata» il significato di reddito netto complessivo o globale del contribuente. Non può invero dirsi tale una imposta la quale non abbia provveduto prima alla scoverta ed all’accertamento dei redditi. Si potrà dare a quel tributo un qualunque nome, magari di imposta sull’entrata, ma non si sarà dato ad esso natura di imposta sul reddito.
Una prima osservazione si impone e fu già fatta da parecchi: il nuovo tributo colpisce, in via di massima, i redditi quali risultano dagli accertamenti attuali per le imposte sui terreni, sui fabbricati e sulla ricchezza mobile, e poiché questi redditi non sono i redditi veri, e nemmeno vi si approssimano, così è logico dedurre che la nuova imposta a primo aspetto ci si presenta come una semplice sovratassa ripartita su imposte per indole loro sperequate. Notisi che, se l’imposta – base è sperequata, la sovratassa progressiva acuisce a dismisura la sperequazione. Siano due proprietari di terreni che hanno amendue un reddito effettivo di 12.000 lire; ma l’uno secondo il catasto figura di avere un reddito di 5.000 lire e l’altro di 8.000 lire. Il primo non pagherà affatto la nuova imposta, mentre il secondo pagherà l’1% sulla differenza tra 8.000 e il minimo esente di 5.000 lire, ossia pagherà lire 30. Un creditore ipotecario che ha pure un reddito netto di 12.000, tutte colpite dalla imposta di ricchezza mobile, pagherà l’1% sulla differenza fra 12.000 e 5.000 lire, ossia pagherà lire 70. Ecco tre contribuenti che pure avendo redditi identici, per effetto della sperequazione inerente alle imposte odierne, pagano il primo zero, il secondo 30 ed il terzo 70 lire. L’esempio citato non è esagerato; chiunque abbia conoscenza dei ruoli delle imposte dirette può citare a dovizia casi consimili.
Il governo ha sentito che occorreva fare qualcosa per rimuovere la fondamentale obiezione che poteva essere mossa alle sue proposte; e bisogna riconoscere che ha cercato di correre ai ripari. Senonché disgrazia ha voluto che i mezzi da lui escogitati siano in gran parte o fiscalmente feroci o grossolanamente erronei. L’on. Luzzatti ha già messo eloquentemente in luce la ferocia di taluni provvedimenti escogitati per giungere alla scoperta dei redditi mobiliari. Il diritto riconosciuto agli agenti delle imposte di ispezionare i registri delle società in nome collettivo e in accomandita semplice; e l’altro diritto di esaminare, in caso di successione, perfino i libri di commercio dei privati industriali e commercianti, diritto che sarà utilissimo anche ai fini delle imposte dirette, sono armi tipiche che si vogliono porre in mano al fisco nella frenetica lotta ingaggiata coi contribuenti per la scoperta del reddito.
Se le armi fossero atte a raggiungere lo scopo, sarebbe doveroso accettarle; ma esse né sono atte a quel fine né possono essere adoperate sul serio senza danno gravissimo della economia industriale e commerciale. L’unico effetto sarà che i contribuenti, vistisi minacciati così da vicino, ove essi tengano i libri di commercio in modo esatto, o non li terranno affatto o li falsificheranno su vasta scala. Eserciti di ispettori dovranno tenersi pronti a piombare inaspettati negli uffici delle ditte private per prendere visione dei libri veri ed evitare il pericolo che il contribuente presenti il doppione appositamente elaborato per il fisco. In questo gioco di astuzia, chi uscirà vittorioso sarà talvolta il fisco contro il contribuente onesto ed ingenuo, e più spesso il contribuente, divenuto sospettoso e disonesto, contro il fisco rapace. Le sperequazioni non che scemare cresceranno a dismisura; e le case accreditate, vecchie, cui una antica tradizione di onestà verso i clienti ed i corrispondenti imporrà di tenere i propri libri in ordine saranno sopraffatte nella concorrenza dalle ditte nuove o poco scrupolose, che nel timore delle inquisizioni fiscali troveranno un eccellente pretesto per giustificare la propria disonesta condotta. O non son tutti d’accordo nel ritenere che la facoltà di esaminare i libri sociali oggi concessa agli agenti delle imposte per le sole società anonime e in accomandita per azioni sia una delle cause precipue per cui i bilanci e i libri sono compilati in maniera sibillina in guisa che le società buone non possono mettere in luce i loro giusti e previdenti ammortamenti, mentre le società cattive possono pretendere di avere anch’esse di nascosto fatto quegli ammortizzi a cui mai non pensarono? Non è forse aspirazione antica di tutti coloro che conoscono il grave malanno che si trovi modo di tagliare alla radice ogni ragion di litigio fra contribuente e fisco tassando le società sui dividendi distribuiti? Ecco ora il governo proporre di estendere sempre alle società in accomandita semplice e in nome collettivo e saltuariamente anche ai privati il mai seme della discordia e della frode!
