Fiscalismo sociale ed acqua potabile
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/03/1911
Fiscalismo sociale ed acqua potabile
«La Riforma Sociale», marzo-aprile 1911, pp. 177-183
La leggiadra istoria fiscale che abbiamo narrata nel fascicolo decorso, ha già avuto una coda. Evidentemente l’amministrazione finanziaria non si fida a bastanza della acquiescenza consueta delle commissioni delle imposte dirette. Potrebbero esservi dei giudici sordi all’appello alle necessità fiscali; ed il bel piano architettato per incorporare nei fabbricati le condutture correnti per miglia e miglia in aperta campagna o nel sottosuolo delle strade cittadine potrebbe rovinare.
È più comodo far risolvere le controversie dubbie dal Parlamento. Non è questo l’incarnazione viva della sovranità popolare; non può forse mutar colore alle cose ed, erede della “volontà del Principe”, sostituire il suo buon piacere all’osservanza delle leggi che solo i giudici dovrebbero interpretare?
Ricordiamo il punto del dibattito. Il legislatore, dovendo definire che cos’era fabbricato industriale, all’art. 5 della legge 26 gennaio 1865 disse che erano opifizi, assoggettati all’imposta sui fabbricati, le costruzioni destinate all’industria e munite di meccanismi ed apparecchi fissi, ed all’art. 7 della legge 11 luglio 1889 specificò che nell’accertamento del reddito degli opifizi debbono considerarsi come parti integranti dei medesimi i generatori della forza motrice stessa, quando siano connessi od incorporati al fabbricato; ma che non sono da considerarsi come tali le trasmissioni e le macchine lavoratrici.
Per un pezzo, nel caso speciale degli impianti per acqua potabile, il fisco se ne stette quieto. Reputava esso, e con lui reputavano tutte le persone di buon senso, che il concetto del fabbricato industriale dovesse limitarsi agli edifici veri e propri forniti di forza motrice, inservienti per l’estrazione dell’acqua dal sottosuolo o per la sua presa dai laghi o fiumi naturali o dai serbatoi artificiali. Dal fabbricato reputavasi escluso tutto ciò che aveva attinenza ad operazioni industriali, come le pompe o meccanismi atti all’estrazione ed i mezzi tecnici atti a convogliare l’acqua alla città. Le condutture erano bensì costrutte in muratura od in tubi di ferro; ma a nessuno era caduto in mente di considerarle parte integrante del fabbricato, perché quando entra in scena la conduttura, da tempo le operazioni industriali dell’estrazione, della depurazione, ecc., sono già state iniziate e cominciano anzi appunto, coll’immissione dell’acqua nelle condutture, le operazioni commerciali: trasporto della merce prodotta e sua distribuzione ai consumatori. Nulla toglie all’indole strettamente commerciale della funzione del “trasporto” il fatto che questo non avviene su carri serbatoi o in botti, come si faceva al buon tempo antico e come si fa in alcuni paesi assetati delle Puglie, dove l’acqua si vende a un soldo al litro. L’acquedotto è un mezzo tecnico più perfezionato, che gli uomini adottarono e che i Governi favorirono, allo scopo di ridurre il costo dell’acqua e di distribuirla largamente a prò della salute e dell’igiene. Il mezzo tecnico diverso e più perfetto non può aver cambiato natura all’operazione commerciale: impresa di trasporto. Se l’esercente ricaverà utili dalla sua industria o dal suo commercio, quegli utili saranno colpiti dall’imposta sui redditi di ricchezza mobile. Non può il fisco, per ricavare un provento più cospicuo, per assicurarsi un reddito più sicuro (si sa che l’imposta sui fabbricati è quasi immutabile e certamente assai meglio fissa di quanto non sia l’imposta di ricchezza mobile), torcer il significato delle cose e far diventare investimento edilizio ciò che è aleatoria operazione commerciale.
Comunque sia, la questione era dibattuta dinanzi al magistrato tra fisco e contribuenti. Ragion voleva – ed era imposto dalle norme più evidenti del rispetto alla legge – che il legislatore si trattenesse dal far pendere subdolamente la bilancia del torto e del diritto a favore di sé stesso, parte in causa, come rappresentante della sovranità dello Stato.
