Le premesse del ragionamento economico e la realtà storica
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/09/1940
Le premesse del ragionamento economico e la realtà storica
«Rivista di storia economica», V, n. 3, settembre 1940, pp. 179-99
1.-Il problema posto, nel quaderno del giugno decorso, da Attilio Cabiati col saggio “Intorno ad alcune recenti indagini sulla teoria pura del collettivismo”, mi ha procacciato, in parte in seguito a miei spunti epistolari, un breve carteggio, dal quale e da pagine, recentemente lette di riviste, estraggo alcuni brani a parer mio significativi.
Non ricordo chi ha scritto poco addietro avere l’economista austriaco von Mises, a cui risale il nuovo fervore di discussioni intorno al problema centrale: “è possibile la formazione di un mercato e quindi dei prezzi in regime collettivistico?” meritato un monumento sulla piazza del Cremlino, perché, negando quella possibilità, ha provocato il rinnovato interessamento del mondo scientifico intorno al problema della possibilità di una “scienza economica” in regime collettivistico, interesse che era venuto meno col graduale attenuarsi e colla finale cessazione delle dispute intorno alla teoria del valore di Marx.
Dubito assai che la proposta di erigere nella capitale sovietica un monumento al von Mises trovi laggiù una eco, non tanto perché questi è forse il più acerrimo nemico vivente dell’ideale socialistico, quanto perché oggi ben difficilmente si troverebbe in Russia uno studioso il quale, comprendendolo, si interessi al problema sollevato dal von Mises ed agitato dai von Hayek, Lerner, Lange, Hall, Dickinson, Taylor, Pigou, Dobb, Heimann, Landauer, Cabiati ed altri ancora. Leggo infatti in una recensione dell’Opie ai due grossi volumi dei coniugi Webb il seguente brano curioso: “Negli anni decorsi all’economista non fu certo agevole compito visitare la Russia ed ancor meno analizzare, nella situazione presente della teoria economica tra gli economisti russi, il funzionamento del meccanismo economico.
“Forse mi sarà consentito di dir qualcosa intorno alle mie visite nell’Unione sovietica, per quanto concerne il problema dei rapporti scientifici fra la Russia e l’Occidente, Nel 1929 potei recarmi per conto mio in Russia, vivere la mia propria vita a Mosca e viaggiare nel paese. Potei in quella occasione discorrere con gli economisti addetti alla Vesenha (Supremo consiglio economico) e ad altri enti, i quali avevano notizia di quali fossero i problemi di cui si interessa un economista. Essi francamente dichiaravano che si era dovuto partire dalla struttura preesistente dei prezzi e costruirvi sopra passando attraverso a tentativi e ad errori; e di non aver ancora incominciato a riflettere sui criteri i quali avrebbero da ultimo dovuto guidare i dirigenti. Non trovai traccia di scritti teorici di cui potessi giovarmi, e mi furono offerti unicamente saggi descrittivi degli svariati consorzi (trusts) ed enti della pubblica amministrazione. Poco dopo il 1929 gli economisti, con cui allora mi ero intrattenuto scomparvero [probabilmente in seguito ad una delle purghe staliniane][1], dalla scena. Quando, nel 1932, ritornai in Russia, le cose erano ben differenti. Era opportuno, seppure non assolutamente necessario, viaggiare sotto l’egida dell’Intourist [la agenzia ufficiale di viaggio e di controllo per gli stranieri]. Ebbimo, io ed i miei compagni, ogni agevolezza di colloquii con i commissari ed i principali membri dei corpi amministrativi e scientifici. Io mi interessavo sopratutto del problema della formazione dei prezzi [in regime comunistico] e feci in proposito domande ad nauseam. Non ebbi la fortuna di incontrare una sola persona la quale comprendesse quale fosse l’oggetto delle mie indagini, né potei trovare pubblicazioni le quali si occupassero dell’argomento. Mi convinsi che ricerche intorno al sistema russo del tipo proprio agli economisti di professione, ed a cui gli stranieri possano prendere parte, dovranno attendere la formazione in quel paese di una tradizione scientifica. Una partecipazione vantaggiosa da parte degli stranieri non può aver luogo se questi non abbiano la possibilità di visitare la Russia con quelle facilità e libertà di vivere in essa, in condizioni propizie alla ricerca scientifica, le quali si hanno negli altri paesi. Il rimprovero [mosso dai russi] agli economisti occidentali di non interessarsi assiduamente della Russia non ha ragion d’essere sinché ciò non sia possibile”. (Redvers Opie, “The Webbs on Soviet Communism” in “Quarterly Journal of Economics”, novembre 1936, p. 145).
La noncuranza degli studiosi russi intorno ad un problema sul quale si sono gittati con tanto interesse valorosi economisti tedeschi, inglesi ed italiani, non deve scoraggiarci. Se del problema non si occupano coloro che a primo tratto parrebbero i più interessati ad approfondirlo, possiamo bene interessarcene noi. L’interesse nostro essendo, per fortuna, puramente astratto e rivolto a mero fine di conoscenza, forse otterrà perciò risultati migliori. Nelle pagine che seguono non si vuole ritornare sopra alla sostanza del problema posto dal von Mises (si possono formare prezzi in regime collettivistico?) e discusso dal Cabiati nel quaderno ultimo della rivista, ma solo discutere intorno ai criteri con i quali il problema deve essere affrontato. Se si fosse d’accordo sul criterio della indagine, il problema probabilmente non esisterebbe più; od, almeno, non presenterebbe difficoltà rilevanti. Si discute, perché i disputanti parlano linguaggi reciprocamente incomprensibili e partono da premesse contrastanti.
2.-Sentiamo innanzi tutto la parola di coloro che direi i “classici” del problema, perché a capo fila di essi sta Vilfredo Pareto. Scrive il Cabiati:
“Quanto alla vera essenza del tema, converrebbe riprenderlo su basi strettamente scientifiche, in teoria pura: il che non implica che nella vita reale il socialismo non sia uno sproposito tale, che non potrebbe applicarsi, se non che da uno il quale avesse in mente di rovinare il proprio paese.
“Mi si potrebbe dire che, dopo questo mio giudizio personale, non si capirebbe perché io me ne occuperei.
“La ragione c’è, ed è la seguente: che le critiche mosse al socialismo mi paiono un affastellamento di ragioni parziali, di ideologie, di sentimenti; ma non un ragionamento rigoroso: sicché si discute e ridiscute su temi antichi, senza convincere in pieno e in modo irremissibile la coscienza generale. La prova è data dal fatto che il tema, dall’ottocento in poi, seguita ad essere discusso: mentre ad esempio, sui principi generali della teoria della moneta, i caposaldi sono accolti da tutti, qualunque siano le loro idee su questo o quel particolare.
