Opera Omnia Luigi Einaudi

L’assorbimento e l’impiego dei risparmi da parte dello Stato

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/11/1913

L’assorbimento e l’impiego dei risparmi da parte dello Stato

«Rivista delle Società Commerciali», novembre 1913, pp. 345-352

In estratto: Roma, Associazione fra le società italiane per azioni, 1913, pp. 25

 

 

 

Gli Stati moderni usano raccogliere risparmi per mezzo di istituti pubblici svariatissimi, come sarebbero le Casse postali di risparmio, le Casse di assicurazioni per la vecchiaia e l’invalidità degli operai, le Casse pensioni per i maestri elementari, i medici condotti, il personale ferroviario, il personale di servizio degli enti locali e delle opere pie, gli istituti di assicurazione sulla vita.

 

 

Niun dubbio che lo Stato raggiunga così un risultato benefico. Questo è la raccolta di somme egregie, le quali via via vanno crescendo a miliardi di lire in Italia si aggirano ora intorno ai 3 miliardi – adunate da innumeri piccole sorgenti, di modesta portata, le quali sarebbero rimaste in parte inutilizzate, senza l’opera raccoglitrice delle casse postali di risparmio e degli altri istituti pubblici di previdenza. Molti piccolissimi e piccoli risparmiatori, per diffidenza od ignoranza, avrebbero, sovratutto in passato, tesaurizzato, sotto specie metalliche, i loro risparmi, alla guisa del don Abbondio dei Promessi Sposi; altri li avrebbero impiegati erroneamente con perdite proprie e dell’intera società. La cassa postale che ha le sue ramificazioni in ogni paese, che inspira fiducia, per la garanzia dello Stato, ai risparmiatori, educa costoro al deposito bancario, da ad essi i primi insegnamenti intorno alle maniere mobiliari d’impiego dei risparmi, talvolta li incoraggia, quando i depositi hanno superato un certo segno, a comprare i titoli di debito pubblico, viemmeglio iniziandone la educazione capitalista; e di questi piccoli rivoli compone un gran fiume, il quale può essere fecondatore di utili imprese. Intorno ai quali benefici indubitati non discorrerò oltre, trattandosi di fatti assai noti.

 

 

Ma è bene avvertire che il non discorrerne non deve essere interpretato come un segno di scarso o sfavorevole apprezzamento dell’opera sotto questo rispetto benefica dello Stato. Ché anzi la ritengo utilissima, e feconde reputo le sue iniziative, ove, in regime di libera concorrenza fra istituti pubblici ed istituti privati, lo Stato dimostri col fatto di sapere rendere ai risparmiatori un servizio che dagli istituti privati non può essere fornito od, almeno, non può essere fornito in egual misura.

 

 

La ragione di non discorrere qui più a lungo del lato benefico dell’azione dello Stato è una sola: e sta nella diffusione oramai larghissima nel pubblico del convincimento dell’utilità dell’opera raccoglitrice di risparmi compiuta dallo Stato.

 

 

Forse non è altrettanto formato e ragionato nell’opinione pubblica un pensiero qualsiasi intorno all’altro aspetto dell’azione dello Stato: l’impiego dei fondi raccolti per mezzo degli istituti pubblici di risparmio e di assicurazione. Suolsi a questo riguardo accogliere senza contrasto e senza critica una teoria la quale dice essere conveniente che lo Stato possa così procacciarsi, a basso tasso di interesse, i capitali occorrentigli per il compimento di opere pubbliche (ferrovie, ponti, rimboschimenti, acquedotti, bonifiche, ecc.), per mutui ai comuni ed ai consorzi (edifici scolastici, municipalizzazioni, risanamento di quartieri antigienici, opere di irrigazione, ecc.) ed altresì per la condotta di guerre coloniali e per fronteggiare le spese straordinarie, le quali possono presentarsi nella vita di uno Stato.

 

 

Se queste opere pubbliche, si ragiona, dovessero compiersi al tasso corrente d’interesse, al tasso, cioè che occorrerebbe pagare per ottenere i risparmi a mutuo sul mercato libero, per es., al 5 %, esse riuscirebbero troppo costosa e non potrebbero compiersi. Uopo è che lo Stato ed i comuni riescano a procurarsi i capitali occorrenti per le imprese pubbliche indipendentemente dal mercato, pagando così un tasso di interesse minore di quello corrente.

