Opera Omnia Luigi Einaudi

Le premesse dottrinali della riforma del regime fiscale delle società per azioni

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/12/1911

Le premesse dottrinali della riforma del regime fiscale delle società per azioni

«Rivista delle Società Commerciali», dicembre 1911, pp. 417-429

In estratto: Roma, Offic. tip. Bodoni, pp. 45

«Rivista di politica economica», novembre 1961, pp. 1947-1972[1]

 

 

 

Sulla riforma del regime fiscale delle società per azioni hanno scritto tanti insigni e competentissimi, che non sembra davvero necessario di ripetere le opportune osservazioni da essi già fatte. Quasi tutti coloro che discorsero del credito industriale su questa rivista accennarono alla pressione tributaria come ad una delle principali ragioni per cui è resa difficile la emissione di obbligazioni o cartelle ad opera delle società per azioni.

 

 

Negli scritti di Alberto Geisser su La Riforma del regime fiscale delle società per azioni (Riforma Sociale di settembre – ottobre 1910) e su il regime legale e fiscale delle obbligazioni emesse dalle società per azioni (id. id., Giugno 1911), nelle relazioni al congresso delle società per azioni (Torino, 1911) di Leopoldo Sabbatini sul regime fiscale delle società per azioni, di Federico Reyna sul regime legale delle obbligazioni e di Giuseppe Magni sulle società anonime, con sezioni particolarmente dedicate al regime fiscale, alle imposte dirette ed indirette, sono esposte e largamente commentate le riforme più urgenti che nell’interesse dell’industria e dell’economia pubblica dovrebbero essere compiute nell’assetto fiscale delle società per azioni.

 

 

Non è mancata nemmeno l’esposizione temperata dal punto di vista fiscale in alcuni articoli del comm. L. Frincivalle sulla rivista La Società per azioni (1911). Poiché le proposte del Geisser e del Sabbatini mi paiono in ispecial modo ragionevoli e tali da fornire argomento a deliberazioni concrete, credo superfluo aggiungere alla adesione la ripetizione dei buoni argomenti su cui esse poggiano.

 

 

Ma una obbiezione sorge sempre spontanea, dal fecondo terreno della retorica politica italiana, contro tutti i disegni di riforma messi innanzi dalle società per azioni: trattarsi di deviazioni dalle regole ordinarie del diritto tributario a vantaggio delle società; e di deviazioni inaccettabili, perché contrarie ai principi fondamentali della uguaglianza e della giustizia tributaria. Perché le società vogliono un regime speciale per la valutazione dei redditi loro, perché non vogliono pagare sulle riserve, e desiderano di essere tassate sul dividendi e sugli altri utili distribuiti? Forseché per il privato industriale si indaga quanta parte del reddito va nella sua cassetta privata e quanta è destinata a nuovi impianti? Scrittori di finanza e alti funzionari ministeriali, in Italia e altrove, sono tutti ammalati di quella curiosa malattia che si chiama «l’ossequio all’idolo della giustizia e della perequazione tributaria» e partono in guerra ogni altro giorno contro le sperequazioni, le eccezioni, le esenzioni frodolente all’obbligo tributario. Nelle relazioni annue dei direttori generali delle imposte dirette e delle tasse degli affari si leggono dissertazioni, spesso acute ed eleganti, sempre costrutte con ingegno raffinato e con indubbio zelo per la cosa pubblica, volte a mettere in rilievo gli inganni tesi dal contribuente al fisco per sottrarsi all’obbligo comune, le sperequazioni esistenti fra contribuente e contribuente, fra cespite e cespite; e tutte queste dissertazioni conchiudono alla necessità di perequare, di livellare, di opporre astuzie ad astuzie, strumenti di offesa ad istrumenti di difesa.

 

 

Quasi sempre la giustizia, la perequazione che si vuole è puramente formale, Tizio paga 5 e

Caio 4; onde ragion vuole che Caio sia portato anche egli a 5. Non si ragiona del perché Tizio e Caio paghino 5 e 4; si vuol togliere l’ingiusto divario tra di essi. Non importa che sia priva di senso comune l’aspirazione alla giustizia, quando si tratta di rendere uguali due tasse che non si sa perché esistano, come accade per la più parte delle tasse sugli affari. Esistono di fatto; e quindi devono essere uguali. S’intende che l’uguaglianza è aritmetica e la perequazione si opera portando in su il meno tassato dei due contribuenti.

 

 

Contro l’imperversare dell’adorazione dell’idolo della giustizia, le buone ragioni pratiche, tratte dai fatti vivi, le dimostrazioni dei danni che ne derivano alla economia nazionale, a nulla servono. Si tira fuori qualche vecchio broccardo, con cui si dimostra che non si possono mutare i principii solo perché l’applicazione non è scevra di inconvenienti; si denunciano le domande delle società per azioni come se fossero intese a sottrarre ingiustamente i ricchi, i capitalisti, i banchieri dal dovere dell’imposta con ingiusto aggravio delle classi povere.

 

 

In un ambiente, come è quello italiano da Roma in giù, agrario, burocratico, professionale, dove industriali, commercianti e banchieri sono tenuti in conto di sfruttatori (trasformando un rimprovero che, a parer mio, è esattissimo, se diretto contro taluni gruppi privilegiati, in un’errata valutazione di una intiera classe), è chiaro che avranno maggiori probabilità di vittoria coloro che fanno appello ai grandi e solenni nomi di giustizia che non gli altri che fanno considerazioni saviissime di convenienza economica. Ancor non è entrato nella mente dell’universale che la «giustizia tributaria» è un nome vano senza contenuto ove al concetto non si dia corpo e sostanza viva mercé considerazioni di convenienza economica. Perciò, a vincere la buona battaglia, non sarà fuor di luogo discorrere anche noi di «giustizia» e di «principii».

 

 

A trattarne a fondo, bisognerebbe scrivere un trattato. Mi contenterò invece di esporre alcune considerazioni intorno a due punti fondamentali: Perché le società sono contribuenti Su che cosa devono contribuire? Naturalmente, non essendo io un giurista, non baderò troppo alla lettera delle leggi vigenti tra noi; tanto più essendo sul discorso di «riforme», le quali implicano logicamente una mutazione della legge vigente. Perché le società sono contribuenti? Perché, si risponderà, sono commercianti come gli altri, lucrano, come ogni altro commerciante, redditi e su questi devono pagare. Ecco il punto fondamentale da risolvere: sono davvero le società contribuenti come gli altri e devono esse pagare per lo stesso motivo per cui pagano gli altri contribuenti? A me non pare; e del mio dubbio dirò le ragioni. Probabilmente queste ragioni sono in parte le stesse che suffragano la tesi di Ulisse Manara, lo strenuo lottatore contro il riconoscimento della personalità giuridica delle società commerciali. Egli ha voluto dimostrare nella sua recente monografia su La pretesa imponibilità del sovraprezzo nelle azioni di nuova emissione e la pretesa personalità giuridica delle società commerciali (Torino, Un. Tip. Ed. Torinese, 1911) e di nuovo in Ancora sulla questione del sopraprezzo nelle azioni di nuova emissione in rapporto all’imposta di ricchezza mobile (estratto dal Foro italiano anno 36esimo fasc. dodicesimo) che tutto il malanno della tassazione dei sovraprezzi deriva dal concepire, che la cassazione ha fatto, le società commerciali sul serio come persone giuridiche a sé stanti, separate dalle persone del soci, e quindi dal dedurne che ciò che è capitale pei soci può essere benissimo reddito per la società. In questa particolare tesi sua il Manara ha forse esagerato; in quanto non ha dimostrato che necessariamente l’attribuire la personalità giuridica alle società per azioni bastasse a dare natura di reddito al sovraprezzo. Bisognava aggiunge una particolare definizione del reddito delle società, ossia, come disse la cassazione in una delle sue oramai molte sentenze, essere reddito tutti gli incassi di cui la società non si dà debito verso i soci a titolo di capitale nominale.

