La questione tributaria di Torino
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 16/04/1897
La questione tributaria di Torino
«La Stampa», 16 aprile 1897
Da lungo tempo noi abbiamo chiamata l’attenzione dei nostri amici e dei nostri lettori sulla necessità e urgenza di porgere l’orecchio al movimento socialista moderno; di studiarne le tendenze; sceverare quel che contiene di buono da quello che può essere errore, e secondare o «incanalare» questo movimento nuovo, perché riesca a buon fine e a regolato benefizio delle classi più umili e lavoratrici.
La parola nostra ebbe poco ascolto; quasi fummo accusati di voler fare i socialisti per debolezza o per soverchia condiscendenza alle novità. Vennero le elezioni recenti, e la parola delle urne fu più eloquente dei ragionamenti precedenti. Finalmente molti si accorsero, un po’ tardi, che vi era e vi è una questione sociale da studiare, da migliorare o da risolvere. Piero Giacosa dopo le elezioni ribadì con riassuntiva efficacia quello che noi andavamo predicando da molto tempo. La lettera del Giacosa provocò una bella discussione di un egregio socialista, il signor P.C., di cui molti dovettero riconoscere, se non la perfetta giustezza di argomenti, certo la importanza loro.
Il signor P.C. per spiegare il programma socialista portò ad esempio le condizioni economiche e finanziarie di Torino e del nostro Municipio. Ora messa su questo terreno, la quistione ha trovato un altro commentatore, di cui volontieri pubblichiamo il seguente articolo.
La discussione però, malgrado il titolo dell’articolo, non è ristretta ad un argomento locale municipale. Come il C. dell’altro giorno dall’osservazione delle quistioni di principio scendeva all’applicazione a interessi locali per modo d’esempio, così oggi l’Y. dallo studio di fatti locali e municipali fa risalire l’osservazione ed il pensiero alla necessità di riforme assai più vaste, come quella dei tributi locali, che dovrebbe essere in cima a un programma di governo, il quale voglia bene avviare la irrefutabile e innegabile quistione sociale. Il nostro pubblico si interessa all’argomento, e noi ci compiacciamo di questo risveglio.
Ecco adunque un’altra voce importante:
I lettori della Stampa, a proposito di liberalismo e di socialismo applicati all’azienda comunale, hanno nei giorni addietro udito il suono di due campane, quella del professore Giacosa e quella del socialista P. C. Il Giacosa si è compiaciuto nel campo teorico, il socialista P. C. nel campo pratico: il Giacosa si è preoccupato dei principii generali e del riordinamento del partito liberale; il socialista P. C. ha schizzato un programma di riforma dei tributi comunali.
L’esito delle recenti elezioni politiche è stata la scintilla evocatrice dell’incendio, ma la questione ha un’importanza immensamente superiore a quella di una dottrinaria questione di attualità. Consenta quindi il direttore della Stampa che una terza campana faccia sentire modestamente la sua voce. L’articolo del signor P. C. suggerisce qualche osservazione, e l’imparzialità della Gazzetta invita ad una polemica calma e serena come calma e serena è l’esposizione del signor P. C., nell’interesse della nostra Torino più che nell’interesse di un partito, liberale, conservatore o socialista che sia.
Il signor P. C. fa in sostanza consistere buona parte della forza del partito socialista nella sproporzione con cui sono ripartite le imposte fra le varie classi di cittadini, e correda la sua asserzione con due tabelle statistiche comparative fra ciò che pagano una famiglia A. di operai viventi di elemosina, una famiglia B. coll’entrata di L. 2.600 ed una famiglia C. coll’entrata di L. 19.000. Non discuto le tabelle perché mi mancano gli elementi per una proficua discussione: non mi basta sapere, ad esempio, che una famiglia di mendicanti paga in proporzione di 6,7 per mille di tassa sui fabbricati, se non so quando e come paghi e di quanti membri si componga la famiglia in rapporto alle altre famiglie.
