Prefazione – L. Albertini, In difesa della libertà
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1947
Prefazione – L. Albertini, In difesa della libertà
Luigi Albertini, in difesa della libertà. Discorsi e scritti, Rizzoli, Milano-Roma, 1947, pp. IX-XVI
Nel primo rileggere, dopo tanti anni, i discorsi e gli articoli raccolti in questo volume, si sarebbe tentati di pensare che i difensori dei principii liberali contro il graduale affermarsi della tirannia fascistica – e Luigi Albertini fu in Senato e nel suo giornale il maggiore e più tenace di quei difensori – fossero sovrattutto o quasi soltanto rigidi costituzionalisti.
Non piccolo sarebbe stato ad ogni modo, ove avesse avuto seguito nei ceti dirigenti del paese, il frutto di una resistenza, anche puramente costituzionalistica, al tiranno. Parlando, al Senato, il 9 agosto 1922, sulle comunicazioni del governo e sul tentativo dell’On. Orlando di comporre un gabinetto nel quale fossero entrati al tempo stesso fascisti e socialisti, Albertini negava che, se pur esso, per assurdo, fosse riuscito, avrebbe potuto dare un ministero forte e coerente nell’azione. “Nessuna coalizione nascerà seria e promettente se chi la formerà non muterà completamente procedura, cercando di formare i ministeri non solo sui gruppi, ma anche sulle idee, anzi più sulle idee che sui gruppi. Si abbia un programma fermo e definito specialmente di politica interna e finanziaria. Tutti i partiti che lo accettano hanno diritto di collaborare alla sua realizzazione coi loro uomini migliori. Gli altri stiano pure all’opposizione. Le unanimità fanno comodo alla debolezza dei capi, non giovano al paese”. Non giova tener lontani dal governo uomini i quali accettino di collaborare in una coalizione costituita su un programma fermo e definito. “Sento tutta l’umiliazione della paura che il fascismo ha messo addosso a tanti e misuro tutto il danno che questo stato d’animo arreca alla vita pubblica. È arrivata l’ora, da una parte, di finirla con le minacce e le violenze, le quali fanno dubitare che per quella via si voglia e si possa raggiungere la restaurazione dell’autorità dello stato, dall’altra di riconoscere che il miglior mezzo per togliere ogni pretesto alle violenze è quello di chiamare i fascisti a dar prova della loro capacità a dirigere la cosa pubblica, a mantenere le promesse con le quali hanno attratto nelle loro file tanti proseliti”. Sicché, dopo avere invocato il 19 agosto la collaborazione dei fascisti ad un governo di maggioranza parlamentare, egli si duole, nella prima seduta in cui il 26 novembre si discusse al Senato sulle comunicazioni del nuovo governo, che l’avvento al potere dei fascisti fosse avvenuto per via rivoluzionaria. “Occorre essere un costituzionale intransigente, un liberale impenitente, un «malinconico zelatore del supercostituzionalismo» per dolersi che la costituzione sia stata ferita e che una tradizione cara e sacra, la quale accompagnava il nostro cammino nella storia dal 1848, sia stata interrotta. Ma io sono un costituzionale intransigente ed un liberale impenitente e, come tale, sento il bruciore di quelle ferite e l’amarezza dell’offesa arrecata ai miei ideali e non mi perito anzi sento il dovere di dirlo da questa tribuna, non per sterile recriminazione, ma per cercare alla luce di quegli ideali la via della ricostruzione… Perché l’onorevole Mussolini ed i suoi compagni di fede hanno voluto non solo vincere ma stravincere con una vittoria che ha umiliato tutti i poteri dello stato ed ha inferto alle sue istituzioni un colpo di cui è vano celarsi la portata? Non lo so: forse l’arco della violenza era troppo teso perché la freccia non partisse, ed il dispregio per la classe dirigente, che aveva fin qui monopolizzato il potere, troppo profondo perché le fosse risparmiata l’offesa di una caduta umiliante. Ma è inutile dissimularsi che quella classe dirigente, sia pure indegnamente, rappresentava la tradizione che ha fatto l’Italia e da Novara l’ha portata a Vittorio Veneto in una ascensione continua politica, economica e morale.