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Accade invece che il fisco, timoroso forse di vedere la sua tesi respinta dalle magistrature competenti, pensò di far risolvere, sperando che il Parlamento non si accorgesse del tranello teso alla sua buona fede, la questione, inserendo un opportuno inciso nella legge benefica la quale intende a dare agevolezze ai Comuni per la provvista dell’acqua potabile.
Quale agevolezza migliore dell’esenzione pei comuni dall’imposta sui fabbricati? Si era aggiunto dapprima che l’esenzione si sarebbe data per l’acqua destinata ad uso pubblico, quasi a mettere in rilievo che, ove difettava lo scopo di lucro, mancava la possibilità medesima di concepire l’imposta. Parve in seguito ai difensori dei comuni che la limitazione all’uso pubblico avrebbe fatto sorgere controversie intorno al carattere, pubblico o meno, della vendita dell’acqua ai privati, anche al costo, ed avrebbe dato luogo a controversie interminabili; onde tra Governo e Commissione si concordò un articolo 12, che fu testualmente approvato, il quale dice: “L’imposta sui fabbricati, stabilita dall’art. 1 della legge 26 gennaio 1865, numero 2136, non è applicabile ai comuni ed ai consorzi, per le costruzioni, le tubature e i macchinari destinati alla provvista dell’acqua potabile”.
Bisogna confrontare questo articolo con l’articolo primo della legge 26 gennaio 1865, il quale dice: “i fabbricati, ed ogni altra costruzione stabile, sono soggetti all’imposta” per vedere quale gravissima innovazione nel nostro ordinamento tributario si sia surrettiziamente introdotta con una norma destinata soltanto, in apparenza, a recare beneficio ai comuni.
È vero che la legge è destinata a dare agevolezze ai comuni per la provvista di acqua potabile, è vero che essa contempla soltanto i comuni di popolazione inferiore ai 100.000 abitanti; è vero che l’esenzione concessa ai comuni non dovrebbe necessariamente implicare la tassazione sui privati; ma chi non vede la forza dell’arma formidabile data con la dizione dell’art. 12 approvato dalla Camera dei Deputati al fisco nella lotta a coltello ingaggiata con quanti in Italia hanno prima d’ora impiegato energia e capitali nel provvedere di acqua le città assetate? Dicendo che si esentano i Comuni ed i consorzi dall’imposta sui fabbricati per le costruzioni, le tubature e i macchinari destinati alla provvista dell’acqua potabile, la Camera dei Deputati non ha implicitamente fatto sorgere il dubbio, di cui sarebbe strano non si valesse il fisco, che le costruzioni, le tubature ed i macchinari debbano essere tassati dalla medesima imposta sui fabbricati quando siano in mano di privati? Avranno un bel dire i difensori di quei capitalisti che hanno investito denari nelle imprese dell’acqua potabile, che la legge non li riguarda e che essi devono essere tassati sulla base delle leggi regolatrici fondamentali del 1865 e del 1889. Risponderà il fisco che il legislatore non avrebbe avuto bisogno di esentare esplicitamente i comuni e i consorzi dal pagare un’imposta che da nessuno fosse stata dovuta. Che, se le tubature ed i macchinari furono esentati per i comuni ed i consorzi, lo furono perché il legislatore volle evidentemente fare un’eccezione alla regola valida, secondo la sua mente e secondo la sua volontà sovrana, per tutti coloro che comuni e consorzi non fossero.
Né gioverà invocare le discussioni parlamentari, le quali dimostrerebbero come parecchi deputati si fossero accorti del pericolo e come uno di essi, l’on. Paolo Bonomi, avesse persino proposto un emendamento nel senso di sostituire alle parole: “l’imposta non è applicabile per le costruzioni, per le tubature ed i macchinari destinati alla provvista dell’acqua potabile”, le altre seguenti: “l’imposta non è applicabile ai fabbricati ed ogni altra costruzione stabile destinata alla provvista dell’acqua potabile”. Non varrà osservare che persino il ministro Tedesco, pressato dall’evidenza e dall’enormità della mala interpretazione della legge vigente che si andava perpetrando, ebbe ad accettare l’emendamento Bonomi, con la dichiarazione esplicita che così faceva perché il Governo non aveva menomamente inteso di pregiudicare la questione in corso dinanzi ai tribunali tra fisco e privati fornitori d’acqua potabile. La verità si è che all’ultimo momento, per l’intervento di un autorevole parlamentare, momentaneamente distratto, il quale non doveva avere assistito a tutta la precedente discussione, si mantenne l’art. 12 così come era stato concordato: e si richiese soltanto al ministro la dichiarazione, lestamente fatta, che “quell’articolo non poteva in alcuna maniera pregiudicare le questioni esistenti”. Fu lesto il ministro a dichiarare, a parole, che non si era voluto pregiudicare nulla, pur di ottenere il testo atto a gravemente pregiudicare. Egli sa che “verba volant et scripta manent”; non ignora che i magistrati usano spesso, quando fa comodo alla tesi loro prediletta, ignorare le dichiarazioni più solenni dei ministri ed interpretano la legge come fu scritta e nella costruzione grammaticale e logica che allo scritto si deve dare.