Sia lecito esprimere una convinzione, che so condivisa da parecchi dei migliori funzionari degli uffici esecutivi delle imposte, a cui rincresce sprecare energie e tempo nella diseguale lotta contro i contribuenti privati. Non multe fortissime, non feroci inquisizioni, non eserciti di ispettori varranno ad avvicinarci alla perequazione nell’accertamento dei redditi professionali, industriali e commerciali; ma varrà assai la collaborazione dei contribuenti stessi. Il giorno che i contribuenti fossero divisi in categorie di industrie, commerci e professioni e fossero chiamati a distribuirsi tra loro un dato contingente d’imposta (e per cominciare l’attuale gettito dell’imposta per quella categoria e città determinata), la ripartizione avverrebbe in maniera quasi idealmente equa; ed il fisco alla lunga troverebbe un tornaconto grandissimo nel lavarsi le mani della brutta bisogna di dover scovrire redditi che sono e saranno mai sempre nascosti ai suoi satelliti e alle sue minacce di multa. L’idea espressa in forma grezza, meriterebbe di essere largamente svolta; ma per i redditi dei professionisti, industriali e commercianti privati è forse la via di salvezza.
Volgiamoci ora agli altri redditi. L’obbligo fatto alle amministrazioni dello stato, provincie, comuni, società civili e commerciali di comunicare all’agente delle imposte i redditi dei possessori di titoli nominativi incontrerà difficoltà di esecuzione. È però inaccettabile l’idea che la denuncia debba essere fatta solo per i contribuenti designati dall’agente delle imposte.
Una norma la quale avrebbe potuto riuscire alla scoperta di tutti i percettori di redditi provenienti da titoli nominativi, si convertirà in un’arma di persecuzione contro quei soli contribuenti che l’agente delle imposte arbitrariamente supporrà possano aver più di 5.000 lire di reddito. Quelli che, per loro fortuna, portano un nome ignoto alle agenzie, che non figurano già per altri motivi sui ruoli, nulla pagheranno. Una formula cosiffatta è davvero inconcepibile: o tutti sì, o tutti no, ma non alcuni sì ed altri no a capriccio della scienza od inscienza dei funzionari fiscali. A poco o nulla servirà l’altro obbligo fatto agli stessi enti di comunicare se una persona designata possegga titoli al portatore. Si può essere sicuri che, a partire dal 1911, i cuponi dei titoli al portatore saranno tutti presentati all’esazione da nullatenenti.
Di passata si può porre la domanda: potranno i possessori di rendita pubblica 3,75-3,50% essere tassati colla nuova imposta sul reddito? Per rispetto alla astratta giustizia tributaria, indubbiamente sì. Ma è possibile colpirli, dopo la solenne promessa che il nuovo titolo è esente da ogni imposta presente o futura? conveniente colpirli, mentre ancora deve la rendita ridursi al 3,50% e lo stato ha gran bisogno di ricorrere al credito?
Se male si è provveduto ad accertare i redditi mobiliari, malissimo si è pensato ai redditi fondiari. Per i fabbricati l’unico provvedimento, da molti invocato, e da tutti riconosciuto come giusto, era la revisione generale dei redditi, che oggimai si impone dopo l’ormai annosa revisione del 1889. Invece si terranno fermi i redditi risultanti dall’accertamento attuale, a meno che da contratti di affitto o da altri elementi risulti un reddito maggiore di quello indicato nei ruoli. È equo si voglia tener conto solo delle variazioni in più a vantaggio del fisco e non delle variazioni in meno a vantaggio del contribuente? Vi sono molti comuni, specie minori, disertati dall’urbanismo e dall’industrialismo, dove i redditi legali son superiori ai redditi effettivi. Ai proprietari di fabbricati si dice : non solo voi non otterrete la revisione del reddito dei vostri fabbricati, come pure sarebbe stretta giustizia, ma per soprammercato sarete colpiti da una nuova sovratassa anche sulla parte del vostro reddito che non esiste.
Più lacrimevole è il metodo tenuto nell’accertamento del reddito dei terreni. Anche qui giustizia voleva che, pur rassegnandosi a tassare alla carlona per ora, si fosse preparata la via ad una equa ripartizione del tributo con l’acceleramento dei lavori di catastazione. Invece niente di tutto ciò: il reddito dei terreni si otterrà in via normale moltiplicando per dieci l’imposta erariale principale che colpisce il fondo. Poiché l’ammontare dell’imposta erariale era nella maggior parte delle provincie italiane una cifra senza senso, così la nuova imposta sarà ripartita senza alcun criterio. Però vi è un’eccezione, che qui ha significato di importanza singolare e su cui va richiamata l’attenzione degli agricoltori ed è la stessa già indicata per i fabbricati: se da contratti di affitto o da altri elementi risulta per i terreni un reddito maggiore di quello valutato come sopra si terrà conto del reddito maggiore. Di sfuggita la disposizione distrugge il catasto nuovo. Invece di miglia rare e di accelerare l’esecuzione del catasto nuovo, si crea accanto ad esso un altro ed indipendente metodo di valutare i redditi dei terreni: i contratti di affitto. Non posso, per ragione di spazio, dimostrare tutta la gravità del nuovo metodo di accertamento dei redditi terrieri: e basti dire che da secoli, scienza e pratica sono d’accordo nel condannare gli accertamenti basati sui contratti di affitto – che introdurrebbero nell’imposta sui terreni le stesse incertezze, gli stessi arbitrii e le stesse frodi e sperequazioni esistenti nelle imposte mobiliari – e nell’affermare che il solo reddito tassabile è quello ordinario, che si può accertare unicamente con un catasto geometrico-particellare periodicamente rinnovato e tenuto al corrente. Sono verità assodate fin dall’epoca del celebre catasto lombardo di Maria Teresa del secolo diciottesimo e fa pena doverle ripetere a distanza di più di un secolo e mezzo!
