Come avvengono le rivoluzioni sociali in Italia
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 28/05/1907
Come avvengono le rivoluzioni sociali in Italia
«Corriere della Sera», 28 maggio 1907
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 535-540
Non certo nei modi classici e ad opera dei partiti sovversivi. Secondo la concezione classica una rivoluzione sociale, che si assomma poi consuetamente in un grande trapasso di proprietà e di ricchezza da una classe ad un’altra, dalla nobiltà e dal clero alla borghesia e dalla borghesia al proletariato, è preparata da una lunga e fervida opera di intellettuali e di propagandisti usciti spesso dal seno della classe dirigente a diffondere la buona novella fra le classi inferiori. Lunghi anni di lotte acerrime e di propaganda indefessa sono necessari perché le nuove idee si facciano strada, perché le classi diseredate o soggette acquistino coscienza della propria forza e perché le classi dirigenti si lascino vincere dalla marea montante. Talvolta, quando le classi inferiori non sanno elevarsi e le classi dirigenti sanno resistere ed acquistano nuova vitalità arricchendosi di vigorosi elementi tratti dai vergini strati popolari, ogni conato di rivoluzione si spunta ed il trapasso della proprietà non accade. Quasi mai una novità grandissima, un principio nuovo di organizzazione sociale sembra potersi introdurre in una società vecchia e tranquilla senza discussioni appassionate, senza lunghe lotte destinate ad avere una larghissima eco nei comizi e nei parlamenti. Per citare soltanto alcuni piccoli fatti recenti, piccoli in confronto delle grandi rivoluzioni sociali ricordate dalla storia; la soppressione del bilancio dei culti in Francia, la progressiva sostituzione dei contadini irlandesi ai proprietari anglosassoni, la campagna contro gli onnipotenti monopoli negli Stati uniti americani non poterono essere compiute od iniziate senza lotte prolungate, senza che tutte le forze della nazione sembrassero esaurirsi nello sforzo di risolvere il tormentoso problema del momento.
In Italia sembra che si segua una via profondamente diversa da questa nell’iniziare rivolgimenti radicali nella organizzazione industriale e nel regime della proprietà. Neppure ci si accorge che vengono talvolta presentate al parlamento ed approvate proposte in apparenza di importanza lieve e locale ma destinate a segnare una pietra miliare nella storia dei maggiori rivolgimenti sociali. L’anno scorso il parlamento approvava, senza che nessuno dei deputati socialisti se ne accorgesse, una legge sul consorzio obbligatorio dello zolfo la quale, forse prima nel mondo, istituiva una nuovissima forma di organizzazione industriale: il sindacato obbligatorio dei produttori, a cui la legge toglie la facoltà di vendere i prodotti e sottopone all’alta vigilanza dello stato, divenuto in parte garante dei rischi economici gravi di un’impresa industriale soggetta ad una fortissima concorrenza straniera.
Lo storico futuro dell’economia in Italia stupirà constatando come un passo così grave sulla via dell’organizzazione collettiva si sia potuto compiere senza che nessuno o quasi dei parlamentari approvanti se ne sia accorto e senza che se ne siano accorti nemmeno i rappresentanti professionali delle idee collettiviste. Oggi è la volta di un modesto progetto per la città di Roma, nel quale, a proposito della espropriazione delle aree fabbricabili, è sancito un principio destinato, se fortuna lo assiste, ad avere le più imprevedute e grandiose conseguenze. Di questo progetto per Roma chi scrive ha già parlato per combattere la insipiente proposta di aumentare dall’1 al 3% la tassa sulle aree fabbricabili, mettendo innanzi i provvedimenti più opportuni, a suo modo di vedere per cansare quei mali che la tassa del 3% indubbiamente aggraverebbe. Rileggendo con attenzione il progetto così come è definitivamente formulato dalla commissione della camera ed ampiamente spiegato in una diligente relazione dal relatore on. Pozzi, ho dovuto persuadermi che ben altra è la portata sua e ben più grande è la novità da esso senza parere introdotta nella nostra legislazione civile. Dinanzi alla novità impallidiscono i fasti di una imposta ignota, per la sua formidabile altezza e per la sua illogica incidenza, ai paesi che hanno visto nascere e propagarsi le dottrine del George e del Flurscheim sulla nazionalizzazione della terra. Il ravvicinamento fra alcuni articoli dell’interessantissimo disegno di legge permetterà a tutti di formarsi un’idea della sua straordinaria portata.
