Definizioni e commenti economici
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/12/1920
Definizioni e commenti economici
«Minerva», 1 dicembre 1920, pp. 793-795
Leggendo l’articolo di F. Coppola D’Anna pubblicato sulla Minerva del 16 ottobre mi ritornò alla mente un proposito che parecchie volte avevo accarezzato e che non attuerò mai: quello di scrivere un piccolo dizionario tascabile del significato delle parole e delle frasi che più comunemente corrono sui giornali, nelle camere legislative, nei comizi e nelle private conversazioni intorno ai problemi politici, economici e sociali del giorno.
È oramai divenuta tale la confusione delle lingue, che non ci si intende più. Il Coppola parla, ad esempio, da quel che posso giudicare dall’articolo della Minerva, un linguaggio che sa di derivazioni marxistiche e socialistico-cattedratiche; altri parla una lingua nazionalistica, molto affine alla precedente, nonostante la diversità della forma; e v’è il linguaggio cattolico, l’economico, ecc., ecc. Il lettore crede di capire; ma siccome legge con il suo vocabolario nella testa, fraintende. Tento di dare un piccolo saggio di quel che dovrebbe essere il vocabolario utile a mettere il lettore non specializzato sulla via di orientarsi nella babele linguistico-sociale del momento; e mi auguro che altri trovi buona l’idea, la perfezioni e ci dia un libro che sarebbe uno strumento prezioso di cultura per le classi politiche italiane. Prendo lo spunto da parole e frasi lette nell’articolo del Coppola, che riproduco sotto forma di definizioni a cui faccio seguire un mio commento.
Liberista. – Sarebbe, secondo l’A., colui che ritiene in ogni caso un male l’azione economica dello Stato; considera un ideale la soppressione dello Stato ed ammette questo, come un male inevitabile, per i soli rapporti politici. Commento. – La definizione sopra riprodotta è quella che del liberista danno i socialisti, i vincolisti sistematici, o protezionisti, traendo argomento da qualche tardo epigono degli economisti classici, di cui l’importanza nella storia della scienza economica è trascurabile. In realtà la figura del «liberista» non esiste nella scienza; e sarebbe certo quasi impossibile trovare oggi in tutto il mondo un genuino rappresentante di questo fantoccio irreale creato per scopo di polemica. Se noi, per ipotesi, identifichiamo il «liberista» con l’economista classico e con i suoi successivi perfezionatori, dovremo dire che «liberista» è colui il quale vuole, in tutti i campi, politici, economici, sociali, educativi, limitare l’azione dello Stato a quei compiti in cui essa soltanto è possibile od in cui lo Stato riesce meglio degli enti locali, delle corporazioni, delle associazioni, della famiglia e dell’individuo. Il «liberista» non è contro lo Stato ed a favore dell’individuo. Desidera unicamente attuare la norma del minimo sforzo per ottenere il massimo risultato, ed a volta a volta ricorre perciò allo Stato, al Comune, alla corporazione o all’individuo, a seconda che, per le variabili contingenze di luogo e di tempio, si speri di attuare meglio quella norma con l’uno o con l’altro strumento.
Libertà economica che tende fatalmente alla sua negazione. – È una frase divenuta molto di moda dal giorno in cui Marx acclimatò la dialettica hegeliana nella sua pseudoscienza economica. Parrebbe che ci sia una forza misteriosa la quale fa diventare un’apparenza la libertà, che fa sboccare la libera concorrenza nel monopolio, che fa aumentare, invece che diminuire, i prezzi in conseguenza della moltiplicazione dei negozianti. Commento. – Non occorre disturbare la dialettica hegeliana o il fato per spiegare fatti singoli, venerandi per la loro antichità. La libera concorrenza non è una forza la quale agisca od abbia mai operato da sola; incontra limiti alla sua azione, altre forze di cui l’osservatore deve tener conto. Una di queste forze è la natura monopolistica di date imprese: ad es. le ferrovie, le tranvie, le imprese di illuminazione, ecc. Per queste imprese vi è un limite fisico – larghezza delle strade di una città – od economico – non convenienza di due linee per un traffico invariato – alla moltiplicazione del loro numero.
Quando le imprese necessariamente sono poche, il monopolio è la conseguenza naturale. Casi simili sono numerosi, ed ogni volta si spiegano con le circostanze particolari della industria. Ma sarebbe azzardatissimo affermare, come fa il Coppola, che esiste qualche ragione per cui la libera concorrenza sia destinata ad essere eliminata quasi compiutamente; od almeno io non conosco dati e pubblicazioni valide a dimostrare fondatamente, e cioè non con affermazioni gratuite, la tesi. Un’altra forza potente, la quale spiega i prezzi alti i quali si riscontrano nonostante la moltiplicazione dei negozi, è la consuetudine. Il fatto è deplorato da secoli, e finché i consumatori non si decidano a fare sforzi, a costituire cooperative – vere e non organi di succhiamento dello Stato, – a contrattare, ad astenersi dal consumare, appare ineliminabile. Finché ognuno vorrà in casa il pane caldo una o due o tre volte al giorno, bisognerà pagare il pane al costo del piccolo fornaio vicino e non a quello della grande industria accentrata, la quale fallirà nonostante i suoi bassi costi, per la mancanza di clientela.