Che gli accorgimenti escogitati per accertare i redditi non dovessero dare buoni frutti doveva essere convinzione fermissima del governo, se all’ultimo, quasi per disperazione, creò un metodo ausiliare di controllo dei redditi globali dei contribuenti: il multiplo del valor locativo. Ecco finalmente un’idea buona, quando sia bene attuata. In sostanza si dice così: poiché gli accertamenti attuali sono incerti e sperequati, poiché le novità da noi in essi introdotte approderanno a poco o nulla, poiché le ferocie fiscali che si vogliono inaugurare moltiplicheranno le frodi, diamo all’agente delle imposte una maniera semplice, oggettiva, sottratta ad ogni arbitrio di troncare le questioni: il criterio del valor locativo. Da solo il valor locativo non è indice perfetto del reddito: ma può essere utile come strumento complementare di accertamento. Anche a Milano si adottò in fondo lo stesso principio quando si disse che «in mancanza od insufficienza di elementi diretti di accertamento dei redditi si terrà conto anche delle spese, in quanto siano sintomo di agiatezza».
Veggasi tuttavia la differenza: a Milano prudentemente non si fissò alcun rapporto rigido fra la spesa (tra cui il valor locativo o spesa per l’affitto dell’alloggio di abitazione) ed il reddito. Se per tutta Italia una regola voleva porsi, ad evitare arbitri fiscali, doveva essere tale da corrispondere al variabile rapporto che esiste tra il fitto pagato per l’alloggio e il reddito. Invece il rapporto tra il valor locativo ed il reddito varia solo in ragione della popolazione. In un comunello fino a 5.000 abitanti il fitto di casa sarà moltiplicato per 9 per avere il reddito, in un comune da 5.001 a 10.000 abitanti il fitto sarà moltiplicato per 8,5 e così via diminuisce il coefficiente di moltiplica col crescere della popolazione, finché nelle città con più di 200.000 abitanti il fitto di casa si moltiplica solo per 5 per ottenere il reddito su cui sarà tassato il contribuente. Suppergiù è una scala ragionevole perché evidentemente nei comuni più popolosi, a parità di reddito, bisogna spendere di più per il fitto di casa, che nei comuni più piccoli. Non è questa però la sola scala di cui si sarebbe dovuto tener conto; né basta che il coefficiente di moltiplico sia stato diminuito di un decimo quando il contribuente ha più di due figli secolui conviventi oppure i genitori o altro ascendente o altro parente non oltre il quarto grado a suo carico, e di due decimi quando convivano con lui più di due figli ed inoltre genitori o ascendenti o altri parenti. A questa stregua verranno messi allo stesso livello lo scapolo ed il padre di due figli: chi ha famiglia piccola di tre figli e chi è stato allietato da mezza dozzina o più di figli. Non occorrevano complicazioni di dicitura per esporre il concetto giusto in maniera soddisfacente; bastava dire che il coefficiente di moltiplico sarebbe stato diminuito di un ventesimo, a cagion d’esempio, per ogni persona vivente a carico del contribuente.
Sovratutto manca la scala dei fitti in rapporto al reddito crescente dei contribuenti. Per una famiglia borghese vivente in una gran città può ammettersi che il fisco assorba circa il quinto del reddito, così come dice il disegno di legge, e quindi accadrà che a quella famiglia, la quale paghi 1.500 lire di fitto, verrà accertato un reddito di 7.500 lire che sarà probabilmente il reddito vero. Una famiglia ricca non può d’altro canto spendere oltre ad una certa somma nel fitto di casa, sicché la proporzione di questo al reddito va via via scemando quanto più cresce il reddito. Un milionario con 200.000 lire di reddito difficilmente spenderà 20.000 lire l’anno nel fitto di casa, anche tenendo conto delle villeggiature, ed anche quando vorrà spendere tanto, gli verrà accertato un reddito di 100.000 lire, ossia la metà del reddito probabile. Basta l’esempio per dimostrare come, se il disegno di legge non riesce nell’accertamento particolare dei redditi, neppure ha saputo escogitare una correzione complessiva accettabile. La nuova imposta colpirà dunque certe cifre arbitrarie di reddito, non sicuramente però i redditi netti dei contribuenti.