“Se noi consideriamo l’esposizione del Pareto in materia, così precisa nella sua formulazione matematica, vediamo che la conclusione di essa è la seguente: tanto in regime di libera concorrenza, quanto in regime socialistico, ove il fine sia di raggiungere il massimo edonistico sociale, entrambi i sistemi funzionano in modo identico e quindi sboccano allo stesso fine: ossia per una via o per l’altra si giunge allo stesso massimo edonistico. E allora a che prò discutere? “Bisogna allora, per trovare la ragione di preferenza del sistema liberista o di quello socialista, entrare nella discussione degli ‘attriti’. Ma qui entriamo in un vero labirinto. Se ci si chiede: un regime socialista puro (al 100 per cento) è possibile?, la risposta è di piena ritorsione: un regime liberista esiste? è mai esistito? Gli interventi statali, anche quando non erano giunti alla elefantiasi modernissima, permettevano il libero gioco delle forze economiche in libero contrasto fra di loro? Quanti anni si dovette lottare per far riconoscere la libera organizzazione operaia? Quid, di quella padronale? E il libero scambio che garantirebbe la redistribuzione del lavoro internazionale secondo la legge del minimo mezzo e quindi il trionfo del minimo costo, dove è andato a nascondersi? Ha mai funzionato sul serio, salvo in pochi paesi, i quali erano alla testa della trasformazione industriale dell’ottocento?” (lettera del 18 agosto 1940 diretta a chi scrive).
Aveva già scritto lo stesso Cabiati a sostegno della tesi che faccia d’uopo esaminare il pensiero socialistico nella sua forma pura:
“Per distruggere l’ipotesi socialista….. occorre esaminare il pensiero socialista nella sua interpretazione più generosa, e quindi più razionale ed equa, e porre a raffronto con essa il sistema liberista nella sua applicazione realistica, e non secondo la teoria pura, che non considera i gravissimi attriti della realtà (in ‘A proposito di un Symposium sul collettivismo’ in ‘Giornale degli economisti’, maggio-giugno 1940, p. 377) ed in questa rivista, nel saggio sovra ricordato:
“Criticare in via ‘pratica’ il regime di uno stato socialista, e mostrare le virtù del regime della libera concorrenza ‘pura’, la quale in via di fatto non esiste, costituisce un errore di logica. Basta tenere presente la mancanza della uguaglianza nei ‘punti iniziali di partenza’, esistente fra gli uomini, per infirmare tutto il principio teorico che la libera concorrenza assicura il massimo di benessere collettivo.
“Ove poi a questo vizio iniziale si aggiunga il dato che la libera concorrenza, in via di fatto, non viene adottata compiutamente in nessun paese, si ha quanto basta per togliere la più gran parte di valore reale a queste discussioni, e a svalutarne quindi anche le conclusioni in teoria pura”. (quaderno del giugno, p. 77).
3.-Qui bisogna distinguere nettamente due ordini di ricerche: Quello dello studio in teoria pura del meccanismo della formazione dei prezzi nelle diverse ipotesi astratte possibili: libera concorrenza, concorrenza imperfetta, corporativismo medievale, corporativismo moderno, monopolio, collettivismo, ecc. ecc. In questa sede non si tratta di fare paragoni, di ricercare preferenze; ma solo di indagare quali siano le conseguenze, rispetto alla formazione dei prezzi (dei beni diretti, dei beni strumentali, dei servigi: salari, interessi, profitti, rendite, ecc.), delle diverse ipotesi fatte. Siamo in teoria pura, senza nessuna preoccupazione di applicare i teoremi formulati alla realtà concreta; quello della preferibilità concreta dell’uno agli altri regimi. Per limitarci al confronto fra la concorrenza perfetta e il collettivismo, è ovvio che esso dovrà compiersi in parecchie successive approssimazioni: dapprima dando dell’uno e dell’altro le interpretazioni più generose ed eque, supponendoli “amendue”-e non solo quello collettivistico, come pare richiegga il Cabiati,-attuabili nella loro purezza, così come la teoria pura li aveva concepiti; ed avvicinandosi in seguito vieppiù alla realtà, tenendo conto degli “attriti” pratici, diversi nei due sistemi: accordi monopolistici, interventi statali, azioni di classi e di gruppi sociali, diversità economiche e sociali iniziali nei punti di partenza, ad esempio, per il regime liberistico; imperfezioni fatali della direzione unitaria e conseguente burocrazia, diversità gerarchiche iniziali nei punti di partenza per il regime collettivistico; pesando o, meglio, “sentendo” il peso dei diversi attriti e procurando di venire, se possibile, ad una conclusione finale.
Ma quando noi vogliamo solo discutere il problema: è possibile un sistema di prezzi in regime collettivistico? ci troviamo ancora nello stadio dell’indagine puramente teorica. Qui possiamo porre noi la premessa del ragionamento; e come gli economisti posero la premessa della concorrenza perfetta senza inquietarsi di domandarsi a se stessi se questa potesse attuarsi nella realtà e costrussero uno schema astratto, il quale è strumento utile, sebbene lontanissimo dall’essere sufficiente, di interpretazione della realtà; così noi possiamo porre la premessa del collettivismo perfetto, senza porci la domanda, inutile in prima approssimazione, se quel collettivismo sia attuabile nella sua purezza o non sia invece una utopia. Anche la premessa del collettivismo perfetto è utile strumento di indagine teorica e perciò fu maneggiato da Vilfredo Pareto e dal colonnello Barone.
4.-Il Cabiati nell’ultimo quaderno di questa rivista riaffermò la conclusione alla quale i due insigni scienziati erano giunti: l’equilibro del mercato raggiungersi a quei prezzi ai quali tutte le domande e tutte le domande e tutte le offerte dei beni e dei servizi si uguagliano rispettivamente e simultaneamente e siffatto equilibrio essere raggiunto, ugualmente, sia che si operi in regime di libera concorrenza, sia che si operi in regime collettivistico, qualora rimanga identica la condizione, che lo stato si propone con la sua azione di raggiungere lo stesso fine, cioè il massimo di utilità per tutti i contraenti, dati i loro punti iniziali di partenza (pagina 106).
Vilfredo Pareto aveva nel capitolo su “L’equilibrio economico” nel quale discute il problema che qui ci interessa, definito il “massimo di ofelimità”, fine del ministro della produzione in regime collettivistico ed automatico risultato del regime di libera concorrenza:
“Diremo che i componenti di una collettività godono, in una certa posizione, del massimo di ofelimità, quando è impossibile allontanarsi pochissimo da quella posizione giovando o nuocendo a tutti i componenti la collettività; ogni piccolissimo spostamento da quella posizione avendo necessariamente per effetto di giovare a parte dei componenti la collettività e di nuocere ad altri”. (“Manuale”, sesto cap., par. 33, p. 337).
La definizione è precisa. Essa vuol dire che,-se i componenti la collettività sono “legalmente” liberi di determinare, ai varii possibili prezzi fissati dal mercato in regime di libera concorrenza o dal ministro della produzione in regime collettivistico, la quantità dei beni e dei servigi che essi a quei prezzi acquistano -, la libera concorrenza e il ministro della produzione giungono, la prima automaticamente ed il secondo sistematicamente, ad una situazione di equilibrio, nella quale ogni componente la collettività gode del massimo di ofelimità (utilità economica) che gli compete dato il suo proprio punto di partenza nel contrattare. Vuol dire anche che se-ipotesi irreale ma assunta provvisoriamente a scopo di ragionamento-in una società collettivistica il punto di partenza dei singoli componenti è il medesimo, che si osserva nella società a base di libera concorrenza, il ministro della produzione non può fare a meno, se vuole che ognuno dei componenti ottenga il massimo di ofelimità, di giungere alla stessa situazione di equilibrio, con le medesime quantità domandate ed offerte e con gli stessi prezzi dei beni e servigi che sarebbero fissati in regime di libera concorrenza.