 

 

Il problema che bisogna risolvere è il seguente: supponendo che sia possibile allo Stato di ottenere, mercé i suoi istituti di raccolta dei risparmi, capitali a mutuo ad un tasso di interesse, minore di quello corrente sul mercato libero, al 3 invece che al 5 %, ad esempio, sarebbe raggiunto per tal modo un fine utile alla collettività? Se si pensa soltanto che le impresa pubbliche dovranno essere caricate di un interesse mite (usasi dire mite quell’interesse che è minore del corrente) e saranno perciò meno gravose per i contribuenti, la risposta sembra dover essere senz’altro affermativa.

 

 

Ma sorgono dubbi ragionevoli quando si ponga il problema in termini più generali e si chieda: è utile che un imprenditore qualunque (privato o pubblico) riesca a procacciarsi capitali a mutuo ad un tasso inferiore a quello corrente? Sembra di no. Poiché il tasso corrente di interesse non è un fatto arbitrario ed indifferente; ma è la risultante necessaria di moltissime circostanze le quali non possono mutare solo per far piacere alle persone desiderose di prestiti.

 

 

Se le genti diventano previdenti e risparmiatrici e quindi è forte la produzione del risparmio, se le nuove imprese scarseggiano, se i governi sono pacifici e savii e quindi è tenue la domanda di risparmio, il tasso dell’interesse scema: se invece gli uomini diventano amanti del lusso e dei godimenti, se si aprono nuovi vasti campi all’operosità industriale ed agricola, se i governi indulgono alla tendenza dei popoli ad attaccar briga gli uni con gli altri e fanno spese grandi per armamenti, necessariamente il tasso dell’interesse sale. Chi non vuole l’effetto, deve togliere le cause: ma non si può combattere l’effetto; quando ferme restano le cause.

 

 

Volendo eliminare l’affatto – ossia l’alto tasso di interesse – lasciando immutate le cause, necessariamente si ottengono effetti dannosi. Supponiamo invero che, mentre il tasso corrente dell’interesse è il 4 %, taluni privati o gruppi di privati riescano ad ottenere – cosa assurda, se lo Stato non interviene, ma immaginata per via di ipotesi – capitali a prestito al 3 od al 2 per cento.

 

 

Che vorrà dir ciò? Questo, per i prestiti aventi scopo produttivo: che, mentre il tasso corrente dell’interesse imporrebbe ai debitori di impiegare le somme ricevute a mutuo in imprese rapaci di rendere qualcosa di più del 4 % – altrimenti l’operazione di mutuo non avrebbe senso – i debitori privilegiati avranno convenienza a fare impieghi anche in imprese che prendono solo poco più del 3 o del 2 per cento. Quindi il capitale viene stornato da impieghi più produttivi ad impieghi meno fecondi; quindi si distrugge ricchezza o se ne produce un incremento minore di quello che sarebbe possibile.

 

 

Se invero il tasso dell’interesse è del 4 per cento è certo che il flusso del nuovo risparmio può essere tutto assorbito dalle imprese che sono in grado di far fruttare il capitale almeno il 4 %, poiché se queste lasciassero una parte non richiesta, dessa peserebbe sul mercato e farebbe discendere il prezzo di tutto il capitale dal 4 al 3 3/4 od al 3 1/2 o più giù.

 

 

Epperciò, se il risparmio nuovo era appena sufficiente a soddisfare ai bisogni delle imprese le quali sono capaci di dare il frutto del 4 %, non sarà più sufficiente ora che in parte viene stornato ad impieghi i quali rendono solo il 3 %, e che sarebbero rimasti insoddisfatti in condizioni normali. Sia un miliardo di lire il risparmio nuovo che in paese si forma in ogni anno e sia tutto assorbito dalle imprese le quali sono capaci di produce il frutto del 20, 19, 18 .. 10, 9, 8, 7, 6, 5 e 4 per cento. Siccome, dato l’interesse del 4 %, i risparmiatori producono appunto 1 miliardo di lire di risparmio nuovo ogni anno, e tutto il miliardo è assorbito da imprese capaci di rendere il 4 % o più, e nessuna domanda al 4 % rimane insoddisfatta, così il tasso corrente di interesse risulta appunto del 4 per cento.