III
Recenti difese ufficiose ed ufficiali dei progetti tributari governativi hanno portato la questione dell’imposta sul reddito e sulle successioni sul terreno della moralità e della giustizia. Con questo primo e piccolo inizio, con questo assaggio od embrione di imposta sul reddito (veramente non si comprende più il significato delle parole a sentir qualificare come piccola, iniziale, embrionale, quasi quasi microscopica una imposta che da sola è, in molti casi, più elevata della imposta sul reddito [income tax] inglese, della Ein-kommen-steuer prussiana e di quasi tutte le imposte sul reddito estere, le quali sono poi davvero sole e non si sovrappongono, come la nostra, ad altre imposte dirette di stato ad aliquote elevatissime) e con le piccole modificazioni alle imposte di successione e circolazione (della cui mirabile picciolezza bisognerebbe fare un discorso a parte). Si è voluto colpire il capitale mobiliare che sfugge alle imposte attuali, percuotere di più i ricchi che ora evadono i tributi ed introdurre un po’ più di perequazione nei rapporti tra classe e classe, sgravando i poveri e percuotendo i ricchi e gli oziosi percettori di cuponi, magari stranieri.
Lascio da parte per ora l’affermazione che i titoli mobiliari non paghino imposte. Strana leggenda, diffusa dall’ignoranza. O si ammette che l’imposta si ammortizzi diminuendo i valori capitali ed allora l’imposta non la paga più nessuno, né i proprietari di terreni, né quelli di fabbricati, né quelli di valori mobiliari. O si fa astrazione da quella teoria e si bada alle imposte che di fatto sono pagate dai contribuenti ed allora i valori mobiliari pagano sino all’ultimo centesimo, senza nulla poter frodare, la imposta di ricchezza mobile, quelle sui fabbricati; e sui terreni posseduti dalle società emittenti, la tassa di negoziazione, sfuggendo solo in parte all’imposta di successione, frode compensata in notevole misura da una maggiore tassa di negoziazione pagata dai titoli al portatore in confronto dei titoli nominativi. Che cosa è questo peccato veniale (bisogna chiamarlo così secondo il frasario governativo) in confronto della evasione goduta da molti fabbricati e non pochi terreni, e delle frodi ingentissime dei privati professionisti? Un nulla evanescente.
Lasciamo pure stare da un canto la leggenda della immunità fiscale dei titoli mobiliari; e riconosciamo pure, come è doveroso, onesto il proposito del governo di far contribuire di più i ricchi, di esigere maggiore onestà da coloro che ora frodano il fisco. Avvertiamo però subito che l’importante, l’essenziale non sta nell’enunciare il principio santissimo, ma nell’usare mezzi congrui, adatti a raggiungere il fine. Nulla di più banale, di più facile del principio della giustizia tributaria. Un analfabeta è capace di enunciarlo suppergiù così bene come un ministro delle finanze od un professore d’università. Non c’è nessun merito nel ripetere ciò che tutti dicono e tutti accettano. Il merito sta solo ed esclusivamente nel predisporre norme che valgano ad attuarlo davvero, sia pure con una larga approssimazione, come quella che è ragionevole richiedere in tema di balzelli. Vediamo un po’ – ad edificazione ed istruzione delle varie classi di contribuenti – che novità il disegno di legge governavo tenga in serbo per essa e se esso giunga sul serio a colpire i ricchi e ad alleviare i laboriosi.
Tizio è proprietario di terreni e, poiché la sua provincia è fra quelle in cui il catasto nuovo è già entrato in attivazione, suppone che niente di peggio gli possa capitare, se non di pagare sul reddito fondiario quale recentemente gli è stato accertato. Il catasto denuncia anzi un reddito di lire 5.000 ed egli, non avendo altri redditi, reputa perciò di essere esente. Nient’affatto. Egli ha avuto convenienza di affittare il suo fondo per 8.000 lire ed ha avuto la dabbenaggine di fare registrare il contratto. Questo sarà usato come arma contro di lui per fargli pagare la progressiva sulla differenza fra 8.000 e 5.000 lire. Secondo il disegno governativo si sarà attuata così la perfetta giustizia tributaria. Ma, poiché di questa poco cale a Tizio, che cosa accadrà in futuro? Che Tizio, dovendo stipulare un nuovo contratto di affitto, non scriverà più la cifra di 8.000 lire ma quella più bassa di 5.000 uguale al reddito catastale e si farà rilasciare dall’affittuario per le 3.000 lire di differenza altrettante cambiali quanti saranno gli anni di durata della locazione. Accadrà ancora che la durata delle locazioni diminuirà per evitare rischi di insolvenze dell’affittuario, con grave danno dell’agricoltura. In ultimo il vantaggio del fisco sarà nullo e fortissimo invece il danno dell’economia agraria.
