Il pane municipale di Catania
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 05/02/1905
Il pane municipale di Catania
«Corriere della Sera», 5 febbraio 1905
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 194-198
Son note l’aspettazione e le polemiche suscitate dal tentativo di municipalizzazione del pane fatto a Catania per iniziativa dell’on. De Felice. Il «Corriere della sera» se ne occupò ripetutamente, inviando il Barzini a fare una inchiesta sul luogo e pubblicando lettere del Buffoli. Ora il De Felice ha comunicato ai giornali, alle riviste ed agli studiosi italiani le bozze di una inchiesta eseguita, per incarico del comm. Bedendo, prefetto di Catania, dal cav. Edoardo Anceschi, consigliere delegato, e dal dott. Giuseppe Poidomani, ragioniere della prefettura di Catania. L’on. De Felice, deputato e pro sindaco, presentando ai consiglieri municipali catanesi ed al pubblico di Catania, i risultati dell’inchiesta vi appone molte sue osservazioni a discolpa, affinché la luce più ampia sia fatta sulla grave questione.
In verità noi diremmo cosa non esatta, affermando che l’inchiesta ci sia sembrata esauriente e tale da affidare in tutto gli imparziali. Innanzitutto essa non è stata compiuta in contradditorio degli avversari del partito politico defeliciano, i quali si ritirarono dalla commissione, per motivi che, a tanta distanza, non vediamo ben chiari. I due commissari, egregie e stimabili persone senza dubbio, sono amendue dipendenti dal prefetto Bedendo, il quale deve essere amico assai devoto all’on. De Felice, se si deve giudicare dalle lodi di modernità e di larghezza di vedute che questi ad ogni tratto gli tributa. I due commissari perciò – e forse è la loro sola colpa non hanno saputo sottrarsi alla tentazione di premettere alla loro inchiesta una inutile storia ad usum delphini delle origini della municipalizzazione del pane a Catania mal celando la loro avversione alla «ingorda classe dei padroni fornai» e le loro simpatie verso il «grande avvenimento» del forno municipale, trionfante traverso a mille difficoltà, rancori, accuse, pregiudizi, grazie alla «influenza personale dell’on. pro-sindaco e della sua straordinaria popolarità nelle classi operaie che hanno per lui una devozione senza confini». Avversioni e simpatie che li fanno passar sopra ai mezzi riprovevoli adoperati dal pro-sindaco per vincere la concorrenza dei padroni fornai e per istituire così una municipalizzazione sorretta dal monopolio assoluto della vendita e priva dello stimolo benefico e del paragone continuo della concorrenza privata.
Comunque sia di questa mancanza delle qualità imparziali dello storico che si può rimproverare ai due inquirenti, bisogna riconoscere che essi si sono adoperati con molta diligenza a sbrogliare la matassa intricatissima dei conti dell’azienda municipale. Quello relativo alla contabilità è uno degli appunti più gravi mossi alla municipalizzazione di Catania. Sembra che una contabilità vera e propria mancasse del tutto dal 17 ottobre 1902 al 4 aprile 1903; ed anche dopo, nel periodo dal 5 aprile 1903 al 9 luglio 1904, se qualche libro fu impiantato dal nuovo direttore del panificio, l’impianto fu insufficiente e tale da non permettere un controllo completo ed efficace. A questo vizio fondamentale sono dovute altre magagne dell’azienda, come la scomparsa di 3.020 sacchi su 140.000, di 15.407 mazzine di legna su 1.688.448, di 540,5 salme di scorza su 1.857, di 77.002 kg di pane su una produzione di 16 milioni 819.542 kg di pane, la appropriazione indebita continuata di 323 lire da parte di una guardia daziaria. Sembra che le mancanze di materie prime e di pane riscontrate dall’inchiesta non siano state dovute ad atti disonesti se non in minima parte e si riducono a deficienti metodi di registrazione del consumo di materie prime, del pane gratuito concesso agli operai, alla infelice ubicazione dei magazzini che impediva un controllo severo, al disordine dei primi tempi di organizzazione di una impresa grandiosa. Non sarebbe equo trarre argomento da questi inconvenienti per condannare la municipalizzazione del pane, tanto più che l’on. De Felice dichiara di aver dato incarico ad uno dei commissari inquirenti di modificare l’impianto della contabilità del panificio ed espone tutta una serie di controlli ora messi in azione per togliere in futuro la possibilità di ammanchi e di errori.
Si comprende come data l’imperfezione dei metodi scritturali in uso nel panificio catanese, i commissari durassero gran fatica a chiarire i risultati finanziari dell’azienda; e fu soltanto dopo molto fare e disfare conteggi complicati che essi poterono riuscire ad accertare i fatti principali e più interessanti. La tirannia dello spazio ci costringe ad essere brevissimi ed a trascurare molti dati che pure lumeggerebbero assai bene la situazione economica del panificio.