 

 

Se ora, per qualche motivo che non importa indagare, 300 milioni di lire sono assorbiti da imprese capaci solo di fruttare il 3 %, si avranno i seguenti effetti:

 

 

1)    la quantità del risparmio prodotta non scemerà; poiché è bensì vero che è d’uopo pagare l’interesse del 4 % per ottenere la produzione di un risparmio annuo di 1 miliardo; ma è vero anche che le prime dosi di questo miliardo sarebbero risparmiate anche se l’interesse fosse solo del 3 1/2, 3, 2 1/2, e magari zero per cento. Si risparmia per moltissime ragioni, di cui parecchie non hanno nulla a che fare con il tasso dell’interesse sperato dall’impiego del risparmio, per provvedere alla vecchiaia, all’invalidità, alle malattie, alla famiglia. Quindi il fatto che per 300 milioni di lire l’interesse pagato è solo del 3 % non ha alcuna importanza quanto alla produzione del risparmio;

 

2)    poiché però i 300 milioni di lire sono assorbiti da imprese capaci solo di fruttare il 3 %, le quali prima rimanevano a bocca asciutta, accade che rimangono soltanto 700 milioni disponibili per le imprese capaci di pagare il 4 o più per cento di interesse. Siccome queste però potrebbero assorbire ed assorbivano, nell’ipotesi precedente, 1 miliardo di lire, sorgerà una viva concorrenza tra di esse per accaparrarsi i 700 milioni che soltanto sono disponibili; e la concorrenza spingerà all’insù il tasso di interesse sul mercato libero: dal 4 al 5 e 6 per cento. È vero che il rialzo nel tasso dell’interesse provocherà una certa maggiore produzione di risparmio, perché quella parte di risparmiatori che risparmia in vista ed in funzione del tasso dell’interesse, risparmierà maggiormente se il tasso dell’interesse sale dal 4 al 5 ed al 6 per cento. Ma sembra impossibile che il risparmio «libero», ossia impiegato al tasso normale, ridiventi da 700 di nuovo 1000 milioni. Ché, in questa ipotesi, il tasso dell’interesse sul mercato libero non sarebbe più del 5 o 6 % ma del 4 % ed in allora mancherebbe ogni stimolo a produrre più di 700 milioni di risparmio «libero», oltre i 300 stornati agli impieghi a sotto – interesse. L’effetto probabile sarà che si produrranno alquanti risparmi di più, supponiamo 800 milioni invece di 700 e questi 800 si ripartiranno tra le imprese capaci di fruttare quel 5 o 6 % di interesse necessario a provocare la formazione di 100 milioni di risparmio di più;

 

3)    il che vuol dire ancora che 100 milioni, i quali prima erano destinati al consumo od all’investimento nella educazione ed istruzione delle nuove generazioni (risparmio personale) ora si destinano a risparmio capitalistico. Il quadro degli effetti ora nominati non appare, nel suo insieme, tale da significare un incremento di ricchezza e di benessere nel paese. Si hanno, è vero, 100 milioni di risparmio in più; ma si hanno, per contro, minori consumi e minori risparmi personali; alcune imprese, che prima non esistevano, ora sorgono perché sono provvedute di 300 milioni di capitale al 3 per cento. Ma il loro sorgere, trattandosi di imprese non redditizie o poco redditizie, non compensa il danno del venir meno di imprese redditizie dal 4 % al 5 % la quali avrebbero assorbito 200 milioni di capitale (differenza fra 1000 milioni risparmio assorbito prima ed 800 milioni, risparmio assorbito dopo dal mercato libero) e dall’obbligo fatto alle altre imprese di pagare per 800 milioni di lire il 5 o il 6 %, laddove prima per 1.000 pagavano solo il 4 per cento. Se si guarda ai prestiti consuntivi, il privilegio di alcuni privati capaci di indebitarsi al 3 %, mentre il tasso corrente d’interesse è del 4 %, è ugualmente dannoso.

 

 

Poiché chi vuole consumare anticipatamente i proprii redditi ed i proprii patrimoni futuri è trattenuto dalla considerazione che per ogni 100 lire di reddito che egli potrà avere fra un anno e che fra un anno potrà consumare, oggi ricava, col mutuo, solo 96, sotto deduzione del 4 % di sconto. Se egli invece valuta oggi 97 il godimento di 100 lire che si verificherà solo fra un anno, evidentemente non gli conviene fare il mutuo, perché il mutuo gli dà solo un godimento attuale di 96. Ma se il tasso dell’interesse è del 3 %, egli ottiene subito col mutuo 97 lire, che è precisamente il valore che egli attribuisce al godimento attuale di 100 lire di reddito fra un anno.

 

 

Onde egli consumerà e distruggerà capitali. Possiamo perciò conchiudere che la possibilità per il privato imprenditore o debitore di procurarsi somme a mutuo ad un tasso particolare, privilegiato di interesse, inferiore cioè al tasso che vigerebbe se i prestiti si potessero ottenere soltanto sul mercato libero, conduce alla distruzione ed al malo impiego di parte del nuovo risparmio, al rincaro del capitale per gli imprenditori non privilegiati; ed è grandemente dubbio se il vantaggio dell’eventuale maggiore nuovo risparmio sia sufficiente compenso alla diminuzione dei consumi normali e dei risparmi personali. Siffatte evidentissime verità non si mutano in errori solo perché al luogo dei debitori singoli poniamo la collettività dei debitori, chiamata comunemente Stato.

