La politica degli sgravi conservatrice?
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 11/01/1907
La politica degli sgravi conservatrice?
«Corriere della Sera», 11 gennaio 1907[1]
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 469-473
Gli sgravi dei tributi sui consumi debbono combattere contro due nemici: contro i timidi, che son tali perché di ogni novità dubitosi o perché paventano di non avere fondi a sufficienza per l’incremento delle spese e contro i riformatori, a cui gli sgravi paiono troppo piccola impresa e vorrebbero – con innovazioni profonde e con traslazioni di oneri dalle classi ricche alle classi povere – instaurare un nuovo ordine tributario. Costoro – i riformatori – trascinano dietro di sé i timidi; i quali, difettando di buone ragioni proprie, applaudono a chi giudicano insufficienti le riduzioni tributarie, e così ottengono il fine loro, che è di non far nulla.
Giova perciò sovratutto studiare serenamente le argomentazioni dei riformatori, i quali avversano gli sgravi per motivi di principio. La condanna o l’approvazione dei timidi opportunisti sarà una logica conseguenza del giudizio che avremo dato dei riformatori. I quali, prima di difendere i concetti propri, pensano a criticare quelli degli avversari, ossia dei fautori degli sgravi. L’ultima novità in questa critica consiste nel definire la politica degli sgravi «politica conservatrice». Si sa che la fortuna delle cose dipende in gran parte dalla fortuna delle parole. Se gli avversari degli sgravi riuscissero a rendere la parola «politica conservatrice» indissolubilmente unita alla «politica degli sgravi», la condanna di questa sarebbe pronunciata. In un paese dove nessuno vuol passare per conservatore e tutti si proclamano liberali, radicali o quanto meno democratici, tutti si vergognerebbero di dichiararsi paladini degli sgravi, quando gli sgravi fossero reputati «conservatori».
Il più noto e diciamo anche il più convinto degli assertori parlamentari dell’accusa di conservatorismo agli sgravi è l’on. Wollemborg. Autore e memore paladino – e ciò gli fa onore – di un piano organico di riforma tributaria, egli non si acqueta alle riduzioni dei tributi sui consumi; e contro di esse muove in guerra, bollando la politica degli sgravi come politica conservatrice.
Conservatrice – citiamo la chiusa del suo ultimo discorso alla camera – in quanto, coll’offerta di un pronto ribasso di aliquote, distoglie dal pensiero di radicalmente trasformare il sistema tributario; e così riesce ad evitare che per tal via si proceda. Conservatrice, in quanto esplicitamente riconosce, ed ha anzi per suo logico presupposto, la bontà intrinseca almeno relativa, dell’ordinamento vigente, e pensa solo a renderlo meno intollerabile, ritagliandone qualche punta più acuta, correggendone qualche eccesso; e così tende a garantirne l’intangibilità sostanziale. Conservatrice in quanto, col diminuire il saggio delle tassazioni su questo o su quel prodotto di largo uso, prepara nelle tasse ridotte una latente riserva finanziaria avvenire; e così dà la possibilità e, scansata l’introduzione di nuove democratiche forme di imposta, impone la necessità di ricorrere, ancora e sempre, nei giorni del bisogno, all’inasprimento dei balzelli sui consumi popolari.
Un bello squarcio di eloquenza parlamentare codesto ed anche un bello sforzo di logica formale; ma nulla più. Può essere invero elegante l’affermare che un pronto ribasso del dazio sul petrolio o sullo zucchero o sul sale renda tranquilli i contribuenti. e paghi dell’ordine vigente tributario; ma non è vero. Non gli operai miserabili dell’India e della Cina lottano per un salario migliore; ma invece gli operai meglio pagati dei paesi industriali, i quali veggono un avvenire migliore e si sforzano di raggiungerlo. Non i contribuenti taglieggiati della Turchia si agitano per una riforma tributaria; ma i piani più arditi di mutazioni innovatrici sono messi innanzi nei paesi dove è minima la pressione tributaria sui generi di consumo di prima necessità. Coloro i quali citano sempre l’esempio dell’Inghilterra e della introduzione dell’imposta sull’entrata come strumento di riforme tributarie profonde dovrebbero ricordare che dal 1815 a Roberto Peel corse un trentennio durante il quale si alternarono al potere ministri timidi, che nulla fecero, e ministri che coraggiosamente falcidiarono le aliquote delle più forti imposte sui consumi, preparando così la via alla finanza riformatrice venuta dappoi. Può essere nuovissimo – e battano le mani i socialisti rivoluzionari catastrofici, i quali sperano la salute dall’eccesso del male – dichiarare che il rendere meno acute le punte e correggere le ingiustizie più stridenti dell’attuale sistema tributario abbia per iscopo di rendere quel sistema intangibile; ma non è giusto. Giudichi qualunque spassionato se sia più atto a superare la crisi di una radicale riforma (ad esempio trasferimento delle imposte sui terreni e sui fabbricati agli enti locali e creazione di una nuova imposta generale progressiva sul reddito, che è l’ideale di un forte nucleo di riformatori, tipo Wollemborg), una afflitta schiera di contribuenti dissanguati da aliquote eccessive, ovvero un paese dove la ricchezza sia cresciuta e la produzione resa più facile dall’alleviamento dei tributi sui consumi e sulle materie prime dell’industria. Possiamo riconoscere la raffinatezza preveggente di chi non vuol ridurre i tributi sui consumi per evitare il lontano pericolo che i tributi medesimi debbano essere di nuovo aumentati nei giorni del bisogno; ma dobbiamo ricordare essere canone elementare di pubblica finanza di provvedere alla formazione di una riserva tributaria latente col rendere tenui le aliquote di tutte le imposte – sui consumi e sul reddito – negli anni della pace e della prosperità, sicché negli anni avversi possano essere cresciute. Pensino i contribuenti dell’avvenire ad imposte sulla ricchezza invece che ad aliquote tenui sui consumi. Intanto non si ritardi, quando sia possibile, lo sgravio ai contribuenti dell’oggi per la paura che lo sgravio abbia ad essere temporaneo per il verificarsi di avvenimenti futuri imprevedibili!