La imposta sulle aree fabbricabili è portata, lo dicemmo, per la città di Roma e per le città che per deliberazione dei rispettivi consigli comunali ne facciano domanda, al 3% all’anno sul valore capitale, esclusa la prima lira di valore per ogni metro quadrato, supposta equivalente al puro reddito agrario del terreno. Il valore delle aree dovrà essere dichiarato dal proprietario o, in difetto, accertato d’ufficio. La dichiarazione di valore non potrà essere mutata per Roma per tutti i 25 anni di durata del piano regolatore: dal che si deduce che per le altre città italiane la dichiarazione di valore non potrà essere mutata del pari per 25 anni o per quell’altro periodo di tempo rispettivamente stabilito dai propri piani regolatori.
Fin qui sono norme fiscali, intese in apparenza a garantire una esatta valutazione delle aree colpite dall’imposta ed anzi ad assicurare il proprietario contro le troppo frequenti valutazioni ed elevazioni della base imponibile. Allo stesso scopo di ottenere un accertamento veritiero del valore delle aree, il progetto di legge accoglie il principio, già inserito nei regolamenti di Milano e Torino, che il municipio possa espropriare le aree ad un prezzo corrispondente al valore dichiarato dal proprietario delle aree od accertato d’ufficio. La norma, che parrebbe avere il significato soltanto di una minaccia sospesa sul capo dei proprietari non veritieri acquista valore quando la si ponga in confronto coll’altra disposizione che il valore dichiarato od accertato d’ufficio non potrà mutarsi per tutti i 25 anni di durata del piano regolatore. Ecco le conseguenze a cui si arriva per un’area di 10.000 metri quadri del valore unitario tassabile di 10 lire al metro quadro (esclusa cioè la prima lira di valore del terreno agrario) e del valore totale di 100.000 lire. Nel primo anno di applicazione della legge, il proprietario ha fatto la sua dichiarazione veritiera (né del resto egli avrebbe interesse a denunciare un valore inferiore al vero per non correre il pericolo di una dannosa immediata espropriazione) di un valore di 100.000 lire, assoggettandosi quindi al pagamento di una tassa annua di 3.000 lire. Alla fine del quinto anno, egli ha già pagato, compresi gli interessi composti al 4%, 16.248 lire d’imposta. Se egli per un qualunque motivo non ha potuto costruire la sua area, il municipio potrà espropriarlo pagandogli le 100.000 lire da lui denunciate al principio: cosicché egli, dedotta l’imposta pagata, siccome nel frattempo l’area vuota non gli ha reso un centesimo, verrà in realtà a percepire l’indennità netta di sole lire 83.752. Trascuriamo gli interessi sul capitale originario di 100.000 lire supponendo che il proprietario avesse preveduto questo rischio quando comprò aree fabbricabili. La supposizione è in verità fuor di posto perché egli aveva rinunciato agli interessi annui nella speranza di vendere la sua area ad un prezzo più elevato, speranza che gli è tolta dal legislatore, il quale fissa per 25 anni l’indennità in lire 100.000. La dimostrazione riesce egualmente così stringente, che possiamo perfino trascurare quei poveri untorelli di interessi. Alla fine del decimo anno le annualità di tassa di 3.000 lire hanno cagionato al nostro proprietario una spesa di lire 36.018; cosicché, se il municipio a questo punto lo espropria, egli, al netto dalla tassa, riceve solo lire 63.982 per l’area che dieci anni prima era stata stimata 100.000 lire. Per farla in breve, l’indennità sempre uguale di 100.000 lire si riduce al quindicesimo anno scemata di 60.070 lire di tasse pagate a lire 39.930; al ventesimo anno, diminuita di 89.334 lire di tasse, a lire 10.666; finché al venticinquesimo anno il nostro disgraziato proprietario, che in origine aveva un’area del valore di 100.000 lire, ha pagato al municipio ben 124.937 lire di tasse ed interessi decorsi sulle medesime affinché il municipio prelevi sulle somme ricevute 100.000 lire per restituirle al proprietario tenendosi per sé 24.937 lire di profitto oltre l’area gratuitamente espropriata.