Anche morale, sì, perché un paese che aveva attraversato la terribile vicenda della guerra mondiale e non era stato abbattuto dopo la sciagura di Caporetto era già un paese con grande ascesa morale”. Il paese deve salvarsi grazie alle sue forze morali, non grazie alla dittatura. “Dittatura: ho detto la parola che corre sulle bocche di molti italiani da parecchio tempo in qua, da quando la nausea per il malcostume parlamentare ci fa mettere in causa la stessa costituzione. E corre non per la prima volta. Se n’è parlato molto nel 1860, quando v’era chi incitava Cavour ad assumere la dittatura. Le istituzioni parlamentari erano di fresca data, e i giorni erano grossi. Ma quel grande spirito pur nelle ore più torbide serbava fede ai suoi ideali ed alla contessa di Circourt il 29 dicembre scriveva: “Per parte mia non ho fiducia alcuna nelle dittature, specialmente in quelle civili. Credo che con un parlamento si possono far cose che all’assolutismo sono impossibili. Un’esperienza di tredici anni m’ha convinto che un ministero onesto ed energico, che non abbia nulla a temere dalle rivelazioni della tribuna e non si faccia intimidire dalla violenza dei partiti, abbia tutto da guadagnare nelle lotte parlamentari. Non mi sono mai sentito tanto debole come quando le camere erano chiuse. D’altronde non potrei tradire le mie origini e rinnegare i principi che ho professato durante tutta la mia vita. Sono figlio della libertà; ad essa debbo tutto ciò che sono. Se fosse necessario velare la statua della libertà, non sarei io a farlo. Se si riuscisse a persuadere gli italiani che hanno bisogno di un dittatore, sceglierebbero Garibaldi, non me. Ed avrebbero ragione”.
Mussolini non era né Cavour né Garibaldi. Non era così forte da dominare un paese in regime di libertà; e non poteva ritirarsi, dopo avere restaurato l’ordine e la finanza, in una novella isola di Caprera a coltivare i campi che la nazione gli avrebbe di buon grado donati. Il demone che lo agitava lo spinse prima al delitto, poi alla soppressione di tutte le libertà: di associazione, di riunione, di stampa, di discussione parlamentare.
A poco a poco la parola di Albertini si fa più calda. Non parla più il costituzionale intransigente, ma il difensore strenuo dei diritti inalienabili della persona umana.
Il delitto Matteotti mette in luce che nello statuto non sono soltanto annullati gli strumenti da esso creati per l’esercizio di un libero governo; ma è distrutta l’essenza sua medesima che è la libertà. Il 24 giugno 1924 Albertini, mosso dalla passione che lo agita dinnanzi al pericolo di veder venir meno le ragioni medesime del vivere umano, si eleva ai massimi fastigi della eloquenza parlamentare: “L’onorevole Matteotti – sia un onore per me ricorrere al suo nome – osservò testé alla camera, nel discorso che gli valse la condanna a morte, che l’on. Mussolini non si sentiva soggetto al responso delle elezioni ed aveva lasciato capire come anche in caso di insuccesso avrebbe mantenuto il potere con la forza armata. Un sì clamoroso della maggioranza ed un cenno assentivo del capo del presidente del consiglio confermarono l’affermazione del deputato socialista”. Veniva proclamata così una nuova forma politica: quella dell’uomo necessario, dell’uomo carismatico il quale ha diritto di tenere il potere sinchéa lui piaccia: “Accuso come perturbatrice nefasta degli animi una formula politica la quale erige un partito od un uomo a salvatore della patria e della patria vuole accordargli un dominio senza confini né di tempo né di spazio ed a tutti contende il diritto di contrapporglisi e di sostituirlo; di una formula, in altre parole, che rinnega ed esclude il beneficio delle lotte politiche e dell’avvicendamento dei partiti al potere. Fosse questa prigione della coscienza del mio paese la più fastosa, la più illuminata, la più ampia, parrebbe sempre angusta e opprimente a quanti più della vita amano la libertà, perché dove non c’è libertà non c’è vita vera”.
Da quel momento lo stato d’animo dell’oratore e dello scrittore diventa angoscioso. Invano egli si sforza di tradurre freddamente in formule precise i lineamenti giuridici del nuovo tipo di governo sorto dopo il 28 ottobre 1922 e rivelatosi pienamente dopo l’assassinio Matteotti ed il discorso del 3 gennaio 1925.
“1. Il nuovo regime italiano, come ebbe a dichiarare in Senato il ministro guardasigilli, rinnega la vecchia, democratica, oltrepassata distinzione dei tre poteri: esecutivo, legislativo e giudiziario. Esso, per stabilire fermamente l’autorità dello stato, accorda al potere esecutivo il diritto di riassumere in sé, secondo un criterio da stabilirsi caso per caso, anche il potere legislativo.