 

 

È un danno e cioè un fatto che provoca distruzione o più lenta formazione di ricchezza il procurarsi, che possa fare lo Stato, capitali a mutuo al disotto del tasso corrente di interesse. Poiché ciò vuol dire che lo Stato avrebbe, al 4 %, preso a mutuo 1 miliardo di lire per la conquista di una colonia, per la costruzione di scuole, ferrovie, porti, bonifiche, ecc., ed avrebbe preso a mutuo precisamente 1 miliardo, disponendosi di pagare l’onere annuo di 40 milioni di lire per interessi, perché si reputa che i vantaggi economici diretti od indiretti o morali o politici delle opere compiute valgano almeno 40 milioni di lire all’anno. In tal modo per costruire le sue ferrovie o le sue scuole o condurre la sua guerra, lo Stato non sottrae capitali ad alcun’altra impresa privata più fruttifera.

 

 

Poiché non si sottrae capitali altrui, ma si opera la più conveniente ripartizione del nuovo risparmio fra i diversi impieghi pubblici e privati, quando lo Stato concorre con gli imprenditori privati, a parità di condizioni, sul mercato dei mutui. Né è concepibile esistano altre imprese più fruttifere di quelle pubbliche, a cui lo Stato invita i capitali, perché, se fossero davvero più fruttifere, farebbero domanda più intensa di capitali ed il prezzo di questi rialzerebbe al disopra del 4 per cento. Il che non essendo avvenuto, è giocoforza concludere che le imprese private non davano un reddito maggiore di quello offerto dallo Stato.

 

 

Quando invece, essendo il tasso corrente dell’interesse del 4 %, lo Stato riesce a procacciarsi capitali a mutuo al 3 ed al 2 %, la somma mutuata dallo Stato passa da 1 a 2 miliardi per il teorema che la quantità domandata di un bene (capitali) cresce col diminuire del prezzo (tasso d’interesse).

 

 

Lo Stato, per il buon mercato del denaro, è spinto a crescere le sue imprese belliche ed economiche; farà preparazioni militari più di quanto farebbe se il denaro fosse al tasso normale, costruirà ferrovie elettorali accanto a quelle economiche, erigerà ginnasi e licei, già esuberanti, accanto alle scuole elementari e così via. Il miliardo speso in più dallo Stato sarà 1 miliardo sottratto ad imprese private più produttive, a migliorie agricole, ad impianti industriali che avrebbero potuto essere fecondi di un reddito del 4 per cento. Mentre le imprese pubbliche compiute col miliardo in più deve concludersi fruttino solo il 3 od il 2 %, almeno ove si giudichi dalla circostanza che il governo decise di compierle solo quando poté essere sicuro che il miliardo sarebbe costato ai contribuenti solo 20 o 30 milioni di lire all’anno. Ora, poiché il tasso corrente d’interessa è il 4 % e su questa base si capitalizzano i redditi, è evidente: che se il miliardo assorbito in più dallo Stato fosse stato invece impiegato in imprese private e queste avessero fruttato 40 milioni all’anno, queste imprese avrebbero avuto il valore attuale di 1 miliardo; poiché 1 miliardo, impiegato al 4 %, rende appunto 40 milioni di lire; mentre, essendo il miliardo stato impiegato in imprese pubbliche, le quali danno un vantaggio di appena 30 milioni all’anno, queste pubbliche imprese hanno il valore attuale di 750 milioni; poiché 750 milioni, impiegati al 4 % – che è l’unico metro vigente per capitalizzare i redditi – rendono appunto 30 milioni di lire.

 

 

Si conclude perciò che il mutuo pubblico di 1 miliardo conchiuso all’interesse del 3 %, mentre il tasso corrente è del 4 %, distrugge immantinenti 250 sui 1.000 milioni mutuati. Non li distrugge forse fisicamente; ma ne annulla il valore, il che è la sola cosa di cui occorra preoccuparsi.