 

 

La qual definizione del reddito non ha la figura logica di conseguenza necessaria del concetto di personalità giuridica delle società commerciali. Certamente però il Manara parmi sia riuscito a dimostrare che – dal punto di vista tributario – questo concetto di personalità giuridica è un malefico fantoccio, atto ad imbrogliare le idee ed a servire come strumento in mano ad una magistratura fiscale per inventare, con ragionamenti malamente appiccicati su di esso, redditi là dove redditi non ci sono. Hanno ragione gli oppositori del Manara, fra gli altri il Gobbi, a dire che la questione se il sovraprezzo sia un reddito deve essere giudicata esclusivamente sui meriti o demeriti del sovraprezzo per sé stesso considerato. Ma finché la cassazione e tanti altri con essa seguiteranno ad argomentare dal concetto della personalità giuridica, non sarà inutile dire e ripetere che questo concetto è un fantoccio, che servirà ad altri fini, ma nel campo fiscale non ci aiuta e spiegare la realtà.

 

 

Io dico che il concetto di persona giuridica è un fantoccio che noi abbiamo creato; per servircene a disciplinare i rapporti dei soci con i terzi. È una finzione immaginata per comodo di trattazione, per reale utilità dimostratasi attraverso la storia e messa in chiaro nei libri dei giuristi, ma è una finzione. Perché questo fantoccio, che nessuno ha mai veduto, che abbiamo immaginato noi per spiegare in maniera spiccia certi fatti e certi rapporti, che ci porterebbero via troppo spazio e troppo tempo ad elencarli volta per volta nel linguaggio comune, dovrebbe pagare imposte? Esclusivamente perché può ben darsi che tassare il fantoccio sia più comodo e altrettanto corretto del tassare gli uomini e le cose che si trovano dietro a questo paravento.

 

 

Per sé stesso non v’è ragione perché il fantoccio – sia esso chiamato persona giuridica tout court, o persona giuridica sui generis, o società comunione, parole tutte queste, alle quali possiamo dare, previa intesa chiaramente formulata, tutte le significazioni immaginabili – paghi un centesimo all’erario. Perché invero si pagano imposte? Per lo stesso motivo per cui si paga il prezzo del pane, del vino, dei vestiti, di tutte le cose bisognevoli alla vita dell’uomo. Gli uomini (ma occorre che siano uomini vivi, in carne ed ossa; non persone scritte sui libri od immaginate per abbreviare i discorsi) hanno bisogno, come di pane per cibarsi, di vino per bere, di panni per vestirsi, altresì di certi beni ideali che han nome difesa, giustizia, sicurezza e via dicendo. Poiché da soli questi beni ideali non se li possono procurare, tutti i cittadini si accordano e creano una organizzazione coattiva, chiamata Stato, la quale distribuisce su di loro il costo dei servizi pubblici.

 

 

Ma è evidente che per essere contribuenti bisogna essere degli individui senzienti, degli uomini che hanno fame e sete, come di pane e di vino, altresì di giustizia e di sicurezza. Le persone morte, i fantocci, le immaginazioni del nostro intelletto non sentono nulla e non possono per definizione essere contribuenti per virtù propria. Lo diventano per delegazione degli uomini vivi. Può darsi invero che, nella stessa maniera in che gli uomini talvolta reputano di dovere mettere insieme capitali ed opere o gli uni o l’altre per procacciarsi più facilmente, con minor costo, la ricchezza, così essi si accordino per provvedere meglio al soddisfacimento dei bisogni pubblici.

 

 

Ecco perché la società commerciale è contribuente. Non c’è bisogno per ciò di scomodare il fantoccio società – persona giuridica od il fantoccio società – comunione. Ne creeremo, tutt’al più, un altro appropriato alla soggetta materia tributaria, il fantoccio società commerciale – agente riscuotitore, od esattore per conto dello Stato. La società commerciale è, cioè, contribuente perché i veri contribuenti, ossia gli uomini, e lo Stato hanno concordemente riconosciuto che l’accertamento e l’esazione delle imposte potevano farsi in maniera acconcia coll’intermediazione delle società. Acconciamente, ossia con risparmio di spese, di fastidi per i contribuenti, con minor pericolo di insolvenze e di frodi per lo Stato. Tutta l’evoluzione economica moderna conduce a crescere l’importanza di questi che io chiamerei esattori semi – pubblici di imposte messe a carico di moltitudini di contribuenti.

 

 

Non le sole società commerciali e non i soli azionisti delle società commerciali si trovano in questa singolare situazione, creata, ripeto, dal complicato meccanismo della società economica moderna. I fabbricanti di merci o derrate soggette ad imposta di fabbricazione non sono forse essi dei riscuotitori di tributi sui consumatori di zucchero,spiriti, birra, gas, luce elettrica, cicoria, zolfanelli ecc. per conto del fisco? Il tecnicismo moderno, accentrando le imprese, ha reso conveniente l’esazione di tributi sui consumi in maniere che sarebbero assurde in un regime di piccole e medie intraprese. Il fabbricante è ritenuto dalla legge come contribuente dell’imposta di fabbricazione. In realtà trattasi di una finzione. Egli è un vero esattore per conto del fisco e in tale qualità riceve il suo bravo aggio di esazione, consistente nel maggior prezzo che egli può imporre ai consumatori, in aggiunta all’imposta, per conseguenza, della situazione privilegiata in cui l’imposta stessa lo mette.

 

 

Egli sfrutta cioè la minor concorrenza tra fabbricanti diminuiti di numero, perché non tutti hanno i mezzi per anticipare l’imposta al fisco; di qui minori fidi concessi ai grossisti e dettaglianti, più brevi more al pagamento; maggior facilità di accordi tra fabbricanti, di cui il fisco stesso si incarica di controllare e pubblicare le cifre della produzione, a garanzia tacita dell’osservanza dei patti del trust, ecc. ecc. Se il fabbricante è un esattore ad aggio, il vero contribuente è il consumatore. Quando si parla di istituire od accrescere un’imposta di fabbricazione non si bada invero alla capacità contributiva dei fabbricanti, ma esclusivamente a quella dei consumatori.

 

 

Nel campo delle imposte dirette la medesima evoluzione è evidentissima. L’imprenditore non paga forse, salvo rivalsa, l’imposta per conto dei suoi impiegati ed operai, il banchiere, la cassa di risparmio per conto dei depositanti, i quali nemmeno si accorgono di essere soggetti a tributo, ricevendo un interesse netto da imposta?

 

 

Non è forse chiarissima la tendenza a crescere queste funzioni esattoriali dei banchieri, agenti di cambio, casse di risparmio? Il disegno di legge francese di imposta sul reddito (Caillaux) impone a tutti costoro una serie di obblighi tributari molteplici. Essi dovrebbero percepire l’imposta cedulare sul reddito su tutti i cuponi, cheques emessi dall’estero in pagamento di interessi o dividendi o profitti, pagati colla loro intermediazione; e dovrebbero fare un elenco di tutte le persone a cui favore fossero fatti simili pagamenti, per permettere al fisco di tassarne il reddito globale ecc. ecc.

 

 

Si deve dire con ciò che i contribuenti veri siano i banchieri, le casse di risparmio e simili organismi intermediari che le necessità economiche della vita moderna vanno moltiplicando? Ohibò! Essi sono dei puri esattori, esattori non volontari, costretti per forza dal fisco a soddisfare a questa buona o mala bisogna per conto dei veri contribuenti, i quali sono coloro che ricevono e godono il reddito.

 

 

Così è delle società commerciali. Esse sono contribuenti, non perché siano veramente tali, ma in qualità di esattori di imposta per conto del Fisco a carico dei veri contribuenti. I quali non sono soltanto gli azionisti, ma pur anco gli obbligazionisti, gli amministratori, gli impiegati, gli operai, i correntisti e quant’altri ricevono redditi in una certa permanente maniera per mezzo del fantoccio società.