“2. L’esecutivo si riserba di sottoporre i suoi decreti-legge, prima o poi, separati o in blocco di qualche centinaio o di qualche migliaio, all’approvazione del parlamento, e si riserba pure, vuoi di sottoporre qualche progetto di legge ad uno dei due rami del parlamento per la sua approvazione preventiva in omaggio all’art. 3 dello statuto, vuoi di operare dietro la pressione degli interessati tutte le correzioni necessarie ai decreti-legge che risultassero sbagliati.
“3. Quanto al potere giudiziario, è posto in non cale, come fu constatato testé dal senatore D’Amelio, presidente della suprema Corte di Cassazione, l’art. 70 dello statuto il quale espressamente richiede che l’ordinamento giudiziario non sia regolato se non per legge. L’esecutivo, col decreto-legge, arriva dove vuole, tocca e fa ciò che vuole, e la magistratura deve inchinarsi al decreto-legge e riconoscerne la validità, anche quando esso manomette una libertà statutaria, anche quando assegna al potere esecutivo funzioni che spettano al giudiziario. Esperimenteranno i maggiori rigori dell’esecutivo quei magistrati, ed in genere tutti i pubblici funzionari, che dimostreranno di non volere o di non sapere intendere lo spirito e le esigenze dei tempi nuovi.
“4. La libertà della stampa non è regolata da una legge di cui l’osservanza sia sottoposta al controllo della magistratura. La stampa è invece alla mercé piena del potere esecutivo, che, attraverso i prefetti e colle armi del sequestro e delle diffide, determina ciò che essa può dire o non dire, stabilisce i limiti di una decente intesa opposizione, e sospende o sopprime i giornali che non li osservano.
“5. I diritti di associazione e riunione sono concessi a coloro soltanto a cui l’esecutivo crede di poterli accordare, in altre parole agli amici, non agli avversari del governo.
“6. Il diritto di coalizione e di sciopero compete esclusivamente ai sindacati fedeli al governo nei limiti che il governo stabilirà volta per volta”.
La ricostruzione dei lineamenti giuridici del nuovo regime acquista in bocca sua sapore di ironia amara e di disperata angoscia. Sicché, quando il 13 maggio 1928 si discute il disegno di legge detto di “riforma della rappresentanza politica”, la cui sostanza sta nella soppressione della camera elettiva, la protesta di Albertini diventa accorata: “Superstite di un liberismo che alla sconfitta non può accettare il disonore, memore del giuramento prestato entrando in quest’aula, sento il dovere di riaffermare in quest’ora, proprio in quest’ora, fede incrollabile in quei principii che il disegno di legge sottoposto al nostro esame condanna e rinnega e di alzare con commozione profonda la mia voce in difesa del vecchio, ma glorioso e ricco di linfe immortali, statuto del regno”.
Innanzi alla abolizione della camera elettiva, Mussolini aveva soppressa la libertà di stampa ed aveva ridotto i giornali allo stato di bollettini incaricati di registrare la voce del padrone. Nella seconda parte del volume è contenuta una silloge degli articoli più significativi pubblicati da Luigi Albertini dall’8 marzo 1923 al 29 novembre 1925, giorno nel quale egli, insieme col fratello Alberto, si accomiatava dal giornale portato da lui a così grande altezza. Tutti quegli articoli come i discorsi, sono vivi oggi come ieri. Ve n’è uno, che vorrei fosse meditato ed è quello nel quale Albertini difende la sua professione di giornalista e di direttore di giornale. In risposta ad un ordine del giorno di deplorazione svolto al consiglio comunale di Milano contro il Corriere della sera, egli delinea in parole lapidarie il compito del pubblicista consapevole del proprio dovere morale, e conclude:
“Certo un giornale può errare, ed errare gravemente, come errano i partiti, i parlamenti, i governi, come tutti errano quaggiù. E sconta anche il giornale gli errori che commette, perché influiscono molto sul suo prestigio, sulla sua prosperità, sulle sue possibilità di esistenza. Ma esso, se non è organo aperto di un partito o di un interesse, se è libero cioè ed ha una sua figura intellettuale e morale ed una tradizione da custodire, non accetta, e per la dignità sua non può accettare, sindacati e controlli che abbasserebbero quella figura, distruggerebbero quella tradizione. Il giornalista ed il giornale indipendenti, se anche non giungono dove l’on. Mussolini è giunto, a considerare cioè il giornalismo come una autorità che ha diritto di sovrapporsi a quella del parlamento, pensano al postutto che il cammino ascensionale del paese è la risultante di forze contrastanti, e ognuna di esse compie pertanto la sua utile funzione. L’essenziale per un organo di stampa è di rappresentare una forza sua, di portare un suo contributo di idee e di azione nella lotta politica, di non essere il portavoce degli odi, degli entusiasmi, delle passioni del momento, di mirare lontano anche col proprio sacrificio.