5.-Ha torto marcio il von Mises ed hanno ragione Pareto, Barone, Cabiati e gli altri italiani e forestieri nell’asserire che il ministro della produzione non incontrerà teoricamente difficoltà maggiori di quelle che debbono superare in regime di libera concorrenza gli imprenditori per giungere al prezzo di equilibrio. Attraverso a quel che gli inglesi chiamano “higgling of the market”, Walras “tatonnements” e noi diremo “assaggi e tentativi”, si giunge certamente, in ambe le ipotesi, al prezzo di equilibrio che fa la quantità domandata uguale a quella offerta. Finché non vi si giunga, imprenditori o ministri avranno sulle braccia troppa più roba di quella che al prezzo dato è richiesto od i consumatori domanderanno quantità maggiori di quella prodotta. Converrà che il prezzo muti o mutino correlativamente quantità prodotte ed offerte o mutino prezzo e quantità, sinché si giunga all’equilibrio.
Tutto ciò è chiaro come la luce del sole e fa meraviglia ci si disputi su.
Ma è chiaro altresì che tutto ciò appartiene al regno dei sogni, ossia degli schemi puri che gli economisti costruiscono allo scopo di avere un filo conduttore per orientarsi nel labirinto della vita reale. In questa realtà, le differenze fra i due schemi sono varie e profonde. Per cominciare da una che non muta la faccia dello schema ma ne rende assai diversi gli effetti per gli uomini, è oramai luogo comune tra gli economisti osservare che in regime liberistico gli uomini, nel contrattare, partono, di fatto, da origini sperequatissime. Gli uni sono poveri diavoli che debbono vivere con pochi soldi al giorno e gli altri sono ricchi sfondolati, i quali non sanno come cavarsi d’impiccio nello spendere i loro redditi. Nell’immaginare una società collettivistica pura si suole invece partire da una qualche premessa ugualitaria: che il reddito di ogni uomo sia uguale al reddito di ogni altro ovvero che ognuno abbia reddito proporzionato ai propri meriti di lavoro, ecc. ecc. Qualunque regola di attribuzione del reddito si segua, una delle due sovra dette od un’altra ancora e comunque siffatte regole si definiscano, si ammette che i punti di partenza nel riparto del reddito debbano essere in una società collettivistica assai più vicini che in una società liberistica. Io ho i miei riveriti fortissimi dubbi che la premessa ugualitaria si verifichi nella realtà delle società collettivistiche concrete, ed ho l’impressione che Pareto nutrisse in proposito dubbi ancora più forti; ma qui discutiamo in teoria pura e possiamo ammettere che le cose stiano così. È evidente che altre saranno le quantità domandate ed offerte di beni e di servigi nei due tipi di società. Nella società collettivistica scompariranno i beni e servigi domandati dai ricchissimi e dai poverissimi. La produzione ed il consumo si concentreranno nei beni e servigi proprii di una popolazione fornita di mezzi poco diversi da uomo ad uomo, da famiglia a famiglia.
Filosofi, storici, sociologi possono essere di pareri diversi intorno alla convenienza morale storica politica sociale del mutamento. L’economista, il quale per lo più è convinto, a ragione od a torto, non essere suo compito metter bocca in simili giudizi di valore, si contenta di dire che, nelle due ipotesi, saranno ovviamente diversi i prezzi dei beni e servigi, perché sono diversi, per qualità e quantità, i beni e servigi domandati e prodotti. Ma, quel che qui importa, vi saranno ugualmente dei prezzi; e con i soliti “assaggi e tentativi” in amendue le ipotesi si arriverà ad una situazione di equilibrio.
6.-Pareto afferma che la teoria pura non è atta a fornirci un criterio per decidere fra i due sistemi. Si intende per decidere dal puro punto di vista economico, quello della quantità dei beni e servigi posti a disposizione degli uomini. Il ministro della produzione in uno stato collettivistico può, ad esempio, adottare un sistema di prezzi atto a rendere conveniente una produzione maggiore di quella possibile in libera concorrenza:
“Lo stato collettivista, meglio della libera concorrenza, pare potere portare il punto di equilibrio sulla linea delle trasformazioni complete. Infatti è difficile che una società privata segua precisamente nelle sue vendite la linea delle trasformazioni complete. Perciò dovrebbe farsi pagare dagli avventori da prima le spese generali e poi vendere ad essi le merci al prezzo di costo, dedotte quelle spese generali. Eccetto casi particolari, non si vede come ciò si possa fare. Lo stato socialista invece può imporre, come tributo, sui consumatori di una merce, le spese generali della produzione di detta merce, e poi cederla al prezzo di costo; può, cioè, seguire rigorosamente la linea delle trasformazioni complete”. (“Manuale”, sesto cap., par. 58, pagine 346-47).
Il che vuol dire, per tradurre la dimostrazione paretiana in linguaggio ordinario più grossolano, che se una merce costa in tutto 10 lire per unità, di cui 6 spese generali (interessi ed ammortamento del capitale fisso, stipendi ai dirigenti, imposte, ecc.) e 4 spese variabili o specifiche (materie prime, salari, ecc., che si pagano se si produce e in funzione delle unità prodotte), l’imprenditore in libera concorrenza deve vendere a 10; e può produrre perciò quella certa quantità, ad esempio 1.000, che i consumatori domandano a 10. Se questo prezzo è uguale al costo e se la quantità domandata è uguale alla offerta, 10 sarà il prezzo di mercato e 1.000 saranno le unità prodotte.
Il ministro della produzione in uno stato collettivistico può invece pregare il collega ministro delle finanze di prelevare in qualche modo sui contribuenti una imposta bastevole a coprire le spese generali; che noi sappiamo ammontare a 6 lire x 1.000 unità = 6.000 lire. Coperte così le spese generali, il costo specifico, variabile o vivo, risulta di 4 lire; ed al prezzo di 4 lire si possono, suppongasi, vendere 2.000 unità. Le spese generali, in ipotesi, non crescono, perché il capitale fisso e i dirigenti esistenti sono in grado di bastare alla produzione di 2.000 unità, come a quella di 1.000. Ecco che conviene produrre e vendere 2.000 unità, crescendo la massa dei beni posti a disposizione degli uomini. In libera concorrenza ciò sarebbe assai difficile per gli imprenditori, a cui non è lecito repartire imposte sui contribuenti.
Si potrebbero addurre, col Pareto, altri casi ipotetici nei quali il vantaggio del ministro della produzione sugli imprenditori concorrenti appare chiaro. Ma l’esempio dato può bastare a spiegare l’indole dell’argomentazione addotta.
Pareto è, tuttavia, incerto nel concludere, sempre in teoria pura, a favore dell’uno o dell’altro sistema:
“Nello stato economico della proprietà privata, la produzione è regolata dagli imprenditori e dai proprietari; vi è perciò una certa spesa, che figura tra gli ostacoli. Nello stato collettivista la produzione sarebbe regolata da impiegati di quello stato; la spesa che per essi si avrebbe potrebbe essere maggiore, e l’opera loro meno efficace; in tal caso, i vantaggi accennati potrebbero essere compensati e mutarsi in perdite.