Non so che cosa si potrà obiettare alla dimostrazione: non certo che il proprietario potrà sempre sottrarsi alla confisca costruendo la sua area. Poiché la costruzione potrà verificarsi in molti casi, ma non sarebbe consigliabile si verificasse tumultuariamente e subito per tutte le aree disponibili. A Milano, secondo la relazione del sindaco Ponti del 24 marzo per l’applicazione dell’imposta in discorso, esistevano entro il nuovo piano regolatore ben 2.230.000 metri quadrati di aree fabbricabili. È probabile, è possibile che tutta questa enorme superficie sia costrutta subito? Non sarebbe anzi la affrettata costruzione causa di rincaro di capitali e di mano d’opera edilizia, e di distrazione momentanea di capitale e di lavoro da altri impieghi più rimunerativi, colla inevitabile conseguenza di disoccupazione quando fosse terminato il periodo di febbrili costruzioni? Uopo è perciò ed è utile che le costruzioni si compiano regolarmente, con metro più accelerato forse per le case popolari, ma non con furia selvaggia. Se questo è vero, è indubitato del pari che molte aree dovranno rimanere vuote – ed è utile che rimangano vuote anche dal punto di vista sociale – nei primi anni dell’applicazione del piano regolatore per andare diminuendo a mano a mano che ci avviciniamo alla scadenza del periodo. Quindi è indubitato che il municipio potrà sempre espropriare le aree vuote, concedendo una indennità parziale, nulla o persino negativa, dato il meccanismo spiegato sopra della indennità fissa e delle accumulantisi rate annue di imposta sulle aree fabbricabili. Il municipio potrà astenersi da siffatte espropriazioni, pago di aver escogitato un mezzo per incassare tasse fortissime, finché al potere vi saranno amministratori imbevuti delle idee ancora dominanti in fatto di appropriazione della roba altrui. Col mutarsi degli amministratori e sovratutto coll’avvicinarsi della scadenza del periodo e colla possibilità crescente per il comune di espropriare i terreni ad un prezzo di gran lunga inferiore al valore corrente, quale municipio potrà resistere alla tentazione?
Non so se a molti farà impressione grande, come a me ha fatta, vedere sancito in un piccolo ed ignorato disegno di legge per la capitale d’Italia il principio che la proprietà privata possa essere espropriata ad un prezzo talvolta uguale, ma più spesso inferiore al suo valore, qualche volta persino senza indennità e financo coll’obbligo di pagamento di una multa da parte del proprietario costretto a lasciarsi gratuitamente espropriare.
Qui si critica un metodo di espropriazione che equivale ad una confisca; e non altri metodi che fossero diretti invece ad impedire che il proprietario riceva una indennità superiore al valore corrente o tale da comprendere il maggior valore derivante da un’opera pubblica compiuta dai municipi. L’impedire gli abusi rientra perfettamente nel concetto dell’indennità di espropriazione per pubblica utilità mentre la novità del progetto per Roma sta nel negare addirittura l’indennità che si proclama apparentemente dovuta.
Per ritornare al punto dal quale ho preso le mosse nello scrivere la meraviglia più grande sorge nel vedere come un rivolgimento così profondo nei principi della espropriazione per utilità pubblica e nei diritti della proprietà privata si verifichi in mezzo alla indifferenza universale e senza che nemmeno i socialisti abbiano sul serio discusso l’opportunità di chiedere alle classi proprietarie un sacrificio così grande; senza che nel parlamento, nei congressi municipali, nella scienza e fra gli interessati di ogni classe sia avvenuta una qualsiasi apprezzabile discussione intorno alle ragioni di utilità pubblica che potrebbero legittimare cotesto sovvertimento dei vigenti principi più elementari del diritto e dell’economia. Dopo tutto, ogni classe ha la sorte che si merita. Oggi i milioni di proprietari e di industriali, che lavorano in Italia e sono fattore precipuo dei suoi progressi, forse ridono pensando ai proprietari di aree cittadine espropriati senza indennità e forse anche son lieti pensando al grazioso tiro giuocato agli odiosi «speculatori sulla fame di case». Che cosa diranno domani quando i socialisti, fattisi potenti, vorranno ad essi applicare lo stesso ragionamento e ripetere, consapevolmente stavolta, a lor danno il grazioso tiro una volta riuscito?