Né basta. Tizio sa di aver diritto, ora che il reddito tassato non è più quello catastale, ma l’altro risultante dai contratti di affitto, a dedurre dalle 8.000 lire di reddito tutte le spese per riparazioni, deperimenti, lavori straordinari non a carico dell’affittavolo; e presenterà quindi una lunga lista di spese siffatte: spese di riparazioni ai fabbricati, di scasso per rinnovazione di piantamenti, di scolo delle acque, ecc. ecc. L’agente delle imposte obbietterà che queste non sono spese necessarie per conservare il reddito, ma invece riescono ad un miglioramento od aumento patrimoniale e quindi non possono essere dedotte. Le stesse contese che ora infieriscono tra industriali ed agenzie per la fissazione delle quote di ammortamento e di riparazione, infieriranno in tutti i villaggi e per tutta la distesa delle campagne italiane. Provincie a vecchio catasto ed a nuovo catasto saranno tutte affette dallo stesso morbo litigioso. O non è assurdo, non è pernicioso socialmente ed economicamente che una balorda disposizione di una legge mal studiata venga a creare tale sommovimento tra centinaia di migliaia di agricoltori, quando il catasto fu deliberato apposta per togliere tutte queste cause di litigio, e per depurare i redditi, in modo oggettivo ed uniforme, da tutte le quote di rischio, di rinnovazione, di riparazione, ecc., riducendoli dalle apparenti 8.000 lire portate dai contratti di affitto alle reali 5.000 determinate dal catasto?
Se anche, per fare un altro esempio, fosse vero che le 6.000 lire di reddito catastale di un altro proprietario fossero una media tra le 9.000 lire (sia pure nette da tutte le sovradette quote), guadagnate da un proprietario esperto, abile, amministratore diretto delle sue terre e le 3.000 lire ricavate da un ignaro assenteista, che abbandona i suoi terreni in mano a contadini ignoranti; se anche questo fosse vero, non è pericoloso tassare, agli effetti dell’imposta sul reddito, il primo per 9.000 e il secondo per 3.000 lire, annullando, non si sa perché, i benefici effetti che il catasto si riprometteva di ottenere tassando tutti e due alla stessa stregua del reddito medio ordinario di 6.000 lire? Coloro che propongono questa pestifera disposizione sono magari gli stessi che grideranno contro l’abbominio delle terre incolte e auspicheranno una imposta nuova contro gli assenteisti; dimentichi che i vecchi sapienti legislatori già avevano congegnato l’accertamento del reddito catastale in guisa da premiare i diligenti e multare gli infingardi.
Caio è proprietario di fabbricati. Finora ha sempre durato una certa difficoltà a farsi rilasciare dagli inquilini un contratto in cui, sulle 1.500 lire di fitto pagato, 1.000 lire soltanto figurassero pagate per l’alloggio e 500 lire per rimborso riscaldamento, illuminazione scala, servizi portinaio, ecc. All’inquilino sapeva male di rendersi complice di una frode contro il fisco, quando gli era ben noto che i servizi diversi a gran fatica potevano andare fino a 200 o 300 lire. D’ora innanzi l’inquilino, sapendo che il suo reddito sarà presunto in un multiplo (5 volte a Milano) del fitto pagato, si troverà in commovente accordo col proprietario. probabile che gli offra persino cambiali, a scadenze rateali, purché Caio gli usi il favore di non far figurare sul contratto, tra fitto ed accessori, disordinatamente cresciuti, più di 1.000 o 1.200 lire, convertendo il resto in un credito cambiario. Chi farà le statistiche del futuro, a vedere una siffatta discesa nel livello dei fitti, reputerà che l’Italia dopo il 1911 abbia attraversato una terribile crisi edilizia.
Primo è un commerciante od industriale che ha stretto con altri società in nome collettivo od in accomandita semplice. Egli è a capo dell’azienda e colla sua iniziativa, col suo spirito di organizzazione, col suo intuito l’ha saputa condurre ad un alto grado di prosperità. Offerte cospicue gli furono fatte, negli anni della borsa allegra, dal 1905 al 1907 perché egli consentisse a convertire la sua intrapresa in società anonima. Non consentì mai, quantunque avrebbe fatto un ottimo affare ed avrebbe intascato una rotondetta somma di qualche milione. Egli è un orgoglioso, della razza di quelli che conquistano i mercati e che fanno la fortuna di un paese. uno di quei capitani d’industria che mai non son quieti, finché l’impresa, opera del loro ingegno, non sia giunta all’apice del successo.
Non volle mettere su di sé un consiglio di amministrazione, né volle soggettarsi a rendere ragione dei suoi atti ad un’assemblea di azionisti o all’agente delle imposte; ha sempre compatito la inferiorità delle anonime, i cui amministratori debbono far finta di non ammortizzare, di lasciar arrugginire il macchinario, debbono falsificare i bilanci, debbono assistere impotenti al discredito delle loro aziende perché, se essi dicessero il vero, l’agenzia delle imposte li tasserebbe anche su redditi che non esistono, anche sulle riserve messe da parte a prevenire le crisi dell’avvenire. Egli ha sempre disprezzata la burocrazia insipiente, che prepara le leggi tributarie, e non è ancora riuscita a comprendere che è nell’interesse del fisco di tassare le anonime sui dividendi distribuiti, allo scopo di dar loro libertà di movimento, capacità di richiamar capitali e di crescere i profitti.