“In conclusione, l’economia pura non ci dà criteri veramente decisivi per scegliere tra un ordinamento di proprietà e di concorrenza privata e un ordinamento socialista. Quei criteri si possono solo avere tenendo conto di altri caratteri dei fenomeni”. (“Manuale”, sesto cap. par. 60 e 61, pp. 347).
Direi tuttavia che il confronto tra imprenditori privati e burocrati del collettivismo ci trasporti già nel campo del concreto, dell’applicato. In teoria pura, noi dobbiamo supporre da un lato imprenditori capaci, coraggiosi, antiveggenti, non guastamestieri predestinati al fallimento; dall’altro funzionari di alta capacità tecnica e di squisito sentimento morale di devozione al pubblico. In siffatta ipotesi non si vede perché il costo, per la collettività, degli uni debba essere superiore a quello degli altri.
7.-Dunque il collettivismo è superiore al liberismo? In teoria pura, sì. La conclusione, tuttavia, ci fa fare ben poca strada, perché il confronto è istituito fra due schemi astratti, dei quali è notorio, per consenso, ora, anche del coro degli economisti, che l’uno, quello liberistico, non è mai esistito e non vi è probabilità possa mai esistere in avvenire. L’ultima parola d’ordine, tra gli economisti, è che l’ipotesi della libera concorrenza sia strumento anacronistico di indagine; ed occorra sostituirvi l’ipotesi della “concorrenza imperfetta” o della “concorrenza monopolistica”. Noi viviamo, ha detto taluno, in un mondo di monopoloidi; ed è ozioso perdere ancora tempo intorno ad una ipotesi, quella di libera concorrenza, proclamata unanimamente lontanissima della realtà.
Sebbene il problema non sia affatto così chiaro come appare a molti, sebbene lo schema della libera concorrenza sia atto a spiegare il grosso del funzionamento del meccanismo economico prima della grande guerra; sebbene esso riassuma ancor oggi il succo o il fondo, almeno per contraddizione, di buona parte dei fatti economici che accadono nel mondo, supponiamo per un momento che quell’ipotesi debba essere sostituita, in un mondo di monopoli, monopoloidi, vincoli legislativi ecc., da altre ipotesi più vicine alla realtà. Queste altre ipotesi sono, per ora alle prime fasi della loro elaborazione teorica. Si abbia pazienza, ché, se son rose, fioriranno. Chiediamoci qui: l’ipotesi del “collettivismo puro” è essa più realistica? è strumento adatto alla ricerca scientifica di una qualsiasi realtà, sia pure in primissima approssimazione?
Gli scettici negano sostanzialmente che si possa prendere sul serio la premessa dalla quale necessariamente partirono Pareto, Barone e tutti coloro i quali affermarono la possibilità astratta di un sistema di prezzi in equilibrio analogo a quello dell’ipotesi di libera concorrenza: la libertà “legale” dei consumatori di far domanda di beni e servigi. Se gli uomini sono liberi di scegliere la qualità e la quantità dei beni e servigi che essi intendono acquistare ai prezzi stabiliti dal ministro della produzione, nulla è cambiato nello schema produttivo collettivistico in confronto allo schema di concorrenza. Ma, se lo schema della concorrenza suppone, per definizione, la libertà “legale” dei consumatori di acquistare o non acquistare, di acquistare un tanto o meno o più, lo schema collettivistico parte “necessariamente” dalla medesima ipotesi? 8.-Cabiati non vede perché i consumatori non dovrebbero essere liberi di scegliere a lor talento beni e servigi da consumare:
“Lo stato socialista, al pari dello stato capitalista, è padrone o dei prezzi o delle quantità. Per comandare a suo arbitrio ad ambo questi fattori, dovrebbe prescrivere ai sudditi cosa e quanto essi devono consumare o comperare nell’unità di tempo: il che non costituirebbe un aumento di libertà di fronte allo stato borghese”. (quaderno del giugno 1940 di questa rivista, p. 105).
“(Non) riesco a capire per quale misterioso motivo, in un regime socialistico non dovrebbe esservi libertà di consumo. La domanda e l’offerta possono perfettamente coesistere con un regime socialistico (qui si parla di socialismo e non di comunismo) e la domanda può teoricamente coesistere benissimo con uno stato socialista a produzione collettivista. E se…. l’autorità centrale ha un monopolio, siccome ogni individuo fa parte del gruppo monopolista, la domanda e l’offerta dovranno incontrarsi a quel prezzo che è determinato dalla massa dei beni primari e strumentali disponibili, in funzione del prezzo dei beni finiti. Sarà sempre, a lungo andare, il prezzo di questi ultimi che determinerà i prezzi delle materie prime e dei beni strumentali, precisamente come avviene in regime di libera concorrenza”. (in “Giornale degli economisti”, maggio-giugno 1940, p. 378).
Supporre che il ministro della produzione (per riassumere in un personaggio solo i varii organi della amministrazione economica in uno stato collettivistico) comandi a bacchetta ai consumatori, è fare, secondo Cabiati, ipotesi contraria all’indole della società collettivistica ed all’insegnamento dei suoi profeti:
“Evidentemente il prof. von Mises immagina il governo socialista come una specie di Olimpo, che dalla sua altezza guarda col telescopio i lontani sudditi e decide dei gusti, delle produzioni, dei consumi, ecc., e i sudditi vengono avvertiti di ciò che devono consumare, produrre, pagare (in forza di lavoro) ecc. Tutto ciò non si discute! In fin dei conti, Marx basava il sistema dei prezzi sulle ore di lavoro necessarie a produrre dei beni di consumo e dei beni capitali. Era sempre dunque la collettività che decideva dei consumi, tenendo conto dei costi! L’errore evidentemente, non stava in questo caposaldo!” (in “Giornale degli economisti” maggio-giugno 1940, p. 377).
“Teoricamente, il socialismo dovrebbe proprio essere il regime del “right man in the right place”; non solo, ma il regime in cui ogni cittadino dovrebbe dare il suo apporto volonteroso per indicare gli errori, suggerire il modo di evitarli, discutere liberamente le decisioni prima che vengano applicate. Potrà questa essere una utopia; ma studiando un regime, qualunque esso sia, dobbiamo discuterlo, almeno in ‘prima approssimazione’, partendo dalla ipotesi che il suo funzionamento sia regolare, sicché i difetti dipendano da vizi “in re ipsa”, e non da ignoranza di uomini. Un regime socialista noi dobbiamo supporre che sia il portato della volontà della maggioranza e che ognuno denunci al governo le proprie capacità ed attitudini, per porle al servizio della “res publica””. (ivi, p. 378).
9.-Se si tratta di discutere uno “schema teorico” od una “utopia” è logico che esso debba essere discusso secondo la formulazione che ne diedero i suoi ideatori o quella migliore che noi, in sua mancanza, possiamo immaginare. Chiameremo, in una società socialistica, schema delta (vedere sotto al 13 le ragioni dell’intitolazione) quello nel quale i consumatori conservino la libertà “legale” di scelta dei beni e servigi da consumare ed i lavoratori la libertà di scelta dell’occupazione da perseguire; e nel quale inoltre la volontà dei governanti si identifichi con quella dei governati, ed i primi ottengano per le loro prestazioni una remunerazione uguale a quella che otterrebbero se si trasformassero in governati od attendessero ad occupazioni di importanza sociale uguale a quelle proprie dei governati. Lo schema è all’incirca quello stesso che il De Viti ha popolarizzato col nome di “stato cooperativo”. Esso è teoricamente legittimo. Al punto a cui siamo giunti, noi non siamo, tuttavia, più nello stadio della formulazione e della discussione di “schemi” o “premesse” teoriche di indagine; ma in quello, diverso, del giudizio, intorno alla attitudine dello schema ad interpretare la realtà.