Lascio quindi impregiudicata la questione, tanto più che con o senza tabelle, esagerate o non, in parte ha ragione il signor P. C. Il sistema tributario attuale è difettoso e, senza indagare se e quali siano imputabili alla volontà degli uomini od alle circostanze ineluttabili della società, con logica ed abile tattica di partito d’opposizione i socialisti si valgono di questi difetti per crearsi una vantaggiosa piattaforma elettorale.
Ma il rimedio vero ed efficace non sta nelle mani del Comune di Torino né di nessun altro Comune. Finché il Governo non si deciderà ad affrontare il problema dei tributi locali mediante provvedimenti legislativi, anziché con semplici promesse, i singoli Comuni dovranno campare di ritocchi e di rattoppature senza poter curare il male alle radici. Quel Comune che abolisse il dazio consumo sarebbe la prima vittima della propria iniziativa, e si vedrebbe subito aggravato il canone governativo. E di ciò sono persuasi gli stessi socialisti. Infatti il signor P. C. propone una riduzione, non l’abolizione del dazio consumo.
Il programma abbozzato dal signor P. C. nella parte passiva importa la costruzione di tutte le opere pubbliche già deliberate, la costituzione di un fondo per un nuovo acquedotto municipale, l’istituzione della refezione scolastica, il sussidio della Camera del lavoro e l’abolizione del dazio sulle farine.
Per agevolare la discussione, anche qui suppongo in ipotesi risolte le questioni della refezione scolastica e dell’acquedotto municipale nel senso propugnato dal signor P. C. e dai suoi compagni di fede socialista. Ma è proprio convinto il sig. P. C. che l’attuazione di un tale programma importi appena un deficit di lire 1,400,000 annue? La sola abolizione del dazio sulle farine significa un minor introito annuo di L. 663,448, pigliando a punto di partenza la gestione daziaria del 1895, di cui si conoscono i risultati complessivi.
Restano L. 700,000 circa colle quali provvedere a tutte le opere votate per L. 14,000,000 circa – non adduco cifre avventate, le desumo da documenti ufficiali, – a quelle che si voteranno, alla refezione scolastica per centinaia di migliaia di lire, ed allo stanziamento per l’acquedotto municipale (cinquecentomila lire al minimo all’anno se non si vuole rinviarne la costruzione alle calende greche). Tirate le somme, credo di non andar lungi dal vero concretando il deficit dai due milioni e mezzo ai tre milioni annui per un periodo di almeno una ventina d’anni, bene intesto sulle basi del programma succitato.
Vediamo i mezzi escogitati dal signor P. C. per farvi fronte.
Il signor P. C. premette che si deve provvedere alle esigenze del bilancio colle entrate del bilancio stesso e non col sistema dei prestiti. è la teoria sempre propugnata da questa Gazzetta, salvo a provvedere con mezzi straordinari a spese straordinarie. Su del che nessuna contestazione. Socialisti e non socialisti, siamo d’accordo.
Per aumentare le entrate, il signor P. C. propone in primo luogo una tassa progressiva sul valore locativo con esenzione dei redditi minimi. In teoria la tassa è equa e ragionevole; viceversa la attuazione ne sarà difficilissima ed il reddito inferiore alle previsioni. A Milano, sulla base dell’esenzione delle pigioni inferiori alle lire 200 annue e colla tassa minima del 2% sulle pigioni dalle lire 200 alle lire 300 e massima del 10 % sulle pigioni superiori alle lire 10,000, si calcolò su un gettito annuo di lire 1,088,000.
Sulle stesse basi, e tenendo calcolo della minor popolazione e della minor gravezza delle pigioni, la tassa locativa renderebbe in Torino 700,000 lire circa, e coprirebbe forse la deficienza prodotta dall’abolizione del dazio sulle farine.
In secondo luogo il signor P. C. propone l’aumento dei centesimi addizionali sui terreni e sui fabbricati.