 

Il quale ha quindi due distinte funzioni, l’una produttiva, l’altra distributiva:

 

 

1)    come strumento di produzione della ricchezza gli uomini si decideranno riunirsi in società quando, così facendo, riescano a produrne in quantità maggiore ed a costo minore;

 

2)    come strumento di distribuzione, il reddito ottenuto in società viene distinto in due parti: la prima viene consegnata ai soci, agli obbligazionisti, agli amministratori, agli impiegati, agli operai perché se ne servano per i loro bisogni privati; la seconda, invece di essere consegnata a tutte queste egregie persone perché esse la versino allo Stato per ottenerne il soddisfacimento dei loro bisogni pubblici, viene dalla società in veste di esattore versata direttamente all’erario.

 

 

Per la parte del reddito destinato al soddisfacimento dei bisogni pubblici invece di aversi i passaggi: Società – Contribuente – Fisco si ha un solo passaggio: Società Fisco. Ma, nonostante questa abbreviazione, il vero deus ex machina rimane sempre l’uomo singolo, vivo e reale, contribuente per mezzo della società. Il risparmio del giro vizioso è conveniente per molti motivi:

 

 

1)    perché è inutile compiere una trasmissione di denaro, che si può benissimo risparmiare. In un’epoca in cui il tempo è moneta, in cui si creano le stanze di compensazione per evitare un maneggio superfluo di moneta, anche il fisco ha compreso la convenienza di risparmiare un giro vizioso;

 

2)    Nel giro vizioso il fisco dovrebbe sottostare a maggiori spese di esazione, le quali aumenterebbero il carico dei contribuenti ed andrebbero contro all’aureo dettame di Adamo Smith che le imposte debbono essere esatte in maniera da gravare sui contribuenti in misura non superiore o di pochissimo superiore al reddito fornito all’erario. Correre dietro a migliaia di azionisti, di obbligazionisti, di operai sarebbe cosa ben più fastidiosa e costosa dell’esigere un tributo globale dalla società, salvo a questa di trattenere le quote rispettive sui veri contribuenti;

 

3)    Nel tragitto vizioso del reddito consacrato ai fini pubblici dalla società – strumento al fisco, traverso alle borse private dei contribuenti, ben potrebbe darsi che una parte del reddito – imposta pigliasse delle vie traverse e si nascondesse anche agli occhi d’Argo del fisco.

 

 

Come individuarli questi azionisti ed obbligazionisti, possessori di titoli al portatore, una volta che essi avessero incassato il loro interesse o dividendo? Si dovrebbero forse rendere tutti i titoli nominativi? Il rimedio sarebbe peggiore del male. Come esigere di fatto l’imposta da impiegati ed operai nullatenenti, talvolta in lotta col bisogno? Bisognerebbe pignorare i mobili, procedere ad atti odiosi, che sommoverebbero l’opinione pubblica. L’esazione dell’imposta in blocco presso le società fu un tratto di genio.

 

 

Finché il fisco incrudelisce contro il fantoccio – società tutti si divertono, persino molti dei contribuenti colpiti. Gli obbligazionisti riflettono che essi hanno contrattato un interesse al netto da qualunque imposta presente e futura e ritengono che il tributo non li interessi. Gli impiegati e gli operai si fregano le mani al vedere i bei colpi indirizzati all’odiato capitale; e gli operai minacciano magari lo sciopero ove la società faccia mostra di volere sul serio esercitare il diritto di rivalsa. Rimangono gli azionisti. Ma chi pon mente ad essi? Azionista e corbellato non sono forse due sinonimi nel linguaggio comune? Un tratto di genio dunque la creazione della società – fantoccio contribuente.

 

 

Fin troppo geniale, e non scevro dal pericolo di prestarsi a giuochi di prestidigitazione, alla classica moltiplicazione dei pani e dei pesci, voglio dire da un lato all’illusione per cui taluni contribuenti paiono non pagare tributi e dall’altro alla ripetizione della stessa imposta sullo stesso reddito e sullo stesso contribuente.

 

 

Citerò alcuni di questi inconvenienti:

 

 

a)    l’imposta essendo anticipata dalla società – esattore, diventa in apparenza insensibile pel vero contribuente. È vero che la società ha ricevuto dal legislatore il diritto di esercitare la rivalsa. Ma in pratica viene essa esercitata? Quasi mai. Talvolta alla rivalsa si è fatta rinuncia per patto espresso, come accade per gli obbligazionisti, a cui si è promesso un dato interesse annuo libero da ogni tributo presente o futuro. Più spesso la rinuncia alla rivalsa avviene di fatto. Si riflette che non val la pena di compiere tutto un giro di scritturazioni, per rivalersi dell’imposta sui dividendi, sugli stipendi e sui salari; epperciò questi redditi si pagano al netto. Nessuna pratica è in fondo più perniciosa di questa. Si abituano molte persone all’idea di non pagare imposte.

 

 

Dall’idea di non pagare di fatto all’altra di non dover pagare o di averla fatta franca al fisco poco ci corre. L’azionista medio non legge i bilanci, non va nemmeno alle assemblee e non sente le querimonie degli amministratori intorno al pondo delle imposte; quindi accade che egli creda in buona fede di non pagare imposte sui dividendi. Se egli se ne allieta, altri ne trae argomento di critica. Onde le discorse senza senso che si odono fare da giornalisti, deputati, senatori intorno alla scandalosa evasione dalle imposte che, secondo loro, sarebbe consentita ai possessori di titoli al portatore. Discorsi senza senso, dico perché tutti sanno che, di fatto, i redditi e il capitale dei titoli al portatore sono gravati da imposte in copia maggiore dei corrispondenti redditi e capitali di aziende private. Ma le discorse senza senso sono spesso quelle che hanno maggior eco e che servono come pretesto a ministri e funzionari per proporre ingiusti inasprimenti di imposte per cespiti già duramente colpiti.

 

 

Negli impiegati e negli operai il difetto della rivalsa ingenera la persuasione di non dovere pagare l’imposta, onde nasce e si moltiplica nella società moderna, dove l’esazione indiretta a mezzo di fantocci si estende sempre più, una classe di contribuenti che, mentre di fatto contribuiscono, hanno l’illusione di non contribuire. Costoro si disinteressano della cosa pubblica; o se ne interessano soltanto per chiedere spese inutili e provocare nuove imposte sui ricchi, e sulle grandi intraprese di cui sono i collaboratori. Perciò credo che una delle riforme più efficaci, più sane nel regime fiscale delle società per azioni e di tutti i finti contribuenti che fungono da esattore per conto del fisco sarebbe questa: rendere la rivalsa obbligatoria per tutte le specie di redditi tassati al nome di società, ditte, enti diversi dal vero contribuente. A questa obbligatorietà non si dovrebbe poter derogare con convenzioni particolari. Gravissime dovrebbero essere le sanzioni contro chi violasse questa norma; io andrei fino a stabilire la nullità assoluta di tutti i pagamenti di somme soggette ad imposta, che fossero fatti senza che fosse esercitata la rivalsa, con diritto da parte del creditore di ripetere un’altra volta il pagamento della somma. Una certa latitudine discretiva dovrebbe essere lasciata agli amministratori intorno alla distribuzione per rivalsa del carico d’imposta sui vari contribuenti.

 

 

Agli obbligazionisti, agli impiegati, agli operai, ai correntisti, ecc. non potrebbe essere fatto pagare per rivalsa nulla più e nulla meno delle aliquote legali scritte nelle leggi. Il residuo dovrebbe far carico agli azionisti. Spesso si vedrebbe che il dividendo di costoro dovrebbe essere decurtato non del solo 10 % che è l’aliquota effettiva legale dei contribuenti di categoria B, ma di una percentuale ben superiore, tanto grandi sono le somme che il fisco considera reddito mentre di fatto sono una cosa diversa, o tanto diverse sono le somme che gli amministratori giudicano conveniente distribuire come utile dalle somme reputate utile dagli agenti delle imposte. Tanto meglio. Si vedrebbe chiaramente da tutti quale sia la realtà vera in questa faccenda delle imposte sugli enti collettivi; e la divulgazione della verità potrebbe essere una spinta ad altre riforme da tempo desiderate. Nella campagna per la riforma le società avrebbero per alleati i loro obbligazionisti, impiegati, operai, ecc.