Siccome la realtà da interpretare-“stato socialistico”-è in gran parte ignota e gli sperimenti sinora compiuti-gli Incas del Perù, il Paraguay gesuitico del diciassettesimo secolo, le varie “utopie” americane della prima metà del diciannovesimo secolo, la unione sovietica contemporanea ecc.-sono interpretabili in svariate maniere, così taluni studiosi sono scettici intorno alla attitudine dello schema teorico paretiano ad interpretare la realtà socialistica.
Un mio corrispondente, il quale preferisce segnare questi suoi spunti di discussione colla sigla Spectator, scrive in proposito:
“La dimostrazione che il Pareto dà nel “Manuale” a proposito del massimo benessere collettivo, anche se esatta, non so proprio a cosa potrebbe servire: 1) perché non riguarda il maximum maximorum, 2) perché la definizione del massimo (a p. 337) è tale che non può esercitare alcuna attrattiva per chi si preoccupa dell’interesse collettivo. Il ministro della produzione che nello stato collettivistico si proponesse di ordinare le cose in modo da raggiungere un tale massimo sembrerebbe più irragionevole che se cercasse di assicurare a tutti i lavoratori un certo tenore di vita con un ordinamento produttivo che consentisse loro di tenere, per il maggior tempo possibile, la mano destra in tasca durante il lavoro”. (lettera del 31 agosto 1940).
Lo scetticismo di Spectator è forse alquanto impertinente. Ma il senso di quel che egli dice è chiaro. La definizione del Pareto non serve, se io interpreto bene questa e la contraddizione di Spectator, al famigerato ministro della produzione dello stato collettivistico, in primo luogo perché essa risolve il problema del massimo di ofelimità (utilità economica) dei singoli membri della collettività, non quello del massimo dei massimi dell’intiera collettività. Il ministro dovrebbe andare in cerca di questo e non di quello. Ma tra i due non esiste il ponte di passaggio. No bridge. Nessuno sinora è riuscito a far la somma delle ofelimità di due individui, non che di quella di milioni di componenti una data società. L’utilità, l’ofelimità, la soddisfazione, la felicità dell’uno non è paragonabile a quella di verun altro. Non si fanno somme sottrazioni moltipliche di unità di cose o qualità od entità tra le quali non esiste un metro di paragone.
In secondo luogo, anche se il ministro della produzione conoscesse l’inconoscibile, se ne infischierebbe. Chi può assicurare che il ministro ecc. ecc. voglia sul serio proporsi come scopo dell’opera sua il raggiungimento del massimo di utilità economica dei consociati? Può darsi e può non darsi. Che lo voglia è uno dei mille e mille casi storicamente possibili. Esso è degno di studio, perché rispondente all’ideale generoso di qualche utopista, di profeti ed agitatori in buona fede, suppongasi, anelanti al miglioramento dell’umanità. Ma poiché esso è uno solo dei tanti casi possibili, anche gli altri casi paiono ugualmente degni di studio. Lo studio dell’un schema non esclude quello degli altri.
10.-Taluno esclude senz’altro, come assurda, la ipotesi che il ministro ecc. ecc. possa agire nell’interesse della collettività. Frank H. Knight, dell’università di Chicago e noto autore del libro “Risk Uncertainty and Profit”, che ebbe l’onore di essere riprodotto fotostaticamente, come se fosse già divenuto un antico classico, nella collezione londinese, scrive ad esempio:
“Sovratutto, per credere che il regime collettivistico possa consentire libertà ai consociati in qualsiasi senso della parola, noi dobbiamo credere altresì che la autorità centrale agirebbe in realtà come il fiduciario responsabile del popolo intiero e non puramente nel proprio interesse quale sarebbe da essa medesima definito”. (in “Two Economists on Socialism”, in “The Journal of Political Economy”, aprile, 1938, p. 250).
“L’autore (A. C. Pigou) parte dalla premessa che in regime socialistico il potere sarà concentrato con efficacia nelle mani di una qualche autorità centrale dotata della massima competenza e buona volontà allo scopo di promuovere i fini voluti: massimo economico e giustizia….. Il professor Pigou, alla pari degli autori di libri sui piani in generale, non fa alcuno sforzo per richiamare l’attenzione del lettore su quello che l’osservazione della storia recente segnala come la minaccia fondamentale del socialismo o collettivismo. Da un lato, cioè un regime collettivistico sarebbe una dittatura, che irreggimenterebbe l’intiera vita sociale ed intellettuale sottoposta al suo impero e non lascerebbe praticamente agli uomini alcuna “vita privata”. Gli esseri umani posti a capo del regime dovrebbero adottare-almeno questa è la più ragionevole ipotesi che si possa fare-siffatta soluzione, sia che essi la desiderassero oppure no; e c’è chi possa affermare che uomini forniti di tanto potere sarebbero scelti fra persone aborrenti dall’esercizio del potere oltre le esigenze precise della situazione? D’altro canto, sia la teoria come l’esperienza corrente legittimano i più fieri dubbi sulla possibilità che il gruppo di uomini posti al timone di una economia collettivistica faccia mai uno sforzo serio per trovare ai problemi socio-economici soluzioni del tipo supposto ovvio dal prof. Pigou e dagli altri liberali. Teoria ed esperienza fanno credere piuttosto che i “capi” allo scopo di mantenere l’unità sociale e il loro proprio potere porrebbero come meta la coltivazione di qualche specie di mentalità di gruppo, il che vuol dire mentalità di folla e cercherebbero di conseguir l’intento coll’ovvio metodo di dirigere la attenzione pubblica verso qualche avventura romantica, presumibilmente una qualche “crociata” contro “nemici” interni o forestieri”. (ivi, pp. 242-43).
“L’opinione che il collettivismo significhi tirannia è corretta fuor di ogni possibile ragionevole dubbio. I capi di uno stato collettivistico dovrebbero avere un potere illimitato e dovrebbero essere sicuri di conservarlo. Essi dovrebbero esercitare duramente gli ordini dati e sopprimere ogni disputa ed ogni argomentazione intorno alle politiche da seguire. Se vorranno conseguire un minimo di risultati, essi dovranno altresì fare il possibile per rimuovere ogni occasione a divergenze di opinioni, dando al popolo colla “propaganda” le appropriate “informazioni” ed i giusti suggerimenti di condotta. Essi dovrebbero far ciò sia che lo vogliano oppure no; e vi è tanta probabilità che al potere vadano uomini disamorati del possesso e dell’esercizio del potere quanta che ad un uomo di cuore tenero venga affidato il compito di aguzzino in una piantagione di schiavi. Tutto ciò non può essere dimostrato in modo chiaro e logico; ma l’essere in gran parte materia opinabile, [non vieta] che sia un modo di vedere ragionevolmente fondato” (in “Lippmann’s The good society”, in “The Journal of Political Economy”, dicembre 1938, p. 868).