Nel primo periodo (17 ottobre 1902 – 4 aprile 1903), di organizzazione tumultuaria dell’azienda per opera di due commissioni di cittadini volonterosi, i conti si chiudono con una spesa di 1.248.195 lire e con un’entrata di 1.220.542 lire. il deficit è di 27.653 lire. Nel secondo periodo (5 aprile 1903 – 9 luglio 1904) funziona una direzione tecnica ed esiste un impianto contabile. Ciononostante il passivo è di lire 5.248.751 e l’attivo di lire 5.163.157 con un disavanzo di lire 85.594. Occorre notare però che fra le spese la commissione di inchiesta annoverò alcune che più che spese d’esercizio sono spese d’impianto, sicché, sottilizzando, il disavanzo del secondo periodo potrebbe ridursi a 15.812 lire.
Quali le cause del risultato così lontano dal primitivo miraggio di lautissimi profitti che il panificio doveva dare al comune, sì da permettere di trasformare il sistema tributario di Catania nel senso di larghi alleviamenti di tributi alle classi meno abbienti? La causa è dovuta sovratutto alle circostanze nelle quali nacque e si formò l’azienda municipale. Se si pensa che il costo totale del pane per quintale risultò nel secondo periodo di lire 31,20 e che di queste solo 24,06 rappresentano il costo delle farine, mentre la spesa media della produzione e della vendita di un quintale di pane è stata di ben lire 7,13, si rimane senz’altro convinti che a Catania si è speso troppo per gli operai e per i rivenditori. Costoro hanno assorbito lire 5,89 per quintale di pane; spesa eccessiva che i commissari ritengono potersi agevolmente ridurre a lire 4,40, con un risparmio per il panificio di 255.000 lire circa, risparmio che avrebbe convertito la perdita in un magnifico profitto. Qui è il punto debole del panificio catanese: di avere troppi operai, che non si possono licenziare perché sono essi che il De Felice volle sovratutto beneficare colla municipalizzazione; e di pagare troppo cari i rivenditori, i quali sono gli antichi padroni di forni, che il municipio indennizza in tal modo della violenta espropriazione fatta loro subire. Né il problema degli operai e dei rivenditori deve essere facile a risolvere, dovendosi necessariamente in un periodo di transizione rispettare in parte gli interessi acquisiti e non potendosi d’un tratto buttare sul lastrico molti operai, a rischio di far nascere tumulti. L’on. De Felice assicura che a grado a grado il problema sarà risoluto e già sin d’ora la spesa per la maestranza è stata ridotta; ma è facile immaginare che un’amministrazione popolare troverà qui un osso duro da rodere.
Non bisogna del resto dimenticare che, se il panificio ha chiuso i suoi conti in perdita, ha però venduto il pane ad un prezzo costantemente basso, più basso dei prezzi usati prima a Catania e di quelli vigenti ora in altre città d’Italia. Il pane di seconda qualità, ed il più usato, si vendette nel 1903 dal forno municipale da 5 a 10 centesimi di meno che nel periodo 1898-1902 quando esisteva il regime dei forni privati.
Adesso il pane di terza qualità costa 20 centesimi, mentre dal 1897 al 1901 costò da 30 a 34 centesimi, il pane di seconda qualità costa 30 centesimi invece di 36-41; quello di prima qualità 34 centesimi invece di 45-51 centesimi. Mentre ora a Catania il pane detto di prima qualità (tutto semola Taganrog e maiorche di prima qualità) costa a Catania 34 centesimi, nelle altre città italiane, secondo le tariffe comunicate dai sindaci al De Felice, i prezzi variano da 35 a 50 centesimi, con prevalenza dei prezzi sui 40-45 centesimi; mentre il prezzo del pane di seconda qualità (due terzi semola Taganrog, prima qualità, con un terzo di fiore di prima qualità) è a Catania di 30 centesimi, varia nelle altre città da 30 a 42 centesimi, con prevalenza dei prezzi intorno ai 35-37 centesimi.
Sono risultati davvero soddisfacenti, di cui l’on. De Felice ha ragione di andare orgoglioso; come pure può allietarsi dei più alti salari pagati ai suoi operai e delle migliorate condizioni igieniche dei locali di lavoro. Non altrettanto lieto egli deve essere delle risultanze dell’inchiesta rispetto alle qualità igieniche del pane municipale. È questa una delle pagine meno chiare della relazione dei due commissari. Vi si parla di molti campioni di pane avariato, scadente, acido, mal lievitato, appena tollerabile, ecc. ecc.; ma non si capisce quale sia la proporzione di questi campioni col totale del pane venduto; sicché viene il dubbio che non siano ingiustificati i lamenti che ogni tanto si odono dai catanesi sulla qualità del pane municipale.
Per ora dunque sarebbe prematuro dare un giudizio definitivo sulla municipalizzazione del pane a Catania e tanto meno sull’imitazione che altrove se ne possa fare. La nuova intrapresa municipale deve ancora lottare contro difficoltà numerose e deve migliorarsi assai se vuol raggiungere gli ideali che i suoi promotori si erano prefissi e che intendono tuttora raggiungere. I ribassi avvenuti nel prezzo del pane sono frattanto assai apprezzabili; né i difetti i quali condussero ai lamentati disavanzi dell’azienda municipale sembrano con essa tanto connaturati da non potere essere tolti. È da augurare che a Catania lo spirito civico si innalzi e si mantenga vivo abbastanza da preservare questa prima intrapresa municipale dai malanni dell’indifferentismo, della burocrazia e delle condiscendenze popolaresche che furono in passato i tarli roditori di tante consimili nobili iniziative.