Oggi egli deve amaramente riflettere sulla inanità dei sacrifici compiuti. L’agente delle imposte avrà il diritto di vedere i suoi libri, di penetrare nella vita intima della sua intrapresa, di conoscere le sue operazioni, di sapere gli stipendi pagati ai suoi più fidati collaboratori. Egli, che non ha mai amato le pastoie degli organici, ha sempre pagato stipendi e salari diversissimi ai suoi impiegati, in rapporto ai loro rispettivi meriti; ed erano tutti contenti perché ciascuno si illudeva di essere pagato forse meglio del compagno. Domani, quando l’agente delle imposte avrà il diritto di vedere i suoi libri e quindi pubblicherà, nei ruoli delle imposte, la somma precisa degli stipendi assegnati ai suoi dipendenti, il malcontento sarà organizzato fra quelli che si riterranno troppo poco pagati in confronto ai loro meriti: ed ognuno, si sa, reputa i propri meriti superiori a quelli degli altri. Primo sarà chiamato, in seguito all’inquisizione sui suoi affari, a pagare 5.000 lire all’anno di imposta; ne pagherebbe volontieri 10.000, pur di non far sapere agli altri le sue faccende, o pur di non essere costretto a sospettare che qualcuno dei controllori sia tratto a lasciarsi sfuggire, a prò dei concorrenti, preziose notizie che dovrebbero rimanere segretissime, pur di non dover sospettare in ogni suo dipendente un denunciatore dei suoi affari, a norma dell’art. 40 della legge futura. Si deciderà dunque a malincuore a diventare un falsario. Stipendierà un contabile di fiducia che terrà a parte, a casa sua (finora non si propone che gli agenti finanziari possano violare i domicili privati) la contabilità vera, completa, mentre nella sede del suo stabilimento rimarrà ostensibile una contabilità parziale. Quando tutti saranno diventati frodatori, come distingueranno i giudici tra le falsità predisposte dagli onesti a lottare contro l’inquisizione fiscale e le falsità preparate a coonestare un fallimento? Gli usi e le consuetudini, contro di cui non si possono ribellare le coscienze dei giudici, copriranno egualmente la legittima difesa degli uni e i reati degli altri.
Non gioverà a Primo disinteressare i suoi soci accomandanti e ridursi ad unico proprietario della azienda. Il fisco lo aspetta al varco dopo morto e costringe i suoi eredi a rammostrare alla finanza tutti i suoi libri, per accertare la quantità ed il valore delle merci esistenti al giorno del trasferimento per successione, la specie ed il valore degli altri beni mobili (macchine, utensili, crediti, avviamento, diritto di privativa, ecc.). Incitamento maggiore a non tenere i libri prescritti dal codice di commercio ed a tenerli in doppia serie, una vera e l’altra accomodata, mai non si vide; e gli effetti saranno amari.
Sempronio è un impiegato che ha accumulato, durante una vita di paziente rinuncia ad ogni godimento diverso dall’ordinario, un piccolo patrimonio di 30.000 lire in titoli di rendita nominativa, oltre al mobilio di casa, biancheria ed altri oggetti cari, ecc., che egli ha assicurato presso una compagnia di assicurazione per 10.000 lire, ossia per la somma che egli dovrebbe spendere se dovesse ricomprare tutte quelle cose a cui è affezionato ed a cui non saprebbe come rinunciare. Egli sapeva che, in caso di morte, i suoi figli e la moglie sarebbero stati tassati dall’imposta di successione su 30.000 lire di valore dei titoli nominativi e su un 5% in più per il valore del mobilio (lire 1.500), ossia in tutto per 31.500 lire. Sappia che in futuro il mobilio verrà calcolato al 30% del valore di assicurazione, ossia per lire 3.000; e sappia che, se i suoi figli venderanno entro 10 anni la collezione di stampe a lui cara, dovranno pagare su di essa l’imposta di successione, da cui finora andavano esenti. Si rassegni alla pubblicazione di un regolamento che darà autorità agli agenti finanziari, appena lui morto, di invadergli la casa per enumerare ed elencare le stampe sue, frugargli nei cassetti per scoprirvi raccolte di monete antiche, salvo a fare ogni tanto visite periodiche per verificare se le stampe o le vecchie monete siano ancora al loro posto.
Sempronio non assicurerà più il suo mobilio contro gli incendi ed il furto; ed i suoi figli avranno cura di disperdere per vil moneta la biblioteca paterna, innanzi che gli agenti della finanza, avuta notizia della morte, siano venuti a redigere l’inventario delle stampe del padre.