11.-Il mio corrispondente ed il prof. Frank H. Knight non spiegano il loro scetticismo intorno alla probabilità che il ministro ecc. ecc. ponga come fine della propria azione il massimo di utilità economica della collettività; anzi il secondo riconosce che la sua opinione non è dimostrabile logicamente.
In fondo, se si leggono con attenzione i brani citati di Cabiati, si vede che anch’egli non afferma che lo schema o premessa (delta), da cui egli parte, della massima felicitazione collettiva risponda alla realtà. Le frasi che egli assai correttamente usa: “Sarebbe un regresso e non un progresso se fosse altrimenti; è inconcepibile che gli uomini volendo compiere quello che essi, a torto od a ragione, considerano un passo avanti, si propongano di abolire ogni discussione e quella scarsa libertà di scelta del lavoro e dei consumi di cui essi godono in regime cosidetto capitalistico; e del resto nessuno dei profeti del socialismo, Marx alla testa, ha mai pensato che i governanti potessero agire così da ridurre in schiavitù la popolazione (cfr. sopra par. 8)” dimostrano che egli vuole porre il problema nella maniera più consona alle premesse teoriche dei propugnatori del collettivismo.
Tutto ciò è logico in punto di teoria e di aspirazioni sociali. Ma quante volte nella storia si videro regressi, e con le formule (Mosca) od i miti (Pareto) più diversamente umanitari si instaurarono regimi regressivi! Posto tra l’incudine ed il martello, fra il teorico e lo scettico, l’economista deve dunque ridursi ad un mero organo di registrazione di tutte le più strane “premesse” piaccia allo storico, al politico, al moralista, al sociologo di porre, ed obbligarlo a ragionare, sia pure con logica perfetta, da ognuna di quelle premesse? Non foss’altro per evitare inutili perditempo, pare necessaria una scelta tra le tante premesse possibili.
12.-Un altro mio corrispondente, il dott. Mario Lamberti, di cui avevo, a proposito del problema più ampio dell’indole e della portata della scienza economica, richiamato l’attenzione sul punto che qui si discute, ricerca il criterio della scelta nell’attitudine della premessa ad interpretare la realtà. Se il ragionare rigorosamente della premessa posta è, per fermo, esigenza imprescindibile della ricerca scientifica, non tutte le premesse sono però scientificamente vantaggiose. Se vogliamo compiere solo esercitazioni logiche, “qualunque” premessa è accettabile. Se vogliamo giovare alla conoscenza della realtà, dobbiamo assumere, sia pure semplificandole, le premesse dalla realtà:
“Insistendo sul carattere politico della scienza economica non si pensa menomamente a far retrocedere la scienza ai suoi stadi primitivi ed imperfetti e a rinunciare alla serietà e rigorosità del ragionare da determinate premesse, ben decisi ad impedire che, per ragioni di politica contingente, i profittatori cambino le carte in tavola.
“Non di questo si tratta, ma dell’insistere sul carattere storico della scienza che tratta dell’agire umano in un campo che è parte integrante della politica, non solo nelle ideologie, ma nella realtà effettuale. “È su questa storicità della scienza che bisogna insistere; storicità che è relativa al punto di vista dello studioso (ad es., per intendere rettamente i ‘mercantilisti’, bisogna ricordare quello che essi erano: cameralisti), per lo meno quanto è relativa al mutarsi della materia di cui si tratta. Se i miei problemi per interpretare la realtà storica ‘capitalistica’, ad es., sono diversi da quelli di Say, perché devo accontentarmi degli schemi di Say?
“Naturalmente i miei problemi, se sono veramente tali-e non vane immaginazioni-mi verranno non dal caso, ma dalla realtà storica che mi circonda, sia che questa realtà io voglia interpretare o intenda invece indagare intorno alla realtà passata. Se poi tra le due c’è un forte elemento in comune, come necessariamente vi è, questo sta a spiegare la continuità della scienza e ad ammonirci di non fare improvvisazioni su di una realtà umana che fondamentalmente non muta e di studiare i grandi del passato (Say ad es.), da cui abbiamo ancora infinitamente da imparare. “Paiono [alla luce delle considerazioni fatte dianzi] poco concludenti-se pure corrette-le conclusioni di Pareto, Barone e Cabiati. A me paiono così corrette da essere vuote, perché trasportano ad una economia collettivistica premesse che hanno luogo solo in una economia liberistica.
“È assurdo pensare che ci si prenda la briga di collettivizzare l’intiera economia per poi lasciare piena libertà di scelta al consumatore. Naturalmente se si portano in una economia collettivistica le premesse d’una economia liberistica, la formazione dei prezzi sarà uguale nelle due economie, schematizzata scientificamente quella liberista, ma irreale l’altra, se basata su quelle premesse.
“In un mondo in cui è tolta ai singoli persino quella libertà di salire in cielo a proprio modo che Federico Secondo lasciava ai proprii sudditi, il compito più importante del ministro della produzione è proprio quello di togliere la libertà di scelta ai consumatori, non per sostituirvi l’ideale della massima felicità collettiva, ma quel tale ideale di potenza collettiva o di dominio di classe che sarà tra gli scopi che verranno indicati al dittatore economico.
“A me pare che in questo caso il compito della scienza consista nello studiare il rapporto che c’è tra gli scopi che si prefigge il ministro della produzione e i mezzi che usa e di indagare sulle ripercussioni che inevitabilmente si hanno sui varii aspetti dell’economia.
“A [taluni teorici dell’economia] si potrebbe rivolgere con maggior ragione il rimprovero che Senior rivolge a Ricardo (che meno lo merita): di partire da ipotesi irreali (come se ne ha pieno diritto), ma di dimenticare poi che le ipotesi erano irreali e senz’altro volerne applicare le deduzioni alla realtà.
“In questa irrealità delle ipotesi sta – mi pare – il pericolo più grosso che possa correre la scienza, che diventa, così, noiosa per chi la coltiva ed assurda per i profani. Così è della pretesa necessità di un saggio di interesse per determinare il risparmio in una economia collettivistica (Mises). Come se il ‘buon piacere’ del re – o quindi un buon sistema contabile – non servisse altrettanto bene (nei limiti delle ipotesi lecite quando si parla di economia collettivizzata). Il problema della economia collettivizzata si ritrova piuttosto negli errori necessari in cui un ministro della produzione deve di volta in volta cadere una volta che la legge degli sbocchi è sospesa.
“Insomma perché volere che la realtà corrisponda ai nostri ideali, e rigettarla se non tiene conto di questi ideali?” (lettera del 18 agosto 1940).
L’”attrito” che Cabiati considera un fatto di seconda approssimazione dal quale in “teoria pura” si può fare astrazione, assurge col Lamberti alla dignità di “errore necessario”. Inutile e noioso, egli osserva, partire da premesse che si sa non si verificheranno mai. Per qualunque tipo di organizzazione economica, liberistica o socialistica o altra, importa partire da premesse le quali siano astrazioni della realtà e non da sogni. Naturalmente, la “realtà”, della quale si parla, deve essere la realtà permanente costante, quasi si direbbe eterna e non la realtà effimera dell’attimo fuggente:
“A riconferma del carattere di eternità che ha la scienza accanto alla sua storicità, ossia del suo basarsi su qualcosa di fondamentalmente umano, come sono i bisogni degli uomini, la limitazione dei mezzi, la necessità del lavoro, la soddisfazione individuale decrescente ecc., vale quanto dice il Viner (‘Short and long View in Economic Policy’, nel quaderno del marzo 1940 della ‘The American Economic Review’); ossia esser d’uopo indagare le forze e le tendenze essenziali dell’economia se si vuole venire in chiaro su quei due o tre sistemi principali da cui si traggono tutti gli altri.