L’art. 12 è dunque una nuova dimostrazione della leggerezza balorda e farraginosa con cui la Camera dei Deputati italiana ci ha abituati a veder discussi gli interessi più gravi e sancite le disposizioni più innovatrici e feconde di conseguenze durature ed imprevedibili. Questo articolo, che la Camera votò balordamente ed inconsapevolmente, minaccia invero di essere fecondo di deplorevoli effetti:
- 1° darà un’arma al fisco per ottenere un’ingiusta vittoria dinanzi ai tribunali, riuscendo ad assoggettare alla gravosissima ed incomportabile imposta sui fabbricati, quelle tubature e quei macchinari che per loro indole intrinseca ne debbono andare esenti;
- 2° nell’atto stesso in cui concedono decine di milioni per provvedere di acqua i comuni che ne difettano (e fu opera santa, che stranamente contrasta con le dilapidazioni folli del pubblico denaro a cui la Camera ci ha oramai abituati), si multano quelle intraprese private, che in passato, quando le difficoltà erano di tanto maggiori, quando il denaro era più caro ed il capitale assai più timido, sorsero precisamente per raggiungere l’intento di dotare l’Italia di acquedotti. Chi scrive ritiene di non essere sospetto di soverchie tenerezze verso interessi privati. Questa rivista, col nuovo anno, è stata da lui volta precisamente a combattere senza tregua e senza dolcezza, i capitalisti predoni ed i lavoratori parassiti. Appunto perciò si ha ben diritto di scrivere qui, su queste pagine che vogliono essere tutta una battaglia contro le degenerazioni del capitalismo e del proletariato, che la caccia grossa cominciata da qualche tempo in Italia da governi, parlamenti e giornali contro capitalisti come capitalisti, contro speculatori come speculatori, contro tutto ciò che sa di intrapresa libera, di iniziativa privata, di ardimento individuale, contro tutto ciò che si estolle al disopra del mortifero pantano delle aziende pubbliche, che questa caccia grossa è un doloroso indice della mancanza di coraggio degli uomini politici e della ignorante leggerezza con cui i politicanti traggono, per quanto sta in loro – per fortuna poco possono i politicanti, e certo possono assai meno di quanti essi si lusinghino – l’economia d’Italia all’estrema rovina;
- 3° inavvertitamente dà un’arma di vittoria alla schiera di coloro che vogliono municipalizzare tutto ciò che vi è di municipalizzabile e vanno in cerca di argomenti atti a provare la loro teoria. I fallimenti che le municipalizzazioni hanno già subito in Italia, e che stanno per ora coprendosi con artifici contabili, sono già parecchi e saranno, giova sperarlo, salutari avvertimenti a guarire la gente sensata da questa ridicola mania di voler ad ogni costo municipalizzare. I municipalizzatori non vogliono però darsi per vinti e non potendo vincere ad armi pari, ricorrono ai mezzi più inverecondi della concorrenza sleale. Si potrebbero raccontare di ciò esempi tipici. Qui, per non divagare, si ponga mente soltanto alle conseguenze del disegno di legge sulle acque potabili. Il Municipio, che vuole eseguire un’impresa di acqua potabile, ottiene il beneficio dell’esenzione dall’imposta sui fabbricati. Sono, ad es., 10.000 lire di meno che esso paga al Governo ed alla Provincia; riuscendo a ridurre d’altrettanto il prezzo dell’acqua ai consumatori. E sta benissimo. Il difensore della causa municipale si accorge finalmente della verità del principio da tempo sostenuto dagli economisti, che il fabbricato industriale dovrebbe andar esente dall’imposta sui fabbricati, e che in ogni caso non costituiscono fabbricato né le tubature, né i macchinari inservienti all’industria della fornitura dell’acqua. Spinto da motivi cosidetti sociali, il parlamentare difensore dei comuni è costretto ad ammettere ciò che era evidente fin da prima alle persone imparziali, per