In realtà i veri conservatori – ove si voglia ad ogni costo dare un significato negativo a questa parola – sono i nemici degli sgravi. Essere conservatore in senso negativo vuol dire volere conservate le imposte sperequate, gli istituti dannosi. Vuol dire volere conservare di fatto gli istituti dannosi, anche se a parole si proclama la necessità urgente della loro distruzione. Quel rivoluzionario catastrofico, il quale augura alla classe operaia del suo paese salari della fame, divieti di scioperi e di associazioni, persecuzioni poliziesche, imprenditori ignari o noncuranti dei loro doveri sociali di capitani della grande industria, ed augura codesti mali affinché gli operai ridotti alla disperazione instaurino nel giorno della catastrofe una società nuova perfetta, quegli è un conservatore nel senso negativo della parola; poiché non avverrà mai che operai cosiffattamente avviliti sappiano e siano degni di elevarsi d’un tratto ad una vita più alta. Così è nella finanza. Chi sostiene la conservazione di tutte le attuali aliquote altissime – ed inutili al tesoro – dei tributi sui consumi, affinché lo stato, forte di larghi mezzi finanziari, possa iniziare e compiere la grande riforma da lui vagheggiata; quegli è un conservatore nel senso cattivo, perché uno stato cosiffatto non sarà mai forte – non è forte chi si appoggia solo sullo sfruttamento della miseria altrui – e sarà sempre in mano di politicanti timidi o neghittosi verso qualunque riforma tributaria, grande o piccola che sia.
Che cosa ha ottenuto l’on. Wollemborg, che cosa hanno ottenuto gli altri deputati, i quali hanno messo innanzi piani di grandi riforme tributarie? Men che nulla; e meglio la taccia di visionari e di teorici dai loro colleghi, ben lieti di riconoscere impossibile fare il meglio e di avere dagli apostoli del meglio un pretesto per non fare il bene. Che cosa otterranno quelli che oggi avversano le piccole riduzioni di tributi, perché preferirebbero un piano che riorganizzasse le finanze dello stato e dei comuni, ad imitazione di quanto si fece in Prussia ed altrove? Questo soltanto, che per voler imitare le cose perfette, l’avanzo frattanto scomparirà ed i contribuenti rimarranno alla fine con i tributi sui consumi immutati e privi del conforto di sapersi retti da un qualsiasi ideale sistema tributario.
O non sarebbe meglio che alla perfino i fautori degli sgravi e i difensori delle grandi riforme lasciassero da parte le idee preconcette? Certo i riformatori hanno ragione di avversare le piccole riduzioni di tributi fatte a casaccio, su consumi non suscettibili di aumento, e prive di efficacia sul progresso della ricchezza. Ma quando gli sforzi dei più competenti e dei più autorevoli uomini parlamentari convergessero oggi alla costituzione di un fondo intangibile degli sgravi, quando si scegliessero quei consumi che sono più suscettibili di aumento e la cui riduzione di prezzo può essere maggiormente utile all’industria; quando i ricuperi della finanza per il cresciuto consumo ritornassero al fondo per gli sgravi; o non sarebbe questa la migliore preparazione ad una politica riformatrice; anzi non sarebbe questa la vera politica riformatrice? Oggi si comincia col petrolio; domani, quando le perdite della finanza siano rimarginate – e sarà più presto di quanto immaginino i timidi – si continua con un altro consumo di grande capacità espansiva. Nulla vieta che nel frattempo non si pensi a ritoccare le imposte di ricchezza mobile sui fabbricati e le tasse sugli affari, in maniera da renderle più eque e sopportabili e togliere le cagioni delle lagnanze più vive dei contribuenti. Molte riforme possono farsi senza pericolo del tesoro, purché si osi. Così il sistema tributario nostro si avvia verso l’equità e la mitezza; e la grande riforma si attua da sé, a poco a poco, senza che i timidi ed i neghittosi osino protestare od opporsi. Fra dieci anni – che cosa sono dieci anni nella vita di un popolo; e non se ne sono persi assai di più nell’opporre gli uni agli altri i grandi piani organici di riforma? – sarà venuto il momento di cogliere i frutti dell’opera già in gran parte compiuta; ed il bel piano organico che sistematizzi e renda coerenti le riforme parziali, che instauri nuovi metodi di imposizione, sarà maturo e confortato dal consenso universale. A questa meta occorre tener fiso lo sguardo anche oggi, mentre si operano le riforme parziali; né fare alcuna cosa che dalla meta ci allontani. Volerla raggiungere, stando fermi a cantar le lodi della grande riforma ed impedendo il passo a chi vorrebbe muoversi avanti, è una illusione.