Allora, anche se sbaglia, acquista una fama di sincerità, di galantomismo, di indipendenza che ha ragione di tutte le bufere e ride di tutte le ingiurie e di tutti gli ordini del giorno”.
Dico che le parole di Albertini debbono essere meditate ancora oggi. Dinnanzi al succedersi degli atti distruttori delle libertà conquistate con tanta fatica, a lui pareva di non potere più respirare. Che cosa era in sostanza accaduto negli anni dal 28 ottobre 1922 al 1925, durante gli anni della demolizione graduale dell’edificio costituzionale costrutto a poco a poco, pietra su pietra, in settantacinque anni? Contro che cosa protestava Albertini, innalzando la sua voce nell’aula del Senato e negli articoli del Corriere in difesa dello statuto del 1848? In verità, la sua protesta mirava più in alto: non in difesa del pezzo di carta elargito nel 1848 da Carlo Alberto, ma contro la mancanza nei ceti dirigenti e nel popolo della volontà di trasformare quel pezzo di carta in imperativi categorici, così vivamente sentiti ed ubbiditi da tutti da rendere impossibile l’avventura di chi osasse negarli. Una costituzione vive sinché nessuno osa infrangerla; e nessuno osa perché sa che l’orrore per la sua azione sarebbe in tutti così grande da fare immediatamente il vuoto intorno a lui da rendere impossibile la sua offesa contro le libertà essenziali del cittadino. Oggi di dibatte il problema se il socialismo, la pianificazione, l’interventismo statale negli affari economici siano compatibili con il rispetto delle libertà individuali, della libertà di opinione, di stampa, di associazione, di lavoro, di libera scelta dei beni da produrre e da consumare. Uno scrittore valoroso, il von Hayek, ha messo in guardia gli anglo-sassoni contro il pericolo di cadere a poco a poco nel regime di costrizione universale e di soppressione delle elementari libertà economiche che è proprio dei totalitarismi fascistici e collettivistici.
Noi italiani, che di quel regime abbiamo fatto lunga esperienza, siamo agevolmente persuasi a reputare grave il pericolo di ricadere in esso ed a dar gran peso ai primi passi compiuti sulla via che dalla pianificazione può condurre al totalitarismo. È tuttavia fatale, è logicamente inevitabile che il socialismo distrugga la libertà? Direi che alla domanda si possa rispondere negativamente, solo se nel paese dove l’esperimento si compie sia vivo ed operante quello che io chiamo l’incantesimo della libertà.
Se nel paese molti uomini sentono, come Luigi Albertini sentiva, profondo l’orrore quasi fisico contro le menomazioni della libertà proprie dei piani concordati dall’alto, noi siamo sicuri che quei piani, sebbene comandati dall’alto, saranno anche voluti e consentiti da tutti, non, s’intende, consentiti dal suffragio, per evidenza assiomatica bugiardo, del 99 per cento dei votanti nelle elezioni generali, ma dal suffragio consapevole quotidiano dei partecipanti al piano, dalla collaborazione volontaria comune voluta del parlamento, dalla assenza di indifferenti e di oppositori. Se in tempo di pace si riesce a creare un clima di entusiastica collaborazione spontanea di tutti al piano venuto dall’alto, si riproduce il clima di ansia patriottica il quale ha persuaso, durante le due grandi guerre passate, i cittadini a rinunciare alle loro libere scelte in ossequio al fine supremo della difesa della patria. Se e fino a quando esisterà in Inghilterra un clima di collaborazione spontanea dei cittadini al volere comune, i laburisti inglesi non sentiranno l’incompatibilità fra piani socialisti e libertà individuali; ed il libro “La strada della servitù” di von Hayek riuscirà di fatto alla loro mente incomprensibile. Se tutti gli italiani fossero stati veramente consapevoli di quel che voleva dire essere fascisti, se il corporativismo fascistico fosse stato sul serio attuato dalla libera volontà dei datori di lavoro e dei lavoratori, il regime, pur totalitario, sarebbe stato tirannico? Ma l’ipotesi che tutti pensino e vogliano ad un modo è siffattamente lontana dalla realtà di tutti i tempi e di tutti i paesi, che il problema del modo di difendere la libertà dei meno contro la tirannia dei più, o quella dei più contro i meno divenuti ceto dirigente, sarà mai sempre vivo. Ne` esso potrà mai essere risolto senza l’esistenza di un incantesimo, che Albertini pareva identificasse col rispetto allo statuto del 1848.