Il fenomeno della moltiplicazione dei negozi si è accentuato durante la guerra, perché la pigrizia e la volontà di spendere di numerose categorie di consumatori sono cresciute. Pare illogico trarre da questi fatti conseguenze di visioni apocalittiche di collasso del sistema di libera concorrenza, se non esistesse la quale, è probabile che i consumatori vedrebbero giorni ben peggiori dei presenti. È logico soltanto cercare di definire esattamente i casi nei quali esiste la tendenza al monopolio, per attuare quei provvedimenti, più o meno efficaci, elaborati all’uopo da una lunga esperienza.
Produzione di beni la quale non si verifica in armonia coi bisogni effettivi del consumatore, sibbene in dipendenza della utilità subbiettiva dell’industriale. – Parrebbe cioè frequente questo fatto interessante: che cioè l’industriale produce non i beni desiderati dai consumatori, ma quelli da lui preferiti nel proprio interesse e diversi dai primi; sicché il consumatore sarebbe «costretto» dallo «squilibrio della produzione» a «limitare la soddisfazione di alcuni suoi bisogni e ad abbondare nella soddisfazione di altri».
Commento. – C’è una scuola di economisti, la quale risale, come sempre in simili casi, a quell’infernale macchinatore di stravaganze che fu il solito Carlo Marx, la quale si diletta di inventare combinazioni complesse, scatole a sorpresa per farne uscire fuori il brillante di una soluzione cosiddetta dialettica.
Questa scuola è scaduta assai nella estimazione delle persone serie; ma di quando in quando è capace di produrre ancora ragionamenti del tipo di quello sovra riassunto. Secondo il quale, gli industriali avrebbero «interesse» a produrre cose «non desiderate» dai consumatori; ed i consumatori si adatterebbero non solo a comprare i beni che essi non desiderano, ma a pagarli anzi più cari di quelli reputati utili, allo scopo filantropico di fare il vantaggio dei produttori. Tutto ciò è tale una fantasia, che, per crederci bisogna davvero vedere con gli occhi propri e toccare con mano.
A me non è mai accaduto di comprare una merce non desiderata, al solo scopo di crescere i profitti altrui; e sarebbe davvero interessante leggere l’elenco delle persone sane di mente che si comportino in tale maniera. Durante la guerra è accaduto a me e a moltissimi di dovermi contentare di burro misto invece che di burro fino; ma in ciò non c’entrano l’interesse dell’industriale e la supina acquiescenza del consumatore. C’entrano i divieti del Governo, i calmieri e tante altre diavolerie che tutti conosciamo.
Sovraproduzione di capitali che tende fatalmente a deprimere il saggio del profitto e contro di cui il capitalista reagisce intensificando lo sfruttamento della mano d’opera e taglieggiando, ove ciò non sia possibile, il consumatore. – Parrebbe, a sentir l’A., che tutta quanta la storia economica del secolo decimonono e qualche altra storia per giunta sia determinata da queste preoccupazioni e da questa reazione costante del capitalista contro la caduta del saggio del profitto. Commento. – Anche a me quest’altra macchina infernale del precipizio del saggio del profitto e della conseguente sua reazione fece grande impressione quando la lessi, a vent’anni, su libri famosi. L’economia politica ridotta per uso degli spettatori dei giuochi da circo equestre. Col tempo, il palato non ci sentì più gusto a questi piatti forti e trovò che si trattava di abracadabra poco simpatici per descrivere fatti notissimi e studiatissimi e degni di nuove indagini, come sono le variazioni nei saggi d’interesse, di profitto e di salario.
Che, quando, fortunatamente, è diffuso lo spirito di risparmio e si produce molto nuovo capitale, il saggio dell’interesse debba discendere, è evidente. Ma che i possessori di risparmio, in un momento in cui essi si trovano nella svantaggiosa posizione di avere molto risparmio da offrire, ossia, per logica e necessaria conseguenza, di dovere fare molta domanda di macchine, di materie prime, di mano d’opera e molta offerta di merci finite, possano, proprio in quel momento, ridurre i salari e crescere i prezzi, è incredibile. Se, talvolta, fatti consimili furono concomitanti, ciò sarà dovuto a qualche altra causa, non indicata e diversa dalla cosidetta «sovraproduzione» di capitali.