 

 

Più generalmente, ogni mutuo pubblico, alla pari di ogni mutuo privato, conchiuso ad un tasso minore del tasso corrente dell’interesse ha la tendenza a distruggere il valore di tanta parte della somma mutuata quanta è proporzionatamente la differenza in meno del tasso speciale in confronto al tasso corrente. La quale conclusione generale resta incrollabile, a meno che si dimostri l’esistenza di circostanze particolarissime, le quali dovranno essere attentamente documentate ed analizzate per vedere se resistono alla presunzione generica della loro assurdità, circostanze le quali siano atte a dimostrare l’inesistenza del rischio di distruzione di ricchezza.

 

 

Né si ricordi, per scrollare il valore di questa conclusione, il fatto sopra ricordato che, – senza le casse postali, il miliardo in più non sarebbe stato portato sul mercato; e, rimanendo nei nascondigli e nei salvadanai dei risparmiatori sospettosi, non avrebbe potuto fecondare imprese private produttive del 4 per cento. Invero è probabilissimo che, oggi, per merito altresì della educazione economica compiuta dalle casse postali tra le classi rustiche, operaie e piccolo – borghesi, se le casse postali fossero abolite, gran parte, probabilmente la massima parte del miliardo sarebbe depositata presso altri enti o casse, che ora non sorgono, per la vittoriosa concorrenza delle pubbliche casse.

 

 

Ed anche ammettendo che tutto il miliardo sia portato sul mercato per merito esclusivo delle casse postali, forse ché il fatto che di esso è banchiere lo Stato toglie il danno dell’impiego al 3 % invece che al 4 % forseché cessa di essere vero che, se lo Stato dovesse pagare il 4 %, chiederebbe a mutuo – alle sue casse postali od a banche private, non monta – solo 1 miliardo; mentre, potendo pagare solo il 3 %, chiede una somma maggiore, ad es. 1 1/2 – 2 miliardi? E non è quindi certissimo che per le imprese private rimane disponibile sul mercato libero – dove affluirebbe, se lo Stato non l’assorbisse in impieghi poco produttivi, anche il 1/2 o l’1 miliardo disponibile delle casse postali -una massa di risparmio minore? Il non par certo che le imprese private debbono quindi pagare un tasso d’interesse più alto di quello che dovrebbero pagare se gli Stati dopo aver raccolto, come banchieri, il risparmio al 3 %, non lo assorbissero, come imprenditori, al 3 %, ma pagassero il tasso corrente sul mercato che, in tali circostanze, si è supposto dianzi essere del 4 per cento?

 

 

Per evitare equivoci, è d’uopo avvertire che quando si ritiene che sia dannoso l’impiego di capitali ad un sotto – interesse del 3 %, mentre il tasso corrente dell’interesse è del 4 %, non si vuole affermare che lo Stato debba pagare il risparmio allo stesso prezzo a cui lo pagano in genere i privati. È ben noto invero che lo Stato, anche sul mercato libero, riesce ad ottenere prestiti al 4 % quando i privati debbono pagare il 5 per cento.

 

 

E per ottime ragioni: perché i capitalisti hanno fiducia nello Stato, nella sua puntualità nel pagare gli interessi pattuiti e nel rimborsare alla scadenza il capitale mutuato; perché lo Stato è noto a tutti, i suoi bilanci sono pubblici e la sua vita è perpetua. I risparmiatori valutano perciò al minimo i rischi dei mutui allo Stato ed imprestano a lui i propri risparmi ad un tasso che comprende spesso il puro interesse, senza alcuna aggiunta di quota di compenso per rischio. Ciò, s’intende, per Stati civili ed in buone condizioni finanziarie. Mentre per molti privati, al tasso puro di interesse, ad esempio del 4 %, si aggiungono quote di rischio più o meno elevate, dell’1, 2 e più per cento: rischio di insolvenza, fallimenti, mancanza di puntualità, morte e dissesti famigliari, ecc. ecc. Normalmente, perciò, il tasso dell’interesse per lo Stato è più basso del tasso dell’interesse nei mutui ai privati; né vi è a questo proposito alcuna critica da fare, anzi i contribuenti debbono vivamente rallegrarsi che la cosa pubblica sia così bene amministrata da ridurre a zero le aggiunte di interesse pagate dallo Stato per i rischi, reali ed immaginari, dei mutui pubblici.