In verità anch’egli sentiva che l’incantesimo, il quale impedisce ai tiranni di nascere, andava ben oltre il rispetto allo statuto albertino. Il 4 dicembre 1924 Mussolini chiudeva una memoranda discussione al senato dichiarando: “Nella grande piazza di Cremona, davanti ad una moltitudine immensa di popolo, ho detto che riconoscevo i diritti della nazione e i diritti imprescrittibili di S. M. il Re. Dico S. M. il Re Vittorio Emanuele III di Savoia; ma quando si tratta di S. M. il Corriere della sera, allora no”. Ho sempre vivo davanti agli occhi lo spettacolo dell’assemblea in piedi plaudente, quasi unanime – pochi rimasero seduti in silenzio – alle parole del dittatore. La folla, e quella era in quel momento una folla, anche se composta di senatori, non sentiva più l’incantesimo della libertà, l’incantesimo del rispetto alle autorità sociali naturali. Quella folla non sentiva che, al di là ed al di fuori dei poteri stabiliti dalla carta costituzionale a tutela della libertà e quindi della vita dei cittadini, esistono altre forze ben più atte a quella tutela; e queste forze si chiamano opinione pubblica, senso del diritto, coraggio nel manifestare pubblicamente le proprie idee non asservite da alcun governo, ad alcun partito, ad alcun interesse. Quella folla non aveva capito che in dati momenti un giornale e parecchi giornali possono avere conquistato, meritatamente, una siffatta maestà, che i governanti sono costretti ad ubbidire ad essi, come se fossero davvero re o capi di stato. Mussolini aveva compreso che gli organi dell’opinione pubblica, se liberi, l’avrebbero cacciato via; ed un mese dopo pronunciava il discorso del 3 gennaio 1925.
Veniva meno così, in un silenzio destinato a durare ancora quasi vent’anni, l’incantesimo che sino ad allora aveva serbato in vita il rispetto alle norme statutarie; incantesimo che io identificherei colla esistenza di una fede profondamente sentita da tutti nel principio che talune cose non si fanno perché non si debbono fare; e se qualcuno ciononostante fa quel che non si deve, egli è istintivamente messo al bando della società civile.
Purtroppo, quella fede non era sentita in Italia se non da una piccola minoranza; epperciò persino un tiranno da operetta riuscì a parere un dittatore. Oggi quell’incantesimo, grazie al quale il trionfatore politico reputa primo dover suo il rispetto della minoranza vinta, quell’incantesimo il quale faceva dire al mugnaio di Sans-Souci: “Maestà, ci sono dei giudici a Berlino!” ; al primo giudice Marshall, dinnanzi a presidenti e legislatori insofferenti del suo controllo di costituzionalità delle leggi: “Chi casserà le mie sentenze?” e più recentemente faceva dare ad un giudice della Corte suprema a Roosevelt, impaziente del controllo giudiziario sulla sua legislazione innovatrice, la severa risposta: “Signor presidente, il giudice sono io!”, non è ancora rinato vivo ed operante in Italia.
E perciò la libertà riconquistata è ancora una assai fragile cosa, che un colpo di vento può abbattere.
Le pagine insigni di oratoria politica e di giornalismo raccolte nel volume di Luigi Albertini non sono dunque un mero ricordo di tempi dolorosi passati. Esse sono sovrattutto un ammonimento perenne a difendere il bene massimo perduto e miracolosamente riavuto. Né saremo atti a difenderlo se, come egli diceva, noi non saremo convinti che la libertà, la libertà umana intera, non gli aspetti economici e politici di essa è il bene supremo senza di cui la vita non vale la pena di essere vissuta; e se noi non saremo decisi a perdere la vita pur di non perdere quella libertà, che è la sola ragione della vita.