Lo sciopero dei fonditori. Quel che dicono gli operai
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 02/01/1901
Lo sciopero dei fonditori. Quel che dicono gli operai
«La Stampa», 2 gennaio 1901
Gli operai dal canto loro negano che lo sciopero fosse da lunga mano premeditato. L’unione operai fonditori non è un arnese di guerra; essa non è mai stata sussidiata, come si va insinuando, da capitalisti milanesi, i quali sperano di potere in tal modo trarre a sé gli appalti ferroviari e gli altri lavori. L’Unione vive dal 1896 colle quote settimanali di venti centesimi dei soci, con le contribuzioni straordinarie dei mestieri affini, coi sussidi delle Unioni collegate di fuori.
Il suo scopo è pienamente pacifico; il suo intervento ha giovato a comporre lo sciopero del giugno nella fonderia Polla ed altre questioni, come è provato da lettere di ringraziamento degli industriali. La medesima Commissione di cinque, che prima i padroni avevano lodata e ringraziata, esiste ancora adesso, e non si capisce come abbia potuto diventare di un tratto incitatrice di sciopero.
Quanto alla questione del cottimo in Casa Ansaldi gli operai riconoscono di essere in genere contrari a questo modo di salario, perché gli industriali in tal modo spingono gli operai a lavorare molto, e poi, quando c’è qualcosa di guadagno per gli operai in più alla fine della settimana, riducono i prezzi del cottimo. Ma ora non c’era nessuna questione sul cottimo in genere.
Noi non vogliamo il cottimo in Casa Ansaldi, neanche se vi fossero tutti i materiali e gli utensili necessari, perché quello che è un lavoro speciale, che nelle altre fonderie non si fa, ed a cui il cottimo non si può applicare.
Il cottimo serve solo per i lavori comuni da appalti ed i prezzi piccoli, dove ci sono molti getti uguali da fare, e dove se si sbaglia un pezzo, se ne indovinano dieci, per modo che alla fine della settimana la perdita è pochissima.
Invece in Casa Ansaldi si fanno lavori fini e, come dicono gli operai, sottili, con molte complicazioni e anime dentro. È un lavoro molto soggetto a mancare. È ingiusto che noi sopportiamo i danni delle fusioni mal riuscite senza nostra colpa. Supponiamo che un lavoro lo si faccia in 10 ore; se l’operaio colla sua abilità riesce in seguito a farlo in 8 ed in 7 ore, la differenza è il guadagno del cottimo e dovrebbe spettare a lui; ma se per caso un pezzo rimane sbagliato, alla fine della quindicina questa perdita va a deduzione del guadagno precedente, cosicché gli operai senza loro colpa, solo perché per le grandissime complicazioni un getto non è riuscito, non vengono mai a percepire più del minimo giornaliero fissato.
Quanto al rimprovero di avere nel pomeriggio del 7 abbandonato il lavoro quando già i forni erano pronti, con grave danno dei principali, gli operai osservano che questo è stato un caso di forza maggiore. Il lavoro si dovette abbandonare momentaneamente per potere nel pomeriggio decidere tutti insieme che cosa dovesse la Commissione operaia sostenere nel convegno che in quella sera doveva avere colla Commissione padronale. Se non in tutte le fonderie il lavoro fu sospeso, ciò non si fece per calcolo, ma perché fu impossibile avvertire in tempo gli operai. I cinque non andarono con mandato imperativo, ma col mandato di ottenere l’abolizione del cottimo in Casa Ansaldi e il riconoscimento dell’Unione e di discutere su tale base. Lo sciopero fu deciso all’indomani, dopo il fallimento delle trattative. Non è vero che i cinque si siano imposti a tutti gli altri operai; questi hanno più volte liberamente confermato in essi, malgrado le loro dimissioni, la più illimitata fiducia.
Gli scioperanti ci tengono ai cinque loro delegati, non per sé, ma perché il fatto di trattare con questi implica il riconoscimento dell’Unione fonditori, che essi ritengono indispensabile alla tutela dei loro interessi ed alla trattazione pacifica delle questioni fra operai e padroni.
Ma se proprio gli industriali non vogliono saperne dei cinque dell’Unione fonditori, vengano a trattare con tutti noi. Il giorno di mercoledì, 2 gennaio, invece di aspettarci a riprendere il lavoro negli stabilimenti, vengano nella sala dell’Associazione generale operaia, oppure ci indichino quel luogo dove dovremo recarci.
Là ci troveremo tutti, industriali ed operai, e si potrà discutere sul modo di venire d’accordo. Ho cercato di esporre colla maggiore brevità ed imparzialità possibile le ragioni delle due parti contendenti. Se non vado errato, ora il nocciolo della questione sta tutto nel riconoscimento dell’Unione operai fonditori, negata dagli industriali e voluta dagli operai.
Il resto passa in seconda linea; l’abolizione del cottimo di Casa Ansaldi, l’aumento del salario del 10 per 100, il regolamento unico le ore supplementari pagate col 50 per cento in più, le 10 ore di lavoro sono tutte questioni tecniche su cui operai e padroni possono discutere e su cui non mi pare impossibile riescano a mettersi d’accordo.
Ma il guaio si è che le due parti non sono d’accordo sul modo di discutere insieme. Gli operai vogliono essere rappresentati dai cinque delegati dell’Unione operai fonditori. Gli industriali di questa non vogliono sapere e vogliono trattare direttamente con una Commissione nominata dagli scioperanti di tutte le fabbriche.
Noi facciamo voti che si trovi un modo di uscire da questa dolorosa situazione, che potrebbe dar luogo a conseguenze gravi. Si pensi che ogni settimana sono 18.000 lire circa di salari perduti dagli operai e sono numerosi appalti o lavori perduti dagli industriali. Già parecchi appalti, che sarebbero stati affidati a Case di Torino, sono andati a Milano ed altre città, con un danno di sviamento di clientela cui non si riuscirà a riparare in pochi mesi.
La disoccupazione, ora ristretta agli scioperanti, potrà fra non molto estendersi, per la mancanza di materia prima, alle altre categorie di operai meccanici, ecc.
È una situazione la quale non è certo confortante.