“Questo d’altronde è già stato fatto dai classici, come dice Viner, ed è conosciuto sotto il nome di teoria del valore. Non è senza significato che all’importanza sempre maggiore data alle considerarioni a breve scadenza (short run) abbia corrisposto una scomparsa di fatto della teoria del valore. Capovolgendo una frase di Keynes, io direi che il torto degli economisti è stato non di aver trascurato Malthus per seguire il ‘wrong headed’ Ricardo, ma proprio quello di aver dimenticato la separazione, posta da Ricardo, tra prezzo di mercato e valore normale, per limitarsi ad una teoria dei prezzi, necessariamente imperfetta e short run.
“Mentre è solo sulle basi di una teoria del valore che prendono giusta importanza le considerazioni short run, quali teorie dei periodi di transizione, di quegli ‘attriti’ o turbamenti provvisori (frictions) che la teoria generica del valore ignora, mentre sono fondamentali, poiché, come ha detto, credo, Keynes, a ragione questa volta: nel long run, a lungo andare siamo tutti morti. “Né si tratta solo di ‘approssimazioni successive’ ma di qualcosa di più fondamentale. La presenza ii dazi (gli uomini avranno sempre bisogno di sentirsi ‘protetti’), di leghe operaie o trade-unions (sotto un nome o sotto l’altro), di interventi dello stato, di impulsi psicologici fa sorgere fenomeni caratteristici ad un dato tipo di economia-la disoccupazione ad es.-che bisogna studiare e non ignorare col limitarsi a dire che se ci fosse liberismo assoluto non esisterebbero. Una teoria economica, che parte da una teoria del valore per tendere ai fenomeni del giorno e viceversa, non è semplice empiria, per ‘risolvere con empiastri i problemi del giorno’ e neppure una ‘economia’ puramente astratta ed in gran parte inutile, ma una ‘economia politica’ insieme eterna e contingente, poiché essa non è altro che uno schema di ricostruzione ed interpretazione storica” (dalla lettera citata del 18 agosto 1940).
13.-Anche l’altro mio corrispondente Spectator, insiste, per via indipendente, sulla necessità di derivare-nel tentativo di rispondere alla domanda: è possibile un mercato e come in tal mercato si formerebbero i prezzi in regime collettivistico?-la premessa del ragionamento dall’osservazione del modo ordinario dell’agire economico degli uomini:
“Nel caso del regime collettivistico, come per qualsiasi altro regime, possiamo prendere per oggetto della nostra analisi il modo di comportamento degli individui appartenenti alla classe governante o il modo di comportamento degli individui appartenenti alla classe governata. Anche questi infatti, farebbero sempre i loro calcoli ed i loro piani economici. Non credo però che ci sia niente da aggiungere alla teoria generale guardando alla attività economica dei sudditi. Molto più interessante è lo studio dell’attività dei dirigenti per riconoscere quali sarebbero le loro posizioni di equilibrio ed in quale rapporto tali posizioni starebbero col benessere della collettività.
“Questo studio può essere fatto partendo da diverse ipotesi, tutte consentanee al principio della proprietà collettiva degli strumenti di produzione e della ripartizione ugualitaria del reddito sociale, facendo variare il campo delle libere scelte spettanti all’individuo” (lettera citata del 31 agosto 1940).
Facendo uno strappo alla regola impostami nella presente nota di non discutere la sostanza del problema, ma solo il metodo da tenersi nel discutere, riproduco le soluzioni date da Spectator in rapporto alle diverse ipotesi da lui formulate. Ho intitolato alfa, beta e gamma le tre ipotesi di Spectator per distinguerle dalla ipotesi delta, che è quella posta, in teoria pura, a base dei ragionamenti di Pareto, Barone e Cabiati (cfr. sopra par. 9). Si passa dall’ipotesi alfa, nella quale è negata ogni libertà, si intende legale, di scelta a lavoratori e consumatori, a quella beta nella quale ad essi si concede una limitata libertà di scelta; a quella gamma nella quale la libertà di scelta è piena, ma essendo posti dal legislatore i fini, questi può prelevare, a prò dei governanti, una proporzione arbitraria della ricchezza prodotta, per finire all’ipotesi delta, nella quale esiste identificazione compiuta fra governati e governanti. Come la ipotesi delta si avvicina allo schema devitiano dello “stato cooperativo”, così lo schema devitiano dello “stato feudale od assoluto” si avvicina alla ipotesi gamma, colla aggiunta in De Viti della condizione di un massimo di prelievo a prò del gruppo governante.
Ipotesi alfa: i lavoratori ed i consumatori non hanno libertà di scelta: La classe governante distribuisca le risorse produttive-lavoro compreso-fra i diversi rami della produzione, e ripartisca i beni di consumo ai membri della collettività volendo raggiungere i maggiori possibili risultati rispetto a particolari fini che essa per suo conto si propone senza richiedere in alcun modo il consenso della classe governata. Esempio caratteristico di questo tipo è la società gesuitica nel Paraguay del diciassettesimo secolo.
Le posizioni di equilibrio della economia collettiva in tale ipotesi-se per semplificare ci prospettiamo la volontà della classe governante come se fosse la volontà di una unica persona-corrisponderebbero a quelle che già conosciamo per l’economia dell’individuo isolato. La classe governante, anche senza alcuna simpatia e benevolenza per la classe governata, desiderando aumentare al massimo la efficienza del lavoro coatto, dovrebbe prendersi cura del benessere materiale dei sudditi, come fa il contadino intelligente per gli animali che tiene nella stalla. La coincidenza fra gli interessi della classe governante e gli interessi della classe governata sarebbe molto più frequente di quella che risulterebbe se gli appartenenti alla prima classe potessero impunemente trascurare il fatto che gli appartenenti alla seconda-anche ridotti in condizione di schiavitù-sarebbero pur sempre centri autonomi di volontà, avrebbero, cioè, essi pure loro fini. La resistenza ed il malvolere degli esecutori renderebbe più onerosa qualsiasi operazione che la classe governante volesse far compiere, sicché essa avrebbe convenienza a contentare, fino ad un certo punto, i sudditi, per ridurre il costo della sorveglianza e delle pene. (Anche nella società romana il padrone trovava spesso conveniente concedere allo schiavo una partecipazione ai prodotti del fondo che gli affidava da coltivare, e garantire allo schiavo il peculium come quota dei guadagni che riusciva ad accumulare con la sua attività professionale).