Se le condizioni edilizie torinesi siano tali da consentire l’aumento della sovraimposta insieme colla tassa sul valore locativo, lascio immaginare a chiunque si renda conto che gli stabili nella cerchia di dieci anni subirono da noi una svalutazione non inferiore al terzo, e che la mitezza dei centesimi addizionali torinesi è più apparente che reale. Se a Torino si paga relativamente poco come sovraimposta, viceversa si paga enormemente come imposta principale. Ma c’è un’altra considerazione. Se la tassa sul valore locativo contribuirebbe ad aumentare l’aliquota fabbricati a carico della categoria B, cioè del medio ceto, delle tabelle del signor P. C., – l’aumento della sovraimposta contribuirebbe ad aumentare anche l’aliquota della categoria A nella supposizione del signor P. C. che una famiglia di quasi mendicanti paghi una pigione. Poiché è ovvio che l’aggravamento della sovraimposta si riduce in sostanza ad un aggravamento delle pigioni: dunque, mezzo per rimpinzare il bilancio comunale si, per perequare le imposte e sopprimere le disuguaglianze, no e poi no.
In terzo luogo il signor P. C. propone l’aumento del dazio per alcuni generi di lusso. Al riguardo il Goldmann aveva presentato, salvo errore, nel novembre scorso un progettino di ritocchi, di rincrudimenti e di nuove voci, da cui presumeva un maggior reddito annuo di L. 300,000, tartufi compresi.
Senonché il Goldmann non si era preoccupato abbastanza, a mio parere, di ciò, che aumento di dazio ed aumento di introito non sono correlativi in tema di voci di lusso, e di ciò ancora, che, oltre ad un certo limite, l’aggravamento delle voci di lusso o produce una minor introduzione di mercanzia o stimola e favorisce il contrabbando. Un sintomo poco rassicurante ci è fornito dalla gestione daziaria del 1895. In tale anno il dazio per il vino fruttò L. 35,500 93 meno che nell’anno precedente, e la diminuzione è tutta sui cosidetti vini di lusso, giacché la diminuzione di L. 12,882 per il vino in fusti è compensata dall’aumento di L. 15,984 67 per l’uva fresca, mentre invece il vino in bottiglie diede 21,187 lire in meno.
Tuttavia sono anch’io d’avviso che con prudenti ritocchi su alcune voci e coll’introduzione di qualche altra, si potrebbe ricavare, se non trecentomila, un centinaio di mille lire in più.
In quarto luogo il signor P. C. propone un rincrudimento della tassa sulle vetture e sui domestici. Aggravandone l’importo, tassando i cavalli da sella si soddisferà magari ad un bisogno di giustizia assoluta, ma non si può nutrire l’illusione di rinforzare sul serio il bilancio. Le vetture cosidette padronali sono ridotte ai minimi termini, ed anche qui le statistiche del dazio segnano per il 1895 un minor introito di L. 10,315 per fieno e biada: – altro sintomo poco promettente.
E siamo all’ultimo spediente: l’abolizione delle spese di lusso. Stabiliamo le cose nei loro veri termini. Suppongo che non si vogliano abolire né i viali né i giardini né le migliorie nella viabilità. Restano quindi, che io mi sappia, l’Istituto musicale (Liceo, Scuola popolare di strumenti a fiato, Orchestra e Banda) per L. 130,000, il teatro Regio per L. 31,250, il sussidio alle corse ed al Rowing per L. 6500. Totale L. 170,000 in cifra tonda. La tassa sui domestici, sulle vetture e sui cani rende L. 150,000 circa. Il che significa che le spese di lusso sarebbero quasi per intero coperte – e si potrebbero e dovrebbero coprire del tutto – con tasse di lusso.
In simile materia di spese facoltative importa vedere se il carico che ne viene al Municipio sia compensato dall’utile morale e materiale che ne ritrae la città. Posta la questione in questi termini, a me sembra difficile sostenere che le L. 6500 per tre giornate di corse e per due di regate siano proprio sprecate: basta por mente alla vita ed all’animazione della città in quei giorni. Ed a me sembra pure altrettanto difficile sostenere che le 100,000 lire per il Liceo, per la Scuola popolare, per l’Orchestra, per la Banda e per il teatro Regio non fruttino indirettamente alla città.
