Nel paese dell’usura
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 03/01/1898
Nel paese dell’usura
«La Stampa», 3 gennaio 1898
Nella vita contemporanea vi sono periodi ritmicamente ricorrenti, nei quali i giornali, i partiti politici ed una gran parte della gente che pensa e che scrive si occupano di agricoltura e di agricoltori.
Nelle quindicine che precedono le grandi battaglie elettorali sorgono a folla i candidati agrari, ed all’attonito pubblico di contadini accorrenti a sentire i fioriti discorsi del signore che il destino ha scelto a loro futuro rappresentante si sciorinano i programmi di risorgimento della patria agricoltura, di protezione del lavoro nazionale dalle ondate terribili della concorrenza estera, di nobiltà della professione campagnuola, ecc. Quando i prezzi del grano, del vino, degli agrumi e del bestiame volgono a precipitosa discesa grande è il clamore dei protezionisti, che dall’illuminato Governo invocano alte barriere contro lo straniero; fra le fazioni personali della Camera si costituisce per breve ora il famoso, il grande partito agrario, salvo a dissolversi appena raggiunta la meta gloriosa e fatti salire progressivamente i dazi sul grano da 0.50, a 3, a 5 e finalmente a 7.50 al quintale.
Quando poi la vicenda fatale dei cicli economici ha di nuovo spinto all’insù i prezzi dei cereali e del pane, frementi si agitano le turbe democratiche ed in grandiosi Comizi votano vibrati ordini del giorno contro gli affamatori del popolo, contro i latifondisti agricoltori che riescono, mercé un’accorta protezione, a scaricare il grave pondo dei tributi sulla plebe che suda e che lavora.
Tutti costoro che parlano di agricoltura sofferente, di equa protezione, di latifondismo e di prezzi disastrosi ignorano in gran parte le condizioni dell’Italia agricola.
La terra d’Italia in massima parte è coltivata da piccoli e medii proprietari ed agricoltori. Nelle montagne si trovano ancora adesso i residui della proprietà comune pei pascoli e pei boschi, mentre il fondo delle vallate ed il terreno coltivabile è frazionato in una innumerevole quantità di piccole particelle appartenenti ad altrettanti contadini del luogo.
Nelle colline la piccola e media proprietà coltivatrice si distende dominatrice assoluta e pazientemente disgrega i residui della proprietà nobiliare ed ecclesiastica. Si può dire che in Italia i grandi proprietari si limitano alla pianura del Po, ad alcune parti della Toscana, all’interno della Sicilia ed a talune regioni del Mezzogiorno. Solo questa piccola minoranza di latifondisti è interessata al mantenimento del dazio sui cereali; i piccoli e medii proprietari vi sono del tutto indifferenti. Che cosa importa, infatti, ai modesti coltivatori se il prezzo del grano è alto o basso? essi ne producono tanto quanto bisogna alla propria alimentazione, e, se gli anni volgono poco propizi, sono perfino obbligati a comprarlo e sono ben lieti se il prezzo è mite ed accessibile alle loro ristrette forze finanziarie.
Non è agevole comprendere la cagione nascosta per la quale la massa degli agricoltori italiani si sia lasciata suggestionare a richiedere un dazio che le torna inutile, quando non è pernicioso. Ed è pernicioso sovratutto perché scema la potenza di consumo degli operai delle città, a cui il rincaro del pane proibisce di rivolgere una più notevole parte dei salari e domande di vino, frutta, carne, generi tutti di produzione esclusiva dei piccoli coltivatori.
Gli scarsi rappresentanti della grande possidenza hanno saputo in Italia dare prova di una astuzia veramente straordinaria, accomunando dinanzi al pubblico ignaro ed a Parlamenti composti di curiali e di dilettanti, i proprii interessi con quelli dei piccoli agricoltori e separando la causa degli operai delle città da quella degli operai delle campagne. Lo strano si è non già che il Parlamento sia caduto nell’inganno, poiché a cadervi poteva essere interessato, ma che il divario fondamentale di interessi non sia stato avvertito dal medio ceto e dalle classi operaie cittadine, direttamente colpite dal dazio.
Il partito, dunque, il quale francamente ed onestamente invocasse l’abolizione del dazio sui cereali, sarebbe sicuro di ottenere la cooperazione ed il consenso delle masse cittadine e nel tempo stesso delle popolazioni agricole.
Per quanto benefica, a lungo andare, per la sua efficacia ravvivatrice degli scambi fra città e campagne, una riforma tributaria, la quale si imperniasse unicamente sull’abolizione del dazio, rischierebbe tuttavia di non essere subito compresa dai piccoli e medii proprietari e di parer indifferente a tutti coloro i quali non comprano né vendono grano; e sono forse più della metà dei consumatori italiani.
Ad altri mezzi è d’uopo ricorrere per far comprendere alle popolazioni campagnuole che lo Stato, questo ente lontano ed impersonato nell’agente delle imposte e nell’esattore, non è solo una macchina per estorcere l’annuo tributo del servizio militare e dell’imposta fondiaria. Solo una chiara intelligenza dei mali loro può indicare i rimedi più adatti a lenirne le dolorose conseguenze.