motivi strettamente economici e giuridici. Ma dopo aver riconosciuto ciò per i comuni, lo spirito medesimo della giustizia sociale lo induce ad affermare tutto il contrario per i privati. Per costoro, non solo è ben messa l’imposta esistente sui fabbricati industriali, ma si deve fare in modo che l’imposta stessa allarghi il suo campo d’applicazione, colpendo tubature e macchinari, come se fossero fabbricati. Non importa che la questione sia sub judice. Ciò che necessita è, sovratutto, che i fornitori privati d’acqua siano messi all’indice e che si creino per loro, con subdole ed inavvertite applicazioni, nuove imposte nell’atto stesso in cui si tolgono le vecchie di dosso ai comuni. Così, nei conti futuri, si potranno dimostrare i brillanti risultati delle imprese municipalizzate e le perdite delle imprese private. Sono queste le prime prove del nuovo “fiscalismo sociale”. Ben altre ne vedremo. La manomorta ecclesiastica e feudale, immune dai tributi, risorge sotto nuove spoglie: case popolari, istituti autonomi, imprese municipalizzate, cooperative di lavoro, banche del lavoro, ecc., ecc. Non si riflette che, quando ci sono dei favoriti, che ottengono immunità tributarie, tutti cercano di truccarsi da favoriti. Chi potrà ancora, alla lunga, essere tassato?
- 4° introduce un elemento nuovo, dissolvitore, nel sistema delle nostre tre imposte dirette. Esse poggiano sul concetto che esista una linea di divisione ben netta fra ciò che sia terreno, fabbricato e ricchezza mobiliare. Finché noi avremo tre imposte poggiate sulle tre fonti principali del reddito, sarà pur d’uopo di definire ciò che debba essere oggetto di ciascuna di esse. Altrimenti nessun freno si avrà a che un cespite sia tassato, sotto pretesti diversi, due volte, e sovratutto a che un cespite, il quale dovrebbe essere dall’imposta tassato in una certa proporzione, sia tassato ben più duramente, secondo il capriccio mutevole del tassatore. In tutti i sistemi tributari una delle più gelose funzioni del legislatore è quella di fissare, in maniera univoca e chiara, la linea di distinzione tra l’un campo tributario e l’altro; affinché ciò che nella mente del legislatore doveva assolvere, come reddito industriale, ed es., il 10% di tributo, non possa essere tratto ad assolvere il 30, il 40, il 50 e magari il 60% e più, come reddito edilizio. Legiferare in questa maniera, abborracciando, come fece la Camera dei Deputati nella seduta del 1° marzo, è andazzo pestifero e pericolosissimo. Oggi sono le condutture d’acqua ed i macchinari relativi che si incorporano ai fabbricati, domani saranno le condutture dell’energia elettrica (il nostro decantato carbone bianco!), dopodomani verrà la volta dei macchinari inservienti alla produzione del pane. Se si applicasse qualche nuova invenzione per farci avere a casa, non solo l’acqua ed il gas, ma le notizie del giorno, le rappresentazioni musicali e teatrali, le conferenze e qualunque altro bene immateriale o materiale, i meccanismi e gli apparecchi dell’impresa relativa finirebbero tutti per prendere, fiscalmente, la natura di fabbricati.
Il Senato, il quale già altre volte (basterà ricordare l’atteggiamento e vero e sereno assunto da questo grande corpo nell’occasione in che una Camera dei Deputati faziosamente voleva risolvere, a colpi di articoli di legge, la questione delle Casse pensioni che le leggi vigenti ed i Patti contrattuali fra Governo e Compagnie ferroviarie deferivano al giudizio di un Collegio arbitrale) seppe resistere alle improntitudini antigiuridiche della Camera dei Deputati, avrebbe qui una buona occasione di dimostrarsi vivo ed alacre tutore del rispetto alle leggi vigenti ed irriducibile nemico di improvvisate ed inaspettate fiscalità atte a vieppiù guastare la già guasta armonia del nostro sistema tributario.