Cosiddetta, dico; perché è stranissimo qualificare di sovraproduzione il fatto del risparmio diffuso e della produzione abbondante di nuovo capitale. Ad un saggio d’interesse ribassato, tutto il nuovo capitale troverà impiego; e quando il saggio sarà troppo basso, i risparmiatori limiteranno o cesseranno il loro risparmio, senza che si possa normalmente parlare di capitale disoccupato. Del resto, tutto ciò è un parlare anacronistico, dei libri scritti fra il 1880 e il 1900, quando il saggio d’interesse calava. Oggi, purtroppo, la produzione del risparmio è scarsa ed il saggio dell’interesse tende a salire. I capitalisti non hanno bisogno di fare giuochi di prestigio per «reagire» contro l’annullamento del profitto. Bastano, a spingere il saggio dell’interesse all’insù, gli spropositi dei Governi nell’emettere carta- moneta, nel vendere il pane a sotto-costo, nel perseguitare il capitale e l’industria, e la guerra civile sotto nome di occupazione delle fabbriche e delle terre.
Bisogna scartare a priori ogni idea di organizzazione burocratica; ma occorre però che lo Stato ponga dei limiti, istituisca norme di condotta, disciplini l’attività economica più o meglio di quanto non abbia fatto finora. – Con queste parole, l’A. pare volere combattere l’assunzione diretta di industrie da parte dello Stato, perché pericolosa alla libertà dei cittadini e perché troppo costosa a causa della organizzazione burocratica la quale sarebbe di fatto data all’industria statizzata. Egli vuole che lo Stato rispetti l’industria privata, ma la regoli e la disciplini affinché le tendenze monopolistiche di essa non siano dannose ai consumatori.
Commento. – Come fu già osservato nella definizione del «liberista», questa all’ingrosso è appunto la posizione della scienza economica. All’ingrosso, poiché l’economista non ha neppure alcuna obbiezione di principio all’esercizio diretto di industrie da parte dello Stato. Ad es., nonostante tutto, nonostante il disservizio postale, ben difficilmente le poste potrebbero essere gerite da altri che dallo Stato. Il servizio diretto pare ancora il mezzo meno costoso per raggiungere il massimo dei vantaggi economici, sociali e politici connessi con le poste. Bisogna tentare di avere una burocrazia postale più redditizia; ma par difficile poterne fare a meno.
Forse non è così per i telegrafi e i telefoni; molto probabilmente, e vorrei dire quasi certamente, non è così per le ferrovie. Qui l’industria privata regolata può essere la soluzione migliore. Non bisogna tuttavia illudersi che «regolamento» e «disciplina» non vogliano dire «burocrazia». Le leggi, i regolamenti, i vincoli le discipline non si attuano da sé. Occorrono guardie, invigilatori, ispettori, commissariati, che sorveglino, regolino, disciplinino, puniscano. Si può creare, col pretesto di disciplinare, una burocrazia altrettanto numerosa e fastidiosa e costosa come per «gerire direttamente».
Ciò è accaduto in maniera mai più veduta durante la guerra, e sta accadendo oggi nonostante la pace. Un nugolo di cavallette burocratiche si è abbattuto sull’Italia; e va crescendo ogni giorno di numero e di voracità, ché guai a chi tocca! Epperciò sono perdonabili quei liberisti purissimi, se ce n’è, i quali, pur riconoscendo astrattamente la convenienza dell’intervento dello Stato in questo o quel caso, dicono: principiis obsta, e per una ragione di politica pratica concludono: è meglio che lo Stato si astenga dal fare uno di bene, poiché sicuramente sarà tratto a commettere malanni per dieci. L’economista non arriva a questo estremo, che pur sarebbe ragionevole e dettato da ragioni sensate; ma osserva che bisogna star bene attento ai limiti, nel sorvegliare e nel disciplinare.
Non disciplinare tutto, ma quei pochi casi in cui il pericolo del monopolio o di altro danno pubblico sia nettissimo. Tollerare anche un po’ di male nelle faccende private; poiché se è possibile – sebbene tutt’altro che sicuro – trovare alcuni pochi ispettori valenti ed onesti per sorvegliare bene poche cose, è impossibile non capitare in molti o furfanti o fiacchi o incapaci quando si vuole sorvegliare assai. Ed allora i giornali gridano allo «scandalo» e vogliono che lo Stato indaghi e sorvegli e controlli vieppiù. Ossia, nel tempo stesso che li combattono, i giornali vogliono la moltiplicazione degli scandali. Non ultimo esempio della mancanza di buon senso e della cecità di fronte alla esperienza economica presente – l’ignoranza della esperienza passata è oramai divenuta un venialissimo peccato – di cui danno prova quotidiana gli informatori e formatori della opinione pubblica italiana!