Le persone pratiche delle campagne, a tipo di piccola e media proprietà, si saranno avvedute certamente che ivi impera una costituzione sociale curiosa e interessante.
Al basso della scala sociale i contadini proprietari e mezzadri aspettano dalla clemenza del Cielo la rimunerazione delle loro fatiche, più o meno intraprendenti e fortunati a seconda delle loro qualità individuali e dei prezzi delle derrate che essi vendono sul mercato vicino, uva, vino, castagne, buoi, frutta, ortaggi, ecc.
È ignota la estrema povertà, insolito il proletario senza tetto né campo; e solo alcuni contadini dalle coste larghe, ed i cosidetti signori, proprietarii che conducono le terre a mezzadria od a boaria, impiegati e professionisti delle città, rompono la uniformità livellatrice delle campagne.
Nulla dunque parrebbe frapporsi fra il contadino proprietario ed il prodotto integrale della terra, fra il mezzadro e la tradizionale metà del ricavo del fondo.
L’idillico quadro è turbato però da alcune macchie nascoste, che si rivelano solo all’occhio dell’attento osservatore. In tutti i villaggi il mediatore ingordo, il rivenditore di panni e di merci di uso corrente, i trafficanti di bestiame, gli osti, i prestatori di denaro ad usura costituiscono una classe potente, riverita e temuta. Le cause sono molte e complesse.
Lo Stato, le Provincie ed i Comuni, intensificando la richiesta di tributi, hanno costretto le economie patriarcali a vendere una parte dei prodotti agricoli per soddisfare alle bimestrali scadenze. Il lavoro prodigato alle culture, i cui prodotti erano destinati al mercato, ridondò a danno di altre culture e di altre derrate, e rese necessario alla sua volta per esse ricorrere alla compra in contanti dai commercianti del concentrico.
È così che ora le donne hanno cessato di produrre le stoffe o le tele di uso domestico ed usano comprarle quali provengono dalle fabbriche. I progressi agricoli, la cui influenza lentamente ma costantemente si allarga fra i piccoli agricoltori, li indusse a comprare macchine più costose, concimi nuovi, sementi selezionate, ecc. Le comunicazioni stradali e ferroviarie, mettendoli a contatto coi grandi centri, ha fatto sorgere nuovi bisogni ed ha acuito il desiderio di maggiore benessere materiale anche negli agricoltori; ed a tale risultato non è rimasta estranea la estensione generale del servizio militare obbligatorio. Nel periodo prospero della storia economica dell’Italia risorta, che corse dal 1870 al 1887, ai piccoli agricoltori fu possibile soddisfare tutti questi nuovi bisogni; allora il vino si vendeva a buoni prezzi; il bestiame aveva trovato la via dell’estero; né era sorta la concorrenza della California e della Florida contro gli agrumi meridionali.
Ubriacati dai facili guadagni, i contadini si lasciarono montare la testa; ed assistemmo allora ad una vera caccia alla terra che ne fece ascendere i prezzi ad altezze inopinate. Fu quello l’inizio della rovina. I bottegai, gli usurai, che pullulano nei villaggi rurali, aprirono largo credito ai piccoli proprietari, sia per scopi di consumo, sia, e più ancora, per indurli alla compra di terreni.
Chi aveva mille lire, era sicuro di avere in prestito 9000 lire per comprare l’agognato podere. Venne la crisi, i mercati si risserrarono, i prezzi scesero a precipizio; ed i piccoli agricoltori, che avevano sperimentato solo i lati belli dell’economia del denaro, impararono a loro spese quanto effimeri siano i suoi trionfi e come più tranquilla e lieta fosse la loro condizione quando nulla vendevano, ma nulla compravano. Il ritorno all’antico è però impossibile; le economie patriarcali sono morte per sempre dinanzi alle accelerate comunicazioni, all’avvento della grande industria ed alla concorrenza internazionale.
Bisogna invece liquidare la crisi; diminuire il costo di produzione in corrispondenza ai scemati prezzi, lottare colla abbondanza e colla bontà del prodotto contro le avverse condizioni del mercato.
Ma come si può giungere a tale risultato da un ceto di agricoltori oppressi dai debiti, tormentati da bisogni nuovi o dal ricordo dei tempi prosperi passati?
In qual modo persuadere i piccoli proprietari di impiegare nuovi capitali sui loro terreni, quando il fisco reclama una ingente e crescente parte del prodotto del loro lavoro, quando solo in apparenza essi sono padroni del suolo che coltivano, il cui vero proprietario è l’usuraio del villaggio, il commerciante, il rivenditore della città, e quando essi a malincuore smuovono le zolle del fondo anticamente da loro posseduto ed ora col diffusissimo e vergognoso patto di riscatto venduto al creditore ipotecario senza quasi più speranza di riacquisto? Che importa promettere all’agricoltore abbondanti prodotti mercé l’uso di novelli sistemi agricoli, quando egli il dì della vendemmia o del raccolto deve per venderlo, abbandonarne una opima quota al mediatore che in nulla ha cooperato alla produzione?
A questi mali dei paesi, tipicamente caratterizzati dall’indissolubile amplesso della piccola proprietà e della usura, è possibile porre rimedio?