 

 

Il sub-interesse dunque si ha quando lo Stato medesimo:

 

 

1)    ottiene, mercé istituti speciali, capitali a mutuo ad un tasso minore di quello che lo Stato medesimo, nello stesso tempo, deve pagare per ottenere mutui sul mercato libero;

 

2)    ed, inoltre e sovrattutto, impiega le somme così ottenute a mutuo ad un sub -interesse in imprese che non avrebbe compiuto se avesse dovuto pagare il risparmio al prezzo per esso normale. Il fatto che lo Stato ottiene capitali a prestito al 3 % per mezzo delle casse postali di risparmio o degli istituti assicuratori, mentre deve pagare il 4 % per i mutui sul mercato libero, non è invero per sé stesso un fatto dannoso. Anzi può essere utilissimo, quando sia la conseguenza di un più perfetto servizio reso ai risparmiatori in confronto a quello reso dai banchieri privati. Chi può dubitare invero che lo Stato, aprendo casse di risparmio nei più piccoli e dimenticati borghi, rendendo accessibile la funzione della raccolta dal risparmio alle genti lavoratrici e contadine non renda a queste un servigio che volentieri queste classi pagano, rinunciando ad una parte dell’interesse normale?

 

 

Ciò che può essere dannoso, secondo la dimostrazione data sopra, non è la raccolta del risparmio ad un sotto interesse; bensì il suo impiego ad un interesse inferiore al normale, in imprese che sarebbero rimaste incompiute se si fosse dovuto pagare l’interesse normale. Certo la linea netta di distinzione fra gli impieghi utili e gli impieghi dannosi è difficilissima a trovare. Dobbiamo, per collocare gli impieghi nell’una o nell’altra categoria, contentarci di indizi approssimati.

 

 

Ne ricorderò due soltanto. In primo luogo pare ragionevole di ammettere che quando i risparmi volontariamente vanno allo Stato, perché i risparmiatori hanno in esso maggiore fiducia che nei banchieri privati, non vi sia a priori ragione di sospettare l’esistenza di un sub – interesse. Il caso delle casse postali di risparmio. Se lo Stato ottiene, per mezzo di esse, somme a mutuo ad interesse inferiore a quello normale per lo Stato medesimo la differenza non è un lucro gratuito, bensì un compenso per un servizio effettivo reso ai risparmiatori.

 

 

Se il tasso normale di interesse per i mutui di Stato è del 4 % ed il tasso assegnato ai depositanti postali è del 2,64 % in una contabilità perfetta, lo Stato dovrebbe scrivere, al passivo del suo bilancio una spesa per interessi del 4 %, ossia l’interesse normale, ed all’attivo un incasso, per provvigioni di raccolta e di custodia, dall’1,36 per cento. La qual maniera di contabilità metterebbe in luce le vere ragioni del minor interesse pagato dallo Stato; e persuaderebbe anche i meno veggenti che quei risparmi costando, come tali, allo Stato il 4 % non devono essere impiegati in imprese fruttifere solo del 3 %, se non si vuol perdere da un lato ciò che, con la sua sapiente opera di previdenza, lo stato ha lucrato dall’altro lato.

 

 

La presunzione inversa si ha quando i risparmi sono procacciati con la forza delle leggi; come accade quando il legislatore obbliga opere pie, enti ecclesiastici, banche ad investire i loro fondi in acquisti di titoli di Stato, o quando obbliga certe categorie di persone, come i funzionari dello Stato e degli enti locali, gli operai e gli impiegati privati a versare quote di assicurazione per la vecchiaia o l’invalidità in casse pubbliche o quando obbliga coloro i quali intendono assicurarsi sulla vita a versare i premi esclusivamente ad un istituto pubblico. In tali casi lo Stato riesce spesso ad ottenere somme ingenti a mutuo al 3 % invece che al tasso normale, e per esso normale, del 4 per cento. La differenza dell’1 % non è però un compenso per un servizio reso dello Stato, ma un’ imposta su certe classi speciali di contribuenti; e l’interesse del 3 % pagato dallo Stato assume aspetto di sub – interesse; e v’è pericolo, sebbene non vi sia certezza, che le somme così procacciate a forza siano impiegate improduttivamente, ossia con un frutto minore di quello corrente. La qual probabilità nasce dal fatto che ciò che poco costa si utilizzai male; chi ha vistosi redditi senza fatica, spesso è tratto a sperperarli. Osservazione vera medesimamente per gli individui e per gli Stati. La finanza allegra non è mai propria dei periodi di crisi, di disavanzi, di contrarietà, bensì dei periodi di entrate larghe e facili.

 

 

Un secondo indizio di impieghi dannosi si ha quando si ostenta la possibilità di impiegare somme fornite dallo Stato in certe imprese pubbliche ad un interesse mite, ossia inferiore a quello che lo Stato dovrebbe pagare se dovesse quelle somme procacciarsi sul mercato in condizioni normali. Il fatto che lo Stato si può procacciare miliardi colle casse postali al 2.64 % non è ragione bastevole per impiegarli di nuovo al 2.64 per cento. Il lucro che ottenne lo Stato, per le sue peculiari qualità di banchiere, è lucro di spettanza di tutta intiera la collettività e deve andare quindi a favore del bilancio generale dello Stato o, come si fa in Italia, ed in sostanza è la stessa cosa, alla Cassa nazionale di previdenza.