Provatevi a compilare una statistica delle famiglie e delle industrie che vi campano sopra, e provatevi ad immaginare Torino senza Banda, senza Orchestra, senza teatro, senza più nessuna estrinsecazione d’arte.
Gli operai, i commercianti e gli industriali ne soffrirebbero gravemente, e con loro ne soffrirebbero le finanze municipali. Poiché, voler colpire tutti i generi di lusso, aggravare i ricchi da una parte per trarne un maggior provento, – e dall’altra assimilare Torino ad una città di quarto ordine ed allontanarne i ricchi, o io sbaglio grossolanamente od è una singolare contraddizione. Infatti, il Municipio di Parigi, socialista, spende 250,000 lire all’anno per le corse e medita di sovvenzionare con un milione all’anno un teatro lirico. E se il Municipio di Marsiglia ha abolita la dote al teatro, quello di Lilla, pure socialista, l’ha aumentata.
Certo non mi farò a sostenere che il Municipio debba esagerare nelle spese di lusso, ma, schiettamente, lire 170,000 su un bilancio di circa diciotto milioni non sono un’esagerazione. Ripeto, colpite pure il ricco, addossategli tutte le spese di lusso, ma non soffermatevi alle frasi fatte ed alle apparenze, e badate a non imitare l’esempio di quella tal donnicciuola che si illudeva di raddoppiare il reddito della gallina dimezzandole il becchime. E la gallina non le fece più le uova. Non sono socialista, ma non mi spavento del socialismo e trovo che il buono va raccolto dovunque lo si trovi.
Ora in talune idee del signor P. C. convengo completamente; altre mi sembrano meno pratiche, per lo meno più discutibili; altre addirittura empiriche e pericolose.
Qualora si applicasse nella sua interezza il programma del signor P. C. si sopprimerebbero alcune ingiustizie, salvo a crearne delle altre, si diminuirebbe il gettito del dazio e forse della tassa sulle vetture e sui domestici senza diminuire sensibilmente il prezzo del pane (l’esperienza è la gran maestra in proposito), e si farebbero sempre più strillare i contribuenti colla tassa sul valor locativo.
Siamo un popolo di consuetudinari ed in fondo preferiamo acquistare con un tassa indiretta più o meno giusta, da pagarsi alla spicciolata e larvatamente e non a rate regolari, il diritto di lagnarci del Comune e del Governo piuttosto che acconciarci al disagio di mutar strada radicalmente. Nella miglior ipotesi, resterebbe sempre da colmare da differenza fra il milione e mezzo presunto di deficit ed i due milioni e mezzo di deficit effettivo. A ciò soccorrerebbe probabilmente la socializzazione dei pubblici servizi, ma la questione sollevata dal signor P. C. è già abbastanza grossa e non è punto il caso di ingrossarla con un’altra più grossa ancora. Né io sento la velleità di contrapporre programma a programma. Alle critiche ed al sistema del signor P. C. ho voluto solo contrapporre osservazioni dal lato pratico e non teorico.
Per conchiudere, al pari del signor P. C., io sono convinto che una riforma dei pubblici tributi sia necessaria, ma per riuscire efficace essa deve partire dal Governo; l’azienda comunale fatalmente dipende dall’azienda governativa.
Procuriamo di promuovere e di affrettare la riforma, non per far argine al socialismo, ma per un sentimento di giustizia. Ma prima gli italiani hanno da persuadersi di due cose. L’una, della necessità di conformare gli atti alle parole, la vita pratica alla teoria, scambio di predicare in un modo ed agire diversamente. L’altra, che basterebbero in tutti un po’ più di lealtà e di coscienza per ridurre del cinquanta per cento, a dir poco, le imposte.
Ma fino a che frodare il Comune od il Governo è virtù non colpa, torna inutile invocare la sostituzione della imposta diretta alle indirette; più diretta sarà l’imposta e più iniqua ne sarà l’applicazione. La tassa di ricchezza mobile informi. Il giorno in cui gli italiani saranno persuasi di ciò, forse io diventerò socialista: ma temo assai di non veder spuntare l’alba di quel giorno.