 

 

Costoro che riescono talvolta a non pagare l’imposta, profittando del fatto che i loro salari sono a giornata o che essi emigrano frequentemente da uno stabilimento all’altro, vedrebbero necessariamente palesati i loro redditi, potendosi anche dal fisco controllare se fu esercitata la rivalsa per somme parziali uguali in totale a quella pagata dalla società. L’imposta di R. M., che ora si fa sentire a troppa poca gente nella categoria C riuscirebbe più fastidiosa ai veri contribuenti e sarebbe soggetta a critiche più efficaci. In Inghilterra, quando l’income tax, essendo stata da Lloyd George spinta al 5,60 d% cessò di essere un fattore trascurabile nel bilancio delle spese delle società per azioni, furono molte le società che deliberarono di esercitare di fatto quella rivalsa sugli azionisti, che prima avevano sempre trascurata, reputandola una mera complicazione formale. Pagavano il dividendo free of income tax, netto di imposta; ed ora lo pagano less income tax al lordo da imposta. Il contribuente ha così la sensazione netta di quanto il fisco gli porta via. C’è qualche maggior complicazione di scritture, ampiamente compensata dalle forze reattive che la coscienza della verità mette in azione.

 

 

b)    l’imposta essendo pagata dalla società – esattore per conto dei veri contribuenti, accade che la società – esattore è talvolta costretta a pagar di più di quanto pagherebbero i contribuenti, se fossero chiamati a contribuire essi medesimi. L’esempio tipico è dato dalle tasse di surrogazione. La tassa sulla surrogazione dei titoli si chiama di surrogazione appunto perché è pagata dalle società emittenti titoli invece di altre tasse che i possessori dei titoli dovrebbero pagare e si ritiene non paghino più.

 

 

Sono l’1.80 o il 2.40 per mille che le società sono chiamate a pagare al posto e in surrogazione di qualche altra tassa che gli azionisti e gli obbligazionisti dovrebbero pagare. Quali sono queste altre tasse? Non la tassa di successione perché viene pagata sui titoli al portatore accertati in una denunzia ereditaria, benché il 0.60 per mille pagato in più dai titoli al portatore sia stato giustificato colla presunzione di frodi compiute dagli eredi e legatari. Logicamente da questa prescrizione si sarebbe dovuto dedurre la conseguenza che le società fossero chiamate a pagare invece degli azionisti ecc., salvo un rimborso, calcolato nella migliore possibile maniera, nel caso che la tassa di successione fosse effettivamente pagata. Non la tassa di bollo relativamente ai trasferimenti, perché, come nota il Princivalle (art. cit.), le operazioni sui titoli debbono compiersi a mezzo dei foglietti bollati istituiti per i contratti di borsa, e gli atti formali di alienazione dei titoli sono bensì esenti dalle tasse di registro, ma non da quelle di bollo. Ammettendo poi che la tassa di negoziazione venga effettivamente a surrogare qualche altra tassa pei trasferimenti che avrebbe dovuto essere pagata dai singoli possessori dei titoli, vi è davvero l’equivalenza fra il surrogato e l’originale? Una volta istituita una imposta qualunque, essa acquista una virtù espansiva propria, tutt’affatto indipendente dalle ragioni con cui se ne era giustificata la creazione. Pareva che l’aliquota dell’1 per mille della tassa di negoziazione (surrogato) corrispondesse alle tasse di registro e di bollo applicabili ai trapassi dei titoli (originale); e così fu fino al 1902.

 

 

Poi si verificò un movimento doppio ed inverso: da un lato il surrogato veniva portato nel 1902 all’1.80 e 2.40 per mille e la sua applicazione veniva nel 1911 resa più rigida. Dall’altra le tasse orinali venivano in parecchi casi diminuite: ad esempio, colla esenzione dalle tasse di bollo e registro dei contratti conchiusi a mezzo di corrispondenza commerciale e colla riduzione da L. 1.20 a 30 centesimi della tassa di bollo e da L. 2.40 e 0.60 a 10 cent. della tassa di registro per le scritture di vendita di merci, macchine ed altri prodotti industriali ed agrari.

 

 

A ragione il Princivalle osserva che, se molte attività sociali possono cedersi per mezzo di corrispondenza esente da tasse, o con scritture soggette a tasse lievissime, non si comprende come possa ancora ritenersi surrogatoria di queste la medesima tassa di negoziazione che prima ne surrogava altre assai più gravi; e aggiunge fondatamente che, se le cambiali a carico delle società possono essere cedute con la semplice girata esente da tassa, non è giustificata l’applicazione della tassa di negoziazione quale surrogato di altre tasse che non sono dovute pel trasferimento dei crediti verso la società. Tutto ciò noi lo possiamo biasimare solo a patto di tenere bene fisso in mente il concetto che la società è un contribuente – esattore, un contribuente – simbolo, che paga per conto di altri, e cioè degli azionisti e degli obbligazionisti che sono i veri contribuenti. A poco a poco però il concetto sano, semplice della società – esattore si oscura. Al suo posto sottentra il concetto della società contribuente a nome ed a conto proprio; ed allora ogni idea di proporzionalità reale scompare e si assidono sulla società imposte sproporzionate a quelle che pagano gli individui, che hanno la fortuna di contribuire direttamente, senza questa costosa intermediazione. Altra riforma dunque necessaria e logica: ristabilire l’equivalenza esatta fra ciò che pagano le società e ciò che pagherebbero i veri contribuenti se fossero tassati direttamente.

 

 

c)    Meno male se le sperequazioni si limitassero a mancata equivalenza. Appena attribuita alle società la fittizia natura di contribuente, si dimentica che in tanto essa contribuente in quanto è esattore, e nasce invece la voglia nei politicanti in cerca di favor popolare e nei sicofanti desiderosi del favore governativo di battere sul fantoccio come su una testa di turco. Onde, – per quel processo invisibile di trasmissione delle idee demagogiche dai comizi popolari e dalle concioni parlamentari negli scritti scientifici che si avverte ai tempi nostri – accade di leggere in sentenze della cassazione romana «aver la legge tributaria formato delle società commerciali una speciale classe di contribuenti per averle reputate istituzioni preordinate ad una più intensa vita economica di quella confacente a singoli commercianti» (Cassazione a sezioni riunite, 10 febbraio 1910). Sono parole prive di significato, perché come può essere valutata la «più intensa vita economica»? Pare che lo possa essere esclusivamente da un maggior reddito pecuniario; poiché, se questo non v’è, il legislatore potrà bene aver preordinato tutte le stravaganze di questo mondo, ma resteranno nel mondo dei fantasmi irreali. Se poi il maggior reddito esiste, esso darà maggior provento al fisco, sia che appartenga a società come ad individui singoli. Il criterio della maggior fecondità del tributo non è il fatto «società» ma l’altro fatto, ben diverso, del «maggior reddito».

 

 

I politicanti ed i loro caudatari invece assumono a criterio di maggior capacità contributiva il fatto mero dell’essere il reddito ottenuto collo strumento di una società. E la sostituzione di concetti politici a concetti economici. Di qui nasce tutta la legislazione creata in odio delle grandi agglomerazioni di capitali, nell’intento di soddisfare alle diverse specie di protezionismi piccolo – bottegai, piccolo – industriali ecc. Tutti i rappresentanti delle specie fallite di intrapresa economica, fallite per incapacità ad adattarsi alle nuove condizioni dell’industria e del commercio, cercano protezione nella legge tributaria.

 

 

Ad opera dei deputati rappresentanti della variopinta minutaglia delle imprese, che lasciate alle proprie forze sarebbero destinate a scomparire, si fabbricano imposte speciali contro i grandi magazzini, contro le società per azioni, progressive in ragione degli affari fatti, della percentuale di profitto ottenuta e via dicendo. In Italia a questi estremi non siamo ancora arrivati. Ma stiano sicure le società per azioni!