 

 

Ogni operazione di mutuo ad un sub – interesse significa una sottrazione alla collettività od ai fini voluti dal legislatore (sussidio alla Cassa nazionale di previdenza) di somme di sua spettanza. In una corretta contabilità, se il legislatore è persuaso che sia necessario compiere qualche opera pubblica, ad esempio un acquedotto, senza far gravare sugli utenti di acqua l’intiero costo di essa, compreso l’interesse e l’ammortamento al tasso normale, se cioè è persuaso che per un acquedotto del costo di 10 milioni di lire, il cui costo annuo per ammortamento in 50 anni all’interesse del 4 % sarebbe di L. 465.500 all’anno, non convenga far gravare sugli utenti tutto il costo di L. 465.500 all’anno, sarebbe pur sempre necessario mettere bene in luce che il costo dell’impresa è di L. 465.500 all’anno e non minore. Epperciò la Cassa depositi e prestiti od altra istituzione pubblica raccoglitrice di risparmi dovrebbe mutuare al Ministero dei Lavori Pubblici od al Comune i 10 milioni al tasso del 4 % e nei bilanci della spesa del Ministero e del Comune dovrebbe scriversi l’intiero ed esatto onere di L. 465.500 all’anno. Se poi si ritiene che gli utenti debbano pagare soltanto l’ interesse al 3 %, si dovrà scrivere in entrata dei medesimi bilanci soltanto L. 388.650 a titolo di contributo degli utenti per l’ interesse ed ammortamento al 30 % in 50 anni dell’acquedotto, più si scriveranno L. 76.850 – quante occorrono a completare le occorrenti L. 465.500 di spese – a titolo di contributo del tesoro ossia dei contribuenti.

 

 

In tal modo sarebbe chiaro:

 

 

1)    che la Cassa depositi e prestiti lucra il 4 % dall’impiego dei 10 milioni, per cui paga solo il 2.64 % di interesse ai depositanti;

 

2)    che gli utenti pagano solo il 3 % di interesse invece che il 4 %, quanto costa il mutuo;

 

3)    che il tesoro ossia i contribuenti da un lato lucrano la differenza fra il 2.640 % ed il 4 %, in qualità di banchieri, e dall’altro perdono la differenza fra il 3 ed il 4 % a titolo di imprenditori di acquedotti.

 

 

Ciò è chiaro, e veritiero. Così si avvertono i contribuenti dei buoni risultati finanziari di talune imprese pubbliche (banca) e dei risultati passivi di altre (acquedotti); ed i contribuenti a ragion veduta delibereranno se convenga costruire acquedotti passivi. Probabilmente diranno di sì, perché essi sono persuasi dei vantaggi grandi degli acquedotti per la collettività, ma sarà giudizio fondato su un esatto confronto di costi e vantaggi, unico giudizio il quale appaia ragionevole. Se invece il legislatore vuole che la Cassa depositi e prestiti mutui al Comune i 10 milioni al mite interesse del 3 %, apparentemente si è ottenuto l’intento di costruire l’acquedotto con una spesa minore, di L. 388.650 invece che di L. 465.500 all’anno per 50 anni. In realtà tutto ciò è pura apparenza contabile. Il tesoro del Comune è caricato di un interesse del 3 invece che del 4 %, solo perché il tesoro dello Stato ha rinunciato ad un lucro dell’1 % che gli sarebbe spettato in qualità di banchiere. Sostanzialmente i due metodi conducono allo stesso risultato, ed il secondo appare anzi più semplice, perché evita giri, che sembrano oziosi, di contabilità.

 

 

Ma nei loro effetti politico – finanziari sono diversi. Il primo metodo dice ai contribuenti: badate la costruzione dell’acquedotto vi farà perdere gran parte di quel lucro che avete ottenuto come banchieri. Il secondo metodo invece afferma: voi potete tranquillamente deliberare la costruzione dell’acquedotto, perché questo costa solo il 3 % di interesse verso la Cassa Depositi e Prestiti, costo che sarà intieramente sopportato dagli utenti.