Mevio è un capitalista che ha seguito, forse senza averne mai letto i libri, i consigli degli economisti, i quali predicano la convenienza di distribuire gli investimenti fra titoli di diversa specie e di diversi paesi. Ad imitazione della grandissima maggioranza dei risparmiatori italiani, Mevio vuole avere quasi tutti i suoi denari vicino, impiegati in casa, ed il suo portafoglio contiene pochi titoli esteri di stato, qualche azione di società ipotecarie ed assicuratrici tedesche ed austriache, e sovratutto rendite italiane, obbligazioni fondiarie, ed una varietà opportunamente distribuita di azioni ed obbligazioni nostrane. Non fidandosi di tenere in casa tanta grazia di Dio, ha affittato una cassetta di sicurezza presso un istituto di credito, intestata a lui ed alla moglie congiuntamente, affinché o l’uno o l’altra potesse ritirare il deposito in caso di morte, per non pagare la tassa di successione.
Dimostra con ciò scarso amor di patria; ma egli giustifica la sua condotta osservando che tutti i suoi titoli sono già colpiti dall’imposta di ricchezza mobile e già pagano la tassa di negoziazione in surrogazione dell’imposta di successione e riflettendo che tutti fanno come lui, ove appena possano.
La tassa di bollo sui titoli esteri ha cominciato ad inquietarlo, poiché il governo ha preteso di fargli pagare l’1 od il 2% sul valore nominale dei titoli esteri, che egli possiede bensì, ma non negozia in Italia. Più lo inquietò il sapere da amici, i quali avevano depositato i titoli presso le banche, che gli agenti finanziari erano andati a sfogliare quegli incarti (dossiers) per vedere se contenevano titoli esteri. La nuova imposta sul reddito e le disposizioni mutate della tassa di successione crescono il suo orgasmo, perché da parecchi articoli balza chiaro che le banche e le casse di risparmio italiane, in cui egli ha avuto finora fiducia, saranno costrette a far da referendarie a prò del fisco contro i propri clienti. Esse devono infatti denunciare i nomi dei detentori di cassette di sicurezza (ed ogni detentore di cassette sarà un presunto capitalista, più o meno grosso a seconda delle dimensioni della cassetta, anche se egli l’ha affittata soltanto per depositarvi documenti importanti, gioie, ecc.); comunicare i nomi ed i redditi dei percettori di titoli nominativi, mettere i segugi della polizia finanziaria sulle traccie di coloro che si presentano agli sportelli ad esigere cedolette di titoli al portatore, far nota alla finanza l’esistenza di conti correnti saldantisi con una differenza a favore dei defunti. Se si tratta di una differenza a debito, non importa denunciarla e, denunciata, la finanza l’ammettere soltanto quando abbia data certa anteriore alla apertura della successione.
Mevio, che non è un risparmiatore dalla borsa piccina e dall’animo timido, non piegherà il capo a questo grandinar di minacce. Invece della cassetta di sicurezza, terrà una cassaforte in casa, farà esigere le cedolette dal portinaio, o dalla domestica o da un commesso delle imprese clandestine che si formeranno per l’esazione a mitissime condizioni dei dividendi per conto dei milionari. Nessuna assemblea di azionisti delle società anonime di cui possiede i titoli, lo vedrà mai più tra i presenti, per la paura che l’agente del fisco accerti in tal modo il possesso di titoli al portatore in mano sua; sicché cadrà in basso l’ambiente morale delle società anonime, disertate dagli azionisti e rimaste in mano, assai più di quanto già non accada, dei consigli di amministrazione e delle loro teste di legno, senz’ombra alcuna di controllo e di critica. Né si azzarderà, ove abbia qualche fondo momentaneamente disponibile, a prendere a riporto titoli nominativi per il giustificato timore di essere tassato come percettore di dividendi sui titoli non suoi, ma da lui presi a riporto. I titoli al portatore diventeranno il suo idolo, né se ne staccherà mai più.
Meglio accadrà quando gli verranno sott’occhio le circolari che le maggiori banche svizzere stanno già distribuendo a migliaia in Italia dopo l’approvazione della legge sul bollo dei titoli esteri e in maggior copia distribuiranno dopo approvate le nuove leggi fiscali. Un buon mercato simile per i servizi di banca non sarà mai stato visto. Con 20 centesimi all’anno per 1.000 lire di valore capitale (2 centesimi per ogni titolo da 100 lire, 20 lire per ogni 100 mila lire, 200 lire per un patrimonio di 1 milione) il risparmiatore godrà di parecchi servigi:
- la custodia dei titoli;
- l’incasso delle cedole e dei titoli rimborsabili;
- l’esercizio del diritto di opzione;
- il controllo di sorteggi e conversioni;
- l’assicurazione che nessuna tassa di successione sarà esatta da autorità svizzere su titoli stranieri e nessuna imposta sul reddito sarà accollata a stranieri;
- l’assicurazione che i titoli, in caso di morte del titolare del deposito, saranno consegnati ai legittimi eredi, senza che questi debbano far risultare di aver pagate le italiane tasse di successione.