 

 

Le idee della cosidetta giustizia tributaria fanno strada: dalla democratica Francia e dalla feudale Germania passeranno presto in Italia. Finora da noi le idee «nuove» si sono limitate a informare l’azione dell’amministrazione finanziaria e della magistratura. Si crede forse che l’amministrazione finanziaria oserebbe moltiplicare le vessazioni e le chicanes sulle quote di ammortamento, sulle detrazioni per spese a carico delle società, mentre gli industriali e commercianti privati sono sottratti a queste indagini fastidiose, se, oltre la lettera della legge, non soccorresse l’appoggio di una parte dell’opinione pubblica la quale crede che le società siano sul serio contribuenti più contribuenti dei privati, o, come si esprime la cassazione, preordinate ad una più intensa vita economica e quindi predestinate a pagare imposte più forti dei privati fruenti di ugual reddito!

 

 

Sarebbe stato possibile alla cassazione di colpire i sovraprezzi delle azioni con criteri ben differenti e ben più gravosi di quelli con cui si ritennero tassabili i prezzi di avviamento delle aziende private, se non ci fosse nell’aria la persuasione delle «origini impure del fenomeno del sovraprezzo» (sentenza citata)? Nessuna legge riformatrice si otterrà e le leggi future peggioreranno, ad imitazione di Francia, la situazione presente, se non si diffonda la opposta convinzione: essere le società uno strumento perfezionato di produzione della ricchezza; nessuna legge speciale essere perciò ammissibile a danno o a favore di esse; le società dovere essere poste in condizioni di perfetta parità di concorrenza con i privati. Che se vi sono società le quali guadagnano milioni, mentre il vicino bottegaio stenta la vita, il contrasto non deve servire di fondamento ad urna legislazione tributaria avversa alle «società» e favorevole al «bottegaio» in quanto siano società grosse e bottegai piccoli. Si dovrà invece vedere a favore di chi vanno distribuiti i guadagni delle società milionarie; e poiché tra gli azionisti vi potranno essere i possessori di 1000 azioni e quelli di 1 azione sola, gli azionisti grossi andranno trattati alla maniera in che la legislazione del paese usa trattare i grossi redditieri; mentre i piccoli azionisti dovranno essere trattati alla stessa stregua dei bottegai e dei redditieri minuti.

 

 

Notisi di passaggio che si vedrebbe subito quanto sia esagerato confondere insieme due concetti così diversi come la società di milioni e il milionario; al qual proposito raccomando la lettura di una suggestiva monografia di A. Neymarck Les chemineaux de l’épargné, comunicazione fatta alla société de statistique de Paris, che ho fatto riassumere nella mia Riforma Sociale di ottobre – novembre 1911. Nulla però si otterrà insino a che non si sia cessato di idolatrare il fantoccio – società e non lo si sia ridotto economicamente alla sua vera natura di strumento più perfetto procacciatore di ricchezza e fiscalmente di esattore per conto dei veri contribuenti (soci, obbligazionisti, creditori, impiegati ecc.), da tassarsi a norma dei criterii operanti nella legislazione del tempo e del luogo.

 

 

d)    Ho ancor da parlare del pericolo più grosso che incombe alle società per causa della falsa concezione della loro natura agli effetti fiscali: l’essere cioè considerate dal legislatore e dalla magistratura, sul serio e per tutte le conseguenze che logicamente ne possono derivare, come contribuenti a sé, distinti dalle persone dei contribuenti soci. Il caso del sovraprezzo è un mero incidente trascurabile e, dopotutto, la questione può anche risolversi, da un punto di vista scientifico, se non cassazionista, indipendentemente dalla soluzione che si dia al problema della personalità giuridica. Il Manara però, benemerito altamente per aver posto il dito sulla piaga, ha veduto già che l’aver attribuito al fantoccio la natura di vero contribuente, renderà impossibile resistere alla teoria di coloro che lo vorranno colpire per sé stesso, sul reddito che il fantoccio sarà reputato di avere, astrazione fatta ed in aggiunta alle imposte che i veri contribuenti (azionisti ecc.) capitassero a dover pagare.

 

 

«La conseguenza cui si va direttamente e logicamente quando si concepisce la società come una persona (giuridica) diversa dalle persone (fisiche) dei soci è questa: che l’imposta sui redditi di ricchezza mobile dev’essere pagata dalla persona «società» pei redditi suoi propri, vale a dire per tutto ciò che essa ritrae coll’attività sua oltre il capitale nominale, compresa, ben inteso, la quota che va a riserva e quella tassa d’ingresso che, a giudizio della sentenza, essa fa pagare agli eventuali nuovi soci; e poi dalle persone dei soci anche in quanto soci pei redditi loro proprii come tali, vale a dire per tutto quanto essi ricevono dalla persona «società» sia sotto forma di dividendi annuali, sia sotto forma di attribuzione, alla estinzione della persona «società», di un valore superiore al capitale nominale. E il Procuratore generale, infatti, nelle sue conclusioni davanti le Sezioni unite, non si spaventa affatto di questa conseguenza; anzi non disconosce che sarebbe non solo logica ma anche normale, e solo trova che la legge speciale avrebbe eccezionalmente esonerato le persone dei soci in quanto tali dall’imposta di ricchezza mobile. Ma io non trovo traccia di questa esonerazione, per cui persone, che godono di un reddito, sia pure in una data qualità, non sarebbero soggetti d’imposta pel reddito del quale godono. Non si sa mai! poiché l’appetito vien mangiando, come suol dirsi, forse anche il Fisco troverà in un prossimo avvenire, che non c’è traccia nella legge di questa esonerazione di subietti d’imposta».

 

 

Il Manara ha cento volte ragione. Se non si distrugge il feticcio della società – contribuente per proprio conto, ho gran paura i doppioni d’imposta si abbiano a moltiplicare. Non mancano gli esempi stranieri. In Francia, le società pagano l’imposta sulle patenti per l’esercizio della loro industria e l’imposta del 4 % sui cuponi di azioni ed obbligazioni. I metodi ed i pretesti con cui le due imposte sono messe sono diversi; ma la duplicazione è evidentissima: dapprima tassandosi, con un metodo, la società per tutto il reddito dell’industria; poi tassandosi di nuovo, con un altro metodo, lo stesso reddito quando è distribuito ad azionisti ed obbligazionisti.

 

 

In Prussia da un lato gli azionisti ed obbligazionisti pagano (direttamente, non per rivalsa) l’imposta sull’entrata sui dividendi ed interessi ricevuti dalla società, dall’altra la società, come persona a sé, paga di nuovo la medesima imposta sull’entrata sul medesimo reddito per la parte che supera il saggio del 3 1/2 % sul capitale versato. Si è avuto un po’ di pudore; e la duplicazione è stata compiuta solo a mezzo; ma è stata significantissima.

 

 

Negli Stati federali, Svizzera e Stati Uniti, vi è ogni sorta di sistemi che conducono a doppie tassazioni: talvolta si tassano azionisti e società; tal’altra si tassano le società sempre ed in taluni casi anche gli azionisti; ancora si tassa il patrimonio presso le società, ed il valore delle azioni presso gli azionisti. Può darsi che si esentino gli azionisti quando sono residenti, colpendoli colla duplicazione se

assenteisti.

 

 

In Svizzera vi è una tendenza crescente fomentata dalle teorie piccolo – bottegaie descritte di sopra, a tassare gli azionisti integralmente sul loro reddito; e le società solo per la parte del reddito che supera una data percentuale o che proviene da riserve ecc. L’imposta è doppia e funge inoltre da multa contro quelle società che hanno avuto del successo e che per la loro buona amministrazione seppero accumulare delle riserve. Citerò infine, come esempio delle tendenze legislative più recenti, il metodo tenuto dal progetto francese di imposta sul reddito, quale uscì dalle deliberazioni della Camera dei deputati. Le società commerciali pagherebbero le imposte cedulari (nel progetto il reddito è tassato per cedole, come da noi per categorie) seguenti:

 

 

del 4 % nella prima categoria, per il loro reddito di fabbricati
del 4 % nella seconda categoria, per il loro reddito di terreni
del 3,50 % nella quarta categoria, per il reddito proveniente dall’esercizio del commercio o dell’industria.
del 3 % nella quinta categoria se esercenti industrie agricole.