 

 

Il primo metodo è franco ed aperto e palesa oneri e vantaggi ai contribuenti, come si deve fare in un paese libero, in cui gli affari pubblici sono apertamente discussi. Il secondo mira a strappare il consenso ai contribuenti per l’opera pubblica, persuadendoli che questa ad essi nulla costa. Qui vi è indizio di sub – interesse, ossia di impiego di capitale compiuto in guisa che forse non sarebbe stata voluta dai contribuenti, se essi avessero avuto dinanzi agli occhi il calcolo genuino del dare e dell’avere dell’opera pubblica. Se essi avessero saputo che, approvandola, sacrificavano un 1 % che avevano già lucrato, ossia si sottoponevano ad altrettante imposte, che avrebbero potuto risparmiare grazie al lucro equivalente già ottenuto in qualità di banchieri, forse non avrebbero dato il consenso. Od, almeno, è legittimo il dubbio che i governanti abbiano scelto il mite interesse per facilitare il compimento dell’opera ed annebbiare il problema in guisa da rendere più facile il consenso dei contribuenti.

 

 

Non già si dice che la scelta di un metodo contabile invece di un altro abbia per sé stessa la virtù di far compiere opere che altrimenti non sarebbero state deliberate. Sarebbe questo un sofisma analogo a quello di chi preferisce il metodo dell’imposta straordinaria al metodo del debito pubblico, perché ritiene che il secondo metodo promuove le spese straordinarie inutili. Si afferma invece che il legislatore, il quale è deliberato a compiere un’opera, che egli ritiene non sarebbe voluta dai consociati ove questi ne conoscessero il costo esatto, sceglie quel metodo contabile (prestito ad interesse mite) il quale è meglio in grado di far apparire l’opera poco costosa e quindi è atto a strappare ai contribuenti il consenso al suo compimento[1].

 

 

E quindi ancora è legittimo il timore che la facilità dei mutui a mite interesse storni il capitale dagli impieghi ad alti rendimenti ad impieghi a bassi rendimenti. Se noi comprendiamo tra gli impieghi ad alti rendimenti anche quegli impieghi in cui il 3 % è pagato dagli utenti e l’1 %, a ragion veduta e dopo discussione adeguata, dai contribuenti, noi ve- diamo che la facilità dei mutui al 3 % od altro cosidetto mite interesse, grazie all’esistenza dei fondi depositati negli istituti pubblici di risparmio e di assicurazione, tende a spostare i capitali non solo dagli impieghi privati a rendimenti normali del 4 e più per cento ad impieghi pubblici meno produttivi, ma, eziandio e sovratutto, dagli impieghi pubblici per cui gli utenti sarebbero stati consapevolmente disposti a pagare il 3 % ed i contribuenti il residuo occorrente 1 % a quegli altri impieghi pubblici, che sono consentiti ed apparentemente a gran voce richiesti dai contribuenti perché essi si illudono, grazie al mite interesse, di non essere soggetti ad alcuno o ad un minor onere tributario per il loro conseguimento.

 

 

È dimostrato perciò che l’assorbimento del risparmio del paese per mezzo di istituti pubblici di risparmio e di assicurazione è conveniente alla collettività solo quando:

 

 

a)    l’assorbimento si verifichi con perfetta libertà dei risparmiatori di scegliere altra maniera di investire i loro risparmi;

 

b)    l’investimento da parte degli istituti pubblici dei risparmi così raccolti avvenga ad un tasso non inferiore a quello normale o corrente per i mutui allo Stato ed ai Comuni sul mercato libero, accollandosi apertamente al tesoro l’onere di eventuali sussidi a prò dell’opera pubblica da compiersi, quando il costo, all’interesse normale, appaia per gli utenti eccessivo.

 

 

Quando siano osservate queste condizioni, l’industria privata non potrà lamentarsi di vedere assorbito dallo Stato tutto o gran parte dei risparmio del Paese. Poiché esso sarà stato assorbito solo da intraprese per cui utenti e contribuenti insieme hanno apertamente e maturamente dichiarato di essere disposti a sopportare l’onere dell’interesse corrente; ossia sarà stato assorbito da imprese pubbliche le quali coi fatti – prezzi pagati dagli utenti ed imposte versate dai contribuenti – dimostrano di essere altrettanto produttive come le private. Entro questi limiti l’impiego dei risparmi raccolti dagli istituti pubblici in imprese pubbliche appare conveniente alla collettività; mentre al di fuori di essi ne sembra certissimo il danno.



[1] Cfr. su questo punto i parr. 591 – 593 delle mie Lezioni di Scienza delle Finanze, edite dal Dott. Achille Necco (Torino, 1913). Sui prestiti a sotto – interesse e sul finanziamento autonomo dello Stato cfr. i parr. 606-607 e 617/643 dello stesso corso.

Torna su