Va però ben messo in rilievo che i problemi economici collettivi-in questa prima ipotesi-non si presenterebbero negli stessi termini con i quali si presentano i problemi finanziari in regime capitalistico. In tale regime, infatti, ogni decisione, che presumibilmente abbia una certa ripercussione sul bilancio statale, viene presa confrontando i risultati raggiungibili ai costi che bisognerebbe sopportare, sulla base del sistema dei prezzi risultante dalle libere contrattazioni nel settore lasciato all’attività privata. Questo confronto viene fatto in modo più o meno grossolano anche quando i beni che lo stato domanda (ad es. servizio militare) o fornisce (ad es. il servizio di pubblica sicurezza) non si trovano nella cerchia dello scambio. Perfino in tali casi i prezzi di mercato consentono di fare per analogia delle valutazioni approssimative in moneta. Se non si riuscisse a ridurre in tale modo ad un denominatore comune monetario la stima delle cose esistenti e di quelle non esistenti nella cerchia dello scambio, la maggior parte delle spese pubbliche verrebbe fatta completamente a casaccio. Si dedicherebbero indifferentemente, mettiamo, dieci miliardi di nuove imposte alla costruzione di strade di grande traffico che aumenterebbero notevolmente la produttività del lavoro nazionale, o ad impiantare un sistema di riscaldamento delle strade delle metropoli durante l’inverno. Il calcolo finanziario tiene come punto di riferimento i prezzi dei prodotti e dei servigi attuali sul mercato: fra i quali prezzi importantissimo è quello dell’uso del capitale. Un ribasso dei prezzi dei generi di prima necessità ed un rialzo delle rimunerazioni per i servigi personali, che corrisponda ad un miglioramento del tenore di vita generale della popolazione, può rendere conveniente una spesa pubblica di abbellimento o di prestigio che prima sembrava superflua. L’aumento del saggio di interesse dal 5 al 7 per cento può far apparire come uno spreco un’opera di bonifica anche a chi ne sosteneva la opportunità indipendentemente dal rendimento, con ragioni analoghe a quelle del Serpieri.
Ma la sostituzione dell’attività finanziaria dello stato all’attività economica degli individui altera tutto il sistema vigente dei prezzi. Fintanto che l’intervento dello stato ha una importanza relativamente secondaria il calcolo finanziario trova, nel sistema vigente dei prezzi, una base abbastanza salda per essere impostato in modo razionale. Ma quanto più si amplia la sfera dell’attività statale a scapito di quella dell’attività privata e tanto meno tale sistema può servire di riferimento. Al limite, nell’economia collettivistica ora ipotizzata, manca completamente la bussola per la scelta razionale della strada da prendere.
Mancando il riferimento dei prezzi di mercato la classe governante-sempre nella società collettivistica della prima ipotesi-potrebbe trovare in altri indici un criterio adeguato per scegliere razionalmente dove le converrebbe andare e quali strade preferire fra le diverse strade possibili? Il riferimento alle ore di lavoro-che molti continuano a proporre-sarebbe un criterio niente affatto soddisfacente. Anche se fosse possibile determinare in modo non arbitrario i coefficenti per tradurre in quantità omogenee le diverse qualità di lavoro, sarebbe assurdo che tenesse conto del solo fattore lavoro e non degli altri fattori, disponibili pure in quantità limitata, rispetto ai fini che la classe governante desidererebbe raggiungere. Tenendo conto del solo fattore lavoro, dovrebbe, ad es., far costruire case ad un solo piano anche nel centro d’affari delle città, se le case a più piani richiedessero una qualsiasi maggiore quantità di lavoro per la costruzione edile e per la produzione del materiale e degli strumenti necessari; e dovrebbe preferire un sistema di coltivazione A ad un altro B, quando tutti e due dessero la medesima quantità di prodotto, se il primo richiedesse l’1 per cento di unità di lavoro in meno del secondo, anche se-per ottenere quella medesima quantità di prodotto-occorresse con A il 99 per cento in più che con B di terreno di uguale fertilità.
Inoltre, finché restasse indeterminato il saggio dell’interesse, non sarebbe possibile valutare l’importanza dell’elemento tempo per stabilire se convenga costruire gli impianti ed i beni di consumo a utilità ripetuta di maggiore o minore durata, se convenga o ritardare o accelerare il ritmo di sfruttamento delle fonti esauribili e non riproducibili di ricchezza (cave, miniere, pozzi di petrolio); se convenga ridurre o allungare il periodo entro cui dovrebbe essere compiuto un processo produttivo, ecc. ecc. Ipotesi beta: i lavoratori ed i consumatori hanno una limitata libertà di scelta: La classe governante-anche solo per ridurre il costo della sorveglianza ed aumentare l’efficienza della mano d’opera, potrebbe andare incontro, entro certi limiti, ai desideri espressi dai membri della classe governata:
- a) in quanto lavoratori, facendo funzionare un sistema di concorrenza per distribuire la popolazione tra le diverse occupazioni. A seconda che il numero dei concorrenti in una occupazione risultasse troppo grande o troppo piccolo, rispetto alle necessità del piano che volesse far eseguire, potrebbe aumentare e ridurre il numero delle ore di lavoro corrispondenti ad una uguale remunerazione giornaliera. Così otterrebbe anche automaticamente i coefficienti-a cui sopra ho accennato-per tradurre in quantità omogenee le diverse qualità di lavoro (1 ora di lavoro degli operai della cat. A = 2 ore di lavoro degli operai della cat. B = 2 ore e mezzo di lavoro degli operai della cat. C ecc.);
- b) in quanto consumatori, facendo funzionare un sistema di concorrenza per distribuire i beni diretti che essa volesse far consumare, secondo il suo piano. Questo la classe governante potrebbe fare:
- 1) distribuendo una razione di tutti i beni diretti a ciascun consumatore con criteri ugualitari, corrispondenti a categorie definite da circostanze oggettive (sesso, età, condizioni di salute, luogo di residenza) e contemporaneamente organizzando un mercato, in cui ognuno potesse cedere ad altri quello che ritenesse di avere in relativa abbondanza, per avere in cambio quello di cui più sentisse la relativa deficienza, tendendo alla eguaglianza delle utilità marginali ponderate, in rapporto ai prezzi che risulterebbero automaticamente;
- 2) oppure dando ai consumatori di ciascuna categoria, definita come sopra, un uguale reddito in moneta da distribuire a loro piacimento nei diversi acquisti, facendo variare continuamente i prezzi in modo da far corrispondere la domanda complessiva al flusso dei beni che volesse far consumare. (Con l’aumento o la diminuzione delle riserve potrebbe coprire le differenze temporanee positive o negative della domanda rispetto al flusso dei diversi beni). Per impedire che si formassero nuovamente grandi differenze fra le fortune individuali basterebbe che la moneta fosse di carta con una validità predeterminata ad un breve periodo, in modo che la somma spesa nei consumi durante quel periodo dovesse essere uguale alla somma complessiva dei redditi distribuiti.
Ipotesi gamma: i consumatori hanno libertà di scelta entro i limiti dei fini posti dai dirigenti: La classe governante potrebbe aumentare ancor più la sfera delle libere scelte dei consumatori regolando il flusso della produzione in corrispondenza alla intensità relativa della loro domanda espressa dal sistema dei prezzi, nella ipotesi beta (b, 1); dovrebbe, per questo, aumentare la produzione delle merci il cui prezzo risultasse superiore al costo, o diminuire la produzione delle merci il cui prezzo risultasse inferiore al costo.
Tale ipotesi non corrisponderebbe necessariamente ad un completