I ciarlatani ed i riformatori sociali A proposito della partecipazione ai benefizi[i]
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 30/01/1899
I ciarlatani ed i riformatori sociali
A proposito della partecipazione ai benefizi[i]
«La Stampa», 30 gennaio 1899
Nell’arte di guarire le malattie del corpo umano gli scienziati sono riusciti in notevoli proporzioni a sconfiggere gli empirici ed i ciarlatani, che una volta pullulavano e che ancor oggi godono di una larga clientela nella popolazione delle campagne e, qualche volta, sotto l’usurpato nome di spiritisti, fra le classi ricche cittadine.
Ma nell’arte di guarire i mali del corpo sociale il regno del ciarlatano è ancora indisputato. Numerosi come le sabbie del mare sono coloro i quali posseggono lo specifico infallibile, il rimedio unico e sovrano destinato a cambiare la faccia alla società, a far scomparire i dissidi di classe, le soperchierie dei ricchi sui poveri, dei potenti sui deboli, dei governanti sui governati.
Pur troppo, spesso il rimedio è peggiore del male che pretende di guarire; nelle società moderne, così complesse ed evolute, è necessario por mente non ai risultati primi ed appariscenti, ma alle conseguenze ultime di ogni riforma profondamente innovatrice. Allora si vede quanto sia fragile la virtù degli specifici sovrani e di quali irrimediabili disinganni debba essere causa la loro adozione; ed allora noi ci persuadiamo che nella cura dei mali sociali più del sognatore desideroso di spazzar via d’un tratto tutte le artificiose istituzioni attuali, sia necessario e benemerito il riformatore paziente, che studia le cause dei singoli mali, e procura ad ognuno di applicare un rimedio adeguato. Una delle istituzioni contro cui i critici della economia moderna rivolsero tutte le loro armi più affilate è il salariato.
Quante pagine riboccanti di pietà e di affetto pei proletari costretti a vendersi per una misera moneta non si sono scritte contro il salariato, dipinto come una forma raffinatamente peggiorata della schiavitù!
Almeno nel regime a schiavi il lavoratore era sicuro del vitto e del ricovero per tutta la vita; ed il padrone a cui lo schiavo aveva consacrato gli anni della fiorente giovinezza e della rigogliosa maturità era poi obbligato per legge a mantenerlo nella vecchiaia; mentre oggidì l’operaio vecchio viene licenziato col preavviso legale e costretto a finire la sua esistenza laboriosa, chiedendo l’elemosina sui marciapiedi delle strade o ricorrendo al ricovero negli ospizi di carità, lungi dagli affetti famigliari.
E se una volta i proprietari sapevano calcolare freddamente la vita media dello schiavo e con preveggenza raffinata riuscivano a farne coincidere la morte colla fine del periodo produttivo; anche oggi al salariato bianco altro non rimane, dopo avere dedicate tutte le proprie forze al lavoro della fabbrica, se non morire per esaurimento completo di tutto il suo organismo, affranto dal sopralavoro non pagato.
Aboliamo dunque il salariato! gridano gli empirici che non vedono alcun rimedio ai mali sociali, se non nella distruzione dell’organo ammalato, e che, ad esempio, accorgendosi degli inconvenienti prodotti dalla speculazione, dall’aggiottaggio, dall’usura, dalle ladrerie delle Banche, avevano già additato il rimedio infallibile nell’abolizione della Borsa, delle Banche e della moneta.
Per fortuna dei nervi della povera umanità, la quale impazzirebbe in blocco, contemplando il succedersi di tante repentine abolizioni e la nascita di nuovi istituti destinati a morire prima di poter essere applicati, il mondo muta bensì, ma lentamente. Il salariato, le cui prime origini si possono rintracciare nei monumenti storici della più remota antichità, che Atene e Roma conobbero vigoroso in alcuni periodi della loro vita, che si affermò ognora più invadente nell’evo moderno, non ha alcuna voglia di scomparire tanto presto.
Rimane, ma si trasforma. Una volta esso era un vincolo fra l’imprenditore e l’operaio singolo; adesso esso tende a diventare il rapporto fra masse enormi di operai ed il capo delle grandi fabbriche nelle quali si svolge la trama assidua dell’industria moderna.
La trasformazione della piccola nella grande industria ha bastato per inoculare un germe di trasformazione nell’antico semplice istituto del salariato.
Quell’operaio che una volta, vivendo della vita stessa del suo principale, assidendosi a tavola con lui, poteva discutere amichevolmente le condizioni del suo impiego, ora è diventato un membro di un immenso organismo, su cui l’individuo singolo è impotente ad esercitare una qualsiasi azione; di qui la necessità sociale degli scioperi, delle Leghe di resistenza, che sono i mezzi con cui l’operaio interviene in massa a determinare le condizioni del suo lavoro ed il saggio del suo salario. D’altro canto gli imprenditori moderni non possono tener d’occhio individualmente i loro operai; stimolare i pigri, punire gli oziosi e premiare i valenti.
L’opera dei sorveglianti non basta ed a ragione può essere sospetta ed antipatica agli operai ed agli imprenditori nel tempo stesso, perché delle altrui discordie si giova. È necessario introdurre alcune norme generali le quali spingano, per così dire, meccanicamente la produttività dell’operaio al più alto grado, senza bisogno di stimoli esterni, di sorveglianze fastidiose, in virtù del prepotente assillo dell’interesse individuale.
È questa la ragione per cui il salariato, che nella sua più rigida forma è il pagamento di una mercede giornaliera settimanale per una corrispondente prestazione d’opera, tende ora ad assumere mille forme svariate, adatte alle molteplici manifestazioni della vita industriale moderna.
Il salario a cottimo, questo bersaglio delle più acerbe invettive dei partiti operai e democratici nei paesi poco progrediti diventa nelle nazioni industriali l’indice perfettissimo di ogni minima variazione nella produttività, nella velocità, nello sforzo muscolare, nervoso ed intellettuale dell’operaio.
Il salario a premio, incitando il lavoratore al risparmio del combustibile, della materia prima, del tempo, è uno stimolo potente all’attuazione della legge del minimo mezzo ed aumenta i guadagni dell’operaio ed i profitti dell’imprenditore oculato che ha saputo escogitare nuove e geniali forme di organizzazione del lavoro. La partecipazione ai profitti interessa i lavoratori alla prosperità dell’azienda, aggiungendo al loro salario normale una quota dei benefizi eventuali dell’intrapresa.
È questo l’argomento trattato nel libro di Emilio Waxweiler citato nell’inizio del presente articolo. L’opera dell’autore è già stata premiata dal Museo Sociale di Parigi con un premio di 12 mila lire: ed è certo che oltre al premio pecuniario cospicuo, inaudito per l’Italia, l’autore deve essere orgoglioso di avere scritto un’opera veramente classica nel significato più alto della parola, classica per larghezza di vedute, temperanza ed equanimità di giudizio, non solo verso l’istituto che forma oggetto speciale degli studi dell’autore, ma verso tutti gli altri, i quali muovono alla partecipazione ai benefizi una concorrenza più o meno vivace nella mirabile gara intesa a trasformare la società attuale a base di capitalismo e di salariato in una grande cooperativa a base di giustizia e di mutualità.
Uno degli indizi che meglio servono a far distinguere i ciarlatani sociali dai riformatori coscienziosi è il modo diverso con cui gli uni e gli altri presentano al pubblico il rimedio che essi hanno scoperto od adottato e reputano adatto a risolvere tutti o qualcuno dei mali sociali. I primi affermano che il loro è l’unico, il vero, l’infallibile rimedio e che tutti gli altri sono impiastri, pannicelli caldi, astute armi di combattimento nelle mani di coloro stessi che traggono vantaggio dalla esistenza del male.
Gli altri, più modesti e meno persuasi della propria onniveggenza, presentano al pubblico l’esame anatomico del loro rimedio, ne sviscerano la storia passata e gli sperimenti già compiuti, cautamente bilanciano fra di loro il pro ed il contro, ne limitano l’applicazione a quei casi in cui i vantaggi sono massimi e minimi i danni prossimi e remoti, riconoscono la necessità di adottare altri rimedi rivali per curare dei malanni, cui non tocca il loro specifico; scendono fino alle più minute particolarità nell’applicazione e di questa espongono le più lontane ripercussioni economiche, sociali e giuridiche nell’animo e nel benessere degli interessati diretti e della società intera.
A questa seconda categoria di riformatori coscienziosi, modesti e pazienti appartiene il Waxweiler, uomo di dottrina e di pratica insieme per la sua duplice qualità di professore all’Università di Bruxelles e di caposezione nell’Ufficio del lavoro del Belgio.
Io ne raccomando vivamente la lettura a quei duci delle masse operaie, ai quali il desiderio di una società futura migliore della presente non impedisce di vedere la convenienza di perfezionare il maledetto, ma tenace e persistente sistema del salariato; ed ancora più a quei capitani dell’industria, nell’animo dei quali se è già vagamente infiltrata la persuasione che gli operai non solo sono una merce che si compra sul mercato del lavoro, ma sono anche dei collaboratori interessati nella prosperità dell’impresa a cui dedicano la propria opera.