Questo è il lacrimevole risultato delle norme che vogliono colpire il contribuente coi metodi della inquisizione, delle multe e della caccia all’inafferrabile. I grossi capitalisti mobiliari – quelli che il governo pretende di voler colpire – continueranno ad evadere l’imposta ed impareranno anzi nuove malizie per non pagarla. Rimarranno presi nella rete i pesciolini minuti, la media borghesia coi sudati risparmi di qualche decina di migliaia di lire, tutti coloro che hanno timore del governo italiano, ma ancora più diffidenza per l’estero, di cui non conoscono la lingua e le leggi. Il piccolo e medio industriale o commerciante, a cui lo stipendiare un contabile incaricato di tenere la vera segreta contabilità riuscirebbe troppo gravoso, pagherà tutta l’imposta. Le imprese importanti non avranno scrupolo di ricorrere ad avvedimenti contabili diversi e vi saranno spinte dalla necessità di mantenere sui loro affari quel segreto che è condizione assoluta di successo. La banca italiana vedrà diminuita la propria forza di attrazione verso la clientela, a danno della quale dovrà farsi delatrice. La Svizzera sarà il terzo che si allieterà della lotta ingaggiata tra fisco e contribuenti italiani. L’esperienza della Francia dovrebbe insegnare qualche cosa. Da quando la Francia ha abbandonato l’antica politica di accertamenti oggettivi e si volle dare il lusso di spaventare i capitalisti (una nazione dove il capitale mobile sale a centinaia di miliardi può forse darsi di questi lussi costosi), la Svizzera ed il Belgio hanno visto crescere a dismisura il proprio lavoro di banca. Le banche svizzere a Basilea e a Ginevra sono rigurgitanti di titoli depositati da detentori francesi; il Bankverein Suisse di Basilea ha impiantato una sede a Ginevra, a due passi dalla frontiera francese, per giovare alla sua nuova clientela; ed ha recentemente istituito una succursale a Chiasso per il servizio dei risparmiatori italiani, che volessero ricorrere ai suoi servigi per sfuggire ora alla tassa di bollo sui titoli stranieri e in futuro alle imposte sul reddito e sulle successioni. A Ginevra le maggiori banche francesi hanno istituito succursali che si potrebbero chiamare le succursali della frode fiscale; così la Société généraIe, il Crédit lyonnais, il Comptoir d’escompte, la Banque de Paris et des Pays Bas, mentre il Crédit industriel et commercial preferiva fondare una banca apparentemente autonoma e in realtà dipendente, la Société Belge de Crédit industriel et commercial et des depôts, che ha sede anche a Bruxelles, dove la Société générale de Paris a sua volta ha fondato la Société française de Banque et des depôts, e dove hanno filiali il Crédit lyonnais, il Comptoir national d’escompte ed altre fra le maggiori banche parigine. Le banche italiane non potranno a meno di seguire l’esempio; e noi vedremo sorgere all’estero filiali delle banche italiane apposta per aiutare il contribuente nella lotta contro il fisco.
L’insipienza dei governi francese, italiano e in minori proporzioni del tedesco avrà così dato origine ad uno dei più interessanti fenomeni economici del mondo moderno: la creazione di paesi contrabbandieri esercitanti l’industria lucrosa di difensori dei grossi capitalisti contro le velleità persecutrici dei paesi circonvicini. Istituiscasi pure una lega di mutua protezione fiscale tra Inghilterra, Francia, Italia, Austria e Germania; ma poiché non è possibile arrestare il capitale mobile alla frontiera coi carabinieri e con le guardie di dogana, la lega ad altro non riuscirà fuor che ad alzare le sorti del Belgio e della Svizzera, i due piccoli paesi-tampone, che diventeranno sempre più la mecca del milionario europeo. Poiché l’industria del custode delle grosse fortune è altamente redditizia, poiché il custode a poco a poco diventerà il consigliere apprezzato ed ascoltato del capitalista italiano e gli consiglierà, spesso con successo, di vendere ad esempio la rendita italiana troppo cara e di scarso reddito, per comprare titoli delle ferrovie federali o di società industriali belghe o svizzere o d’oltremare più redditizie, così governi e cantoni, senza alcun riguardo all’etichetta cattolica, conservatrice, radicale o socialista, andranno a gara nel far ponti d’oro ai nuovi pellegrini carichi di titoli al portatore. Il governo italiano avrà il danno e le beffe e dello scorno ricevuto non potrà rivalersi che sui pupilli, cui è obbligatorio l’inventario, e sulla piccola gente a cui mancherà il coraggio per mettersi in salvo a Chiasso ed a cui sarà scarso conforto il sapere che, se essa paga una modesta imposta, una ben più grossa dovrebbe pagare – ma non paga – il milionario suo vicino.
[1] Con il titolo La nuova imposta è un imposta sui redditi netti? [ndr]
[2] Con il titolo I frutti della mania inquisitoria e persecutoria nei disegni fiscali.[ndr]