 

 

Inoltre gli azionisti e gli obbligazionisti dovrebbero nella categoria terza contribuire il 4 % sui dividendi, cuponi d’interessi ed altri redditi delle azioni, obbligazioni, parti di fondatore ecc. pagati dalle società francesi e straniere.

 

 

È evidente che i dividendi e gli interessi tassati al nome degli azionisti sono la stessa cosa dei redditi di categoria prima, seconda, quarta e quinta tassati al nome delle società. Il fatto solo che un reddito già tassato è distribuito dalla società fra gli azionisti e gli obbligazionisti basta pei radico – socialisti francesi a renderlo passibile di una seconda imposta. La quale solo in apparenza sarebbe mite, perché le aliquote sovra indicate comprendono appena l’erariale principale. Aggiungendoci i non pochi decimi e centesimi addizionali dello Stato, delle provincie e dei comuni, si giungerebbe ad altezze non irrilevanti. Si noti ancora che al 4 % di imposta cedolare per cuponi, si dovrebbe aggiungere per tutti i titoli un 2 % sul reddito in surrogazione del diritto di bollo proporzionale, per i titoli al portatore un altro 6 % sul reddito in sostituzione dei diritti annuali di trasmissione, ecc. ecc.

 

 

Ma le duplicazioni a carico delle società non sono finite qui. L’art. 91 conserva una imposta speciale sui grandi magazzini nella misura dell’1 % sulla cifra d’affari compresa fra 500.001 e 1 milione di franchi, del 2 % tra 1 e 5 milioni, del 3 % al di sopra dei 5 milioni. È la solita disposizione di diritto tributario elettorale – bottegaio, che in un sistema di imposta sul reddito non ha nemmeno più la parvenza di quella ragion d’essere che poteva avere in un sistema di imposta sulle patenti. Ma la si conserva perché le società sono reputate non solo dei contribuenti veri e proprii, bensì ancora dei contribuenti specialmente «preordinati» come dice la cassazione romana, a subire le carezze del fisco.

 

 

Né le carezze finiscono qui. Non contento di essersi macchiato dell’errore di duplicazione istituendo la categoria terza in aggiunta alla prima, seconda, quinta e specialmente alla quarta, parve al legislatore che le società fossero ancora troppo bene trattate. È noto come il progetto francese si incardini sulla creazione di tante imposte cedulari quante sono le categorie di reddito (sono le categorie sopra indicate), più sull’aggiunta di una imposta complementare personale sui redditi globali superiori ai 5000 franchi.

 

 

Sarebbe come se in Italia si pagassero, oltre le imposte sui terreni, fabbricati e R. M. anche un’imposta personale sul reddito o di famiglia simile a quelle ripetutamente proposte dagli on. Giolitti e Sonnino. È carattere essenziale di questa imposta complementare personale di colpire gli uomini viventi, le persone fisiche, in una certa proporzione dei loro redditi. Così si decise, non potendosi altrimenti fare rispettando la logica, anche in Francia. Però ai radico – socialisti dispiaceva assai di lasciare esenti da questa imposta le teste di turco delle società. È vero, notava con amarezza il relatore Renault a pag. 247 del primo volume del suo rapporto, che ad esse non si può applicare una imposta destinata a colpire il reddito superfluo, parola che non ha senso per le persone morali. «Una società rappresenta una collettività di cui i membri possono trovarsi nelle situazioni di fortuna le più diverse; il suo reddito, dal punto di vista delle realtà viventi, è l’insieme di un numero più o meno considerevole di redditi individuali. Il tasso di progressione stabilito per i contribuenti di carne e di ossa non potrebbe dunque essere applicato secondo giustizia per le società».

 

 

Dopo le quali savie parole, il Renault, il quale ha fisso in capo che le società siano dei contribuenti predestinati a pagare assai, tira in ballo, precisamente come la nostra cassazione, i privilegi delle grandi concentrazioni di capitali nella lotta economica, la necessità di fare opera democratica e così legittima, con ragionamenti democratici, se non scientifici, un art. 92, col quale le società, a guisa di surrogato all’imposta complementare personale, pagheranno in categoria quarta invece del 3.50 % degli altri contribuenti cedolari, il 4 % se il loro reddito imponibile starà fra 1 e 10 milioni, il 4.50 % se fra 10 e 20 e il 5 % se superiore a 20 milioni.

 

 

Cosicché:

 

 

Per l’imposta cedulare le società pagano sui loro redditi e poi gli azionisti e gli obbligazionisti ancora su questi medesimi redditi distribuiti come dividendi e interessi; per l’imposta complementare, gli azionisti e gli obbligazionisti pagano se i loro dividendi od interessi, uniti con gli altri loro redditi, superano le 5000 lire; e la società paga un surrogato, consistente in un aumento dal 3.50 al 4.5 % dell’imposta cedulare di categoria quarta, quando il reddito suo superi il milione, anche se l’azionista che ne riceve una parte possiede una sola azione e ne ricava il reddito di 20 lire l’anno. Questi sono i fasti della finanza democratica, a cui la dottrina ha avuto il torto di offrire il feticcio della società – contribuente in nome proprio perché ne traesse a sua posta grandissimo sollazzo.

 

 

È vero che i radico – socialisti userebbero dell’arma tributaria per uccidere le private iniziative anche senza bisogno di giustificazioni dottrinali. Ma non è fuor di luogo mettere in luce che le loro male fatte hanno a proprio fondamento soltanto il loro buon piacere; e che la vera teoria della società, dal punto di vista tributario, è quella della società – esattore per conto dello Stato ed a carico dei veri contribuenti. Su che cosa devono le società contribuire? La risposta viene dedotta logicamente dalla soluzione data al quesito precedente. Poiché le società

 

non sono per sé stesse contribuenti, ma devono considerarsi unicamente come uno strumento fiscale di esazione dell’imposta dovuta dai veri contribuenti, è chiaro che il principio regolatore delle imposte da anticiparsi dalle società deve essere il seguente: paghino quelle stesse imposte che, secondo il diritto vigente, avrebbero dovuto essere pagate, con maggior fastidio e frodi e spese, dai contribuenti azionisti, obbligazionisti, amministratori, impiegati, operai, ecc.

 

 

Per qualcuno di costoro non v’è luogo a discussione di principio, ma a particolari questioni di convenienza e di opportunità pratica. Così per gli obbligazionisti ha ragione il Geisser nel sostenere che l’aliquota del 15,60 per cento, senza gli aggi, sia eccessiva e che convenga allo Stato ridurla almeno al 10 % per favorire, nel suo interesse, il moltiplicarsi delle obbligazioni, sempre tassate, a spese dei debiti cambiari od in conto corrente, che sfuggono spessissimo alla tassazione. Per gli impiegati ed operai l’attuale imposta del 9,36 per cento, pure senza gli aggi, è anch’essa sopportata solo perché le evasioni devono essere cospicue. Ma quando, col sistema da me proposto, della obbligatorietà della rivalsa per l’intiera aliquota legale, sotto sanzione della nullità assoluta dei pagamenti fatti, ogni società sarà dal suo interesse condotta a eseguire la rivalsa dell’imposta sullo intiero reddito, non v’è dubbio che le lagnanze dei contribuenti saliranno al cielo; e che il Governo sarà costretto a concedere degli sgravi; e li potrà concedere per la maggiore produttività del tributo.

 

 

Queste sono certo questioni importantissime senza dubbio; vitali per l’avvenire economico del paese; ma, trattandosi di particolari di applicazione, non involgono questioni di principio intorno al punto se si debba pagare. Finché si disputa del quanto pagare, vi è materia a transazioni. Però non si deve transigere laddove si discute se si debba o non pagare. Il problema del se si debba pagare si pone sovratutto per il reddito netto, che altri usa chiamare proprio delle società, e che io dico proprio degli azionisti.

 

 

Su che cosa devono dunque le società pagare per conto degli azionisti? La teoria della società contribuente, s’intende contribuente in nome proprio risponde: sul reddito netto lucrato dalla società durante l’esercizio finanziario, intendendo per reddito netto la differenza fra la massa delle attività sociali esistente alla fine dell’esercizio ed il capitale (costitutivo e di riserva) sopravanzante dallo esercizio anteriore. Cito, per non sbagliare, le parole precise dell’avvocato erariale G. Riccardi. Con questa teoria si possono (non dico che necessariamente si debbono) giustificare tutte le belle imprese immaginate dal fisco italiano. Il sovraprezzo non fa forse parte delle attività sociali esistenti alla fine dell’esercizio?

 

 

E non essendo possibile ficcarlo nel capitale e nelle riserve sopravanzanti dall’esercizio anteriore, è chiaramente parte del maggiore valore acquistato dal patrimonio sociale durante l’anno; ossia è «reddito» nel significato oramai invalso nella giurisprudenza italiana, secondo cui reddito è «qualsiasi utilità o prodotto che rappresenti un aumento del patrimonio di colui che ne fruisce e che tragga origine o dall’attività individuale o dal capitale o dall’una e dall’altro insieme congiunti» (cassazione romana, 27 agosto 1901).

 

 

Così pure sono reddito le somme mandate a riserva, perché crescono il patrimonio sociale; e bisogna che gli agenti delle imposte stiano con gli occhi ben larghi per impedire che gli amministratori con quote di ammortamento eccessive, con valutazioni troppo prudenziali delle scorte, con prezzi troppo bassi dei titoli di portafoglio non creino delle riserve nascoste, sottratte al dovere dell’imposta. Tutto ciò è logico, logicissimo colla teoria della società – contribuente. Spalancata questa porta, entrano in folla gli arnesi da inquisizione e da tortura fiscale e contro le loro eleganze non v’è rimedio.

 

 

Ben diverse vanno le cose, se si parte dalla teoria della società – esattore. Allora logicamente noi dobbiamo considerare come reddito tassabile la somma che l’azionista riceve a titolo di dividendo, premio, rimborso in più del capitale versato e può godere destinandolo ai più diversi fini della vita privata e pubblica. Non accenno a novità; non faccio richiamo a concetti nuovi del reddito che pur mi sono cari e considero preferibili, dal punto di vista tributario, ai concetti correnti.

 

 

Stiamo fondati su questi. Da Hermann in qua gli economisti han considerato reddito quella somma che l’uomo può spendere (non quella che egli di fatto spende) durante un periodo di tempo (esercizio finanziario), senza intaccare il capitale originario esistente alla fine del periodo precedente. Applicando questo concetto che non discuto e che accolgo come quello corrente, al caso dell’azionista, noi diremo che l’azionista può spendere soltanto ciò che egli riceve dalla società a titolo di dividendo, o di rimborso di capitale in più del capitale versato. Ciò che la società accantona come riserva palese, ciò che è messo nascostamente da parte col mezzo di sotto valutazioni o di sovrammortamenti (reali od immaginati dagli agenti), il maggior valore acquisito col tempo dalle attività sociali, i premi incassati col sovraprezzo delle azioni, tutto ciò non è disponibile per l’azionista, salvo che si traduca in un maggior dividendo o in un rimborso superiore al capitale (nominale o non) da lui versato. Può egli forse destinare quei valori a suoi consumi, privati e pubblici? Mai no! la macchina da lui creata per produrre la ricchezza li tiene stretti, perché ancora li deve adoperare per trasformazioni varie economiche. Per lui è come se non esistessero, almeno per quanto ha tratto a possibilità di godimenti.

 

 

Egli, secondo la concezione corrente del reddito, non ha a sua disposizione altro che i dividendi ed i profitti a qualsiasi titolo ripartiti. Su questi soltanto dovrebbe essere tassato, se la imposta lo colpisse direttamente. Su questo soltanto deve essere tassata la società, concepita come deve essere ai fini fiscali, come uno strumento di esazione delle imposte che dovrebbero incidere sugli azionisti.

 

 

L’applicazione di questo concetto comporta poi problemi vari, che furono egregiamente trattati dal Geisser e dal Sabbatini. Importa sovratutto che i doppioni d’imposta cacciati dalla porta, non rientrino per la finestra. Sarebbe un guaio grosso se, per voler colpire soltanto i dividendi e gli altri profitti effettivamente distribuiti agli azionisti, si colpissero una seconda volta quei redditi su cui la società ha già pagato tributo. Come notano il Sabbatini, e il Geisser, dai dividendi dovrebbero dedursi, ad esempio: i redditi di beni stabili che hanno già subito l’applicazione dello speciale tributo fondiario; gli interessi sopra obbligazioni di altre società già colpite nella categoria A2; i cuponi sopra azioni di altre società, quote di utili per accomandite in società o ditte private per cui l’imposta di R. M., categoria B, sia già stata soddisfatta da altro contribuente: gli interessi per titoli di Stato, esenti di imposte o che le imposte sopportarono per via di ritenuta diretta.

 

 

Contro il principio ora enunciato, che il reddito tassabile a carico dell’azionista e quindi della società esattore sia il dividendo o profitto distribuito può farsi una obbiezione, la quale assume due forme:

 

 

1)    una prima maniera di obbiettare sarebbe quella di chi volesse interpretare diversamente la definizione corrente del reddito dell’azionista. Ho detto che reddito è, secondo la concezione corrente, quella somma che l’uomo può spendere durante un periodo di tempo, senza intaccare il capitale originario esistente alla fine del periodo precedente. Onde ne dedussi che, l’azionista potendo spendere soltanto ciò che egli riceve dalla società a titolo di dividendo o rimborso del capitale in più, del capitale versato, soltanto questa medesima somma possa essere tassata al nome della società. Altri può dire che il momento della distribuzione del dividendo non è quello in cui si può giudicare se una data somma diventi disponibile per l’azionista. Idealmente noi possiamo affermare invece che il momento viene prima; e, per fare un esempio numerico, si ha quando, le società avendo guadagnato 150.000 lire, gli azionisti sono convocati in assemblea generale per decidere dell’impiego da dare a quella somma. Teoricamente, in quell’istante gli azionisti hanno la disponibilit… di tutte le 150.000 lire. Volendo, essi potrebbero distribuirsele tutte. Che essi invece ne destinino a dividendi immediati solo 100.000 lire e 50.000 mandino a varie specie di riserve e di ammortamenti, è faccenda privata che interessa soltanto loro.

 

 

Secondo la concezione corrente, lo Stato ha diritto di prelevare la sua quota di tutte le 150.000 lire che erano messe a disposizione degli azionisti e che essi potevano spendere. Non le ritirarono tutte; e parte le destinarono ad incremento della impresa comune. Ma potevano tutte ritirarle e spenderle: questo è il fatto unico che interessa il fisco. Perciò non i dividendi e gli utili distribuiti, ma quelli che si potevano distribuire costituiscono la vera materia tassabile. Senza volerlo siamo scivolati in un dibattito filosofico; Non io adopero la parola filosofico; ma la cassazione romana, la quale in una sua sentenza ha voluto andare in cerca della definizione «filosofica, economica e giuridica» del reddito. Indagare se una data somma gli azionisti potevano distribuirsela a titolo di dividendo mentre in realtà non lo fecero è porre un problema di libero arbitrio. In realtà gli azionisti le 50 mila lire preferirono di non toccarle, in parte perché la legge comandava di mandarle a riserva, in parte perché lo statuto forse aggiungeva altri ordini più stringenti o perché essi erano persuasi che l’azienda non potesse reggere ai rischi possibili futuri, alla concorrenza di altre maggiori imprese se essi si fossero dimostrati troppo ingordi. Io non vado a cercare se a questa rinuncia essi siano stati spinti dalla necessità o dal libero volere.

 

 

Constato solo un fatto: che essi alle 50 mila lire rinunciarono per il momento; e credo che andar oltre alla constatazione di questo fatto sia compiere opera arbitraria, tale da far sorgere infinite questioni, filosofiche in apparenza, irritantissime in realtà. Quando noi diciamo che reddito è quella somma che il contribuente può spendere, noi vogliamo accennare a somme che il contribuente ha effettivamente incassato, non a quelle maggiori che avrebbe potuto incassare se si fosse deciso a compiere un atto che prudenza e previggenza gli dicevano essere dannoso alla impresa sua. Le somme incassate sono vero reddito per lui; quelle lasciate nella cassa comune no. Tutto al più son una promessa di più vistosi realizzi futuri, che, quando saranno di fatto ottenuti, saranno anche tassati.

 

 

Le leggi d’imposta debbono tener conto dei redditi effettivi, non dei redditi potenziali. La stima catastale guarda al reddito che i terreni di fatto danno ai buoni padri di famiglia, che applicano i metodi correnti agricoli, non ai redditi fantastici che si potrebbero ottenere qualora si seguissero i metodi insegnati nei libri dei professori d’agronomia. Nell’imposta di ricchezza mobile il fisco ha dimenticato questo suo ufficio passivo di accertamento di fatti determinati dai contribuenti e da lui non modificabili. Il fisco si mette in capo di dar precetti di buona condotta delle aziende; insegna come si devono tenere i conti, quali siano le giuste regole di ammortamento ecc. ecc. Tutte ciò è stravagante; e dipende dall’aver voluto sostituire il proprio giudizio all’accertamento passivo dei fatti, quali si sono determinati realmente.

 

 

2)    una seconda obbiezione sarebbe quella di chi dimostrasse che l’incasso di dividendi ed altri profitti distribuiti non è il solo realizzo che fa l’azionista. Altri utili può ottenere, talvolta ben più vistosi. Supponiamo che Tizio abbia acquistato un’azione all’atto della sottoscrizione versando le 100 lire uguali al valore nominale. Dopo qualche anno le azioni rendono i 7 1/2 lire di dividendo e, capitalizzate al 5 %, valgono 150 lire. Tizio, vendendo l’azione lucra 50 lire, le quali sono un lucro realizzato della stessa natura delle lire 7 1/2 ripartite ogni anno a titolo di dividendo. Anche queste 50 lire sono dunque un reddito di Tizio, che egli può consumare senza danno per l’entità del capitale originario di 100 lire e che dovrebbero essere tassate presso la società, se è vero che essa sia tassata in qualità di esattore per conto dei suoi azionisti e nella misura dei redditi avuti dai suoi azionisti.

 

 

Non io dirò che, partendo dalla concezione corrente del reddito sia illogica la deduzione che considera reddito le 50 lire lucrate dall’azionista all’atto della vendita dell’azione. Lascio da parte ogni disputa particolare che potrebbe sollevarsi in questo proposito anche partendo dalla predetta concezione (vedi le sottili ed eleganti argomentazioni di Benvenuto Griziotti, in Le imposte sugli incrementi di valore nei capitali e sulle rendite nei redditi. Giornale degli Economisti 1910 – 11); e le ancor più ampie dispute che potrebbero insorgere partendo da altra concezione del reddito. Ammetto per dimostrato che le 50 lire siano un reddito realizzato dall’azionista e che debbano perciò essere colpite da una imposta.

 

 

Ma da quale imposta? A me pare evidente che l’imposta non sia quella di ricchezza mobile. Questa per la indole sua di imposta la quale colpisce i redditi che finiscono da una fonte o sorte principale (industria, professione, capitale ecc.) non è adatta a colpire quegli altri redditi o guadagni o profitti, che dir si i vogliano, i quali consistono in un ingrossamento della sorte principale. Per il mal vezzo di non volere affrontare le questioni di fronte, ma di voler escogitare sottigliezza per far entrare i fatti nuovi negli istituti vecchi, abbiamo finito per deformare l’imposta di ricchezza mobile.

 

 

Siamo giunti così allo sconcio che redditi come quelli di avviamento, che il legislatore non si era sognato mai di colpire con la R. M., furono costretti ad entrare per forza nel letto di Procuste di talune frasi vaghe e imprecise ed all’altro più grave sconcio, che, volendo colpire le 50 lire di cui sopra di aumento nel legge non vi si prestava, si inventarono sofismi per tassare qualcosa di profondamente diverso, ossia i sovraprezzi delle azioni nuove. Si tassino, ove si voglia, i guadagni ottenuti colla vendita delle azioni ad un prezzo superiore a quello d’acquisto. Ma per far ciò è assolutamente necessaria una legge speciale, simile a quella elaborata in Germania e in Inghilterra per la plusvalenza fondiaria.

 

 

Non dico che il congegnare una siffatta imposta sia cosa facilissima; anzi la ritengo impresa quanto mai ardua, contro di cui si possono sollevare parecchie obbiezioni, pure in linea di principio, s’intende partendo da una concezione del reddito diversa dalla corrente. Almeno però si eleverebbe una costruzione logica; mentre l’ostinazione nel servirsi dell’imposta di ricchezza mobile conduce a tassare alcuni casi soltanto di guadagni ottenuti coll’aumento in valore della sorte principale, ed a tassare somme che guadagni non sono, esentando il maggior numero dei lucri realmente ottenuti.

 

 

Concludo. Le società per azioni non debbono fondare le loro richieste di riforma fiscale su motivi di mera convenienza e di necessità di un trattamento speciale a loro riguardo. Solo affrontando le questioni di principio si può persuadere l’opinione pubblica della necessità della riforma.

 

 

Partendo da questo concetto al sono studiati due punti fondamentali:

 

 

1)    perché le società siano contribuenti, concludendosi che esse sono tali non perché abbiano redditi propri ma perché l’evoluzione tecnica ed economica ha condotto alla creazione di tipi speciali di esattori semi – pubblici di tributi a favore dello Stato a carico di parecchie categorie di contribuenti, che lo Stato direttamente non potrebbe raggiungere o raggiungerebbe con eccessivo costo. Dalla descrizione degli inconvenienti derivanti dalla creazione di questa figura speciale di esattore, si è dedotta la necessità di talune riforme, come l’obbligatorietà dell’esercizio effettivo della rivalsa da parte delle società, la riduzione e la perequazione dell’imposta sulla negoziazione dei titoli, la lotta attenta contro ogni sorta di doppioni d’imposta su società ed azionisti.

 

2)    Su che cosa debbano le società contribuire, alla quale domanda fu facile rispondere che dovevano pagare soltanto sui redditi per cui avrebbero dovuto contribuire gli azionisti, se essi fossero stati tassati direttamente. Con la disamina di talune obbiezioni, si chiuse la dimostrazione della correttezza del principio che le società debbono soltanto pagare sui dividendi e altri profitti di qualsiasi genere distribuiti agli azionisti, ad esclusione delle riserve e di ogni altro lucro non ripartito. La dimostrazione fu sempre basata su principii correnti nel diritto tributario vigente o nella dottrina finanziaria universalmente accetta. Avrei potuto aggiungere qualcosa di più ove avessi fatto appello a dottrine nuove, o definizioni più recenti del reddito; e si sarebbe giunti a conclusioni ancor più favorevoli alla tesi finale della tassazione dei soli profitti distribuiti. Non volli deviare invece dal sentiero comune, perché non si potesse affermare trattarsi di elucubrazione solitaria di un teorico in vena di copiare le più recenti dottrine forestiere. Ho cercato invece di ripetere ciò che tutti gli scrittori di finanza accolgono come dottrina classica; traendone unicamente le deduzioni imposte dalla logica.



[1] Sopra il titolo: «50 anni fa. Dalla “Rivista” del 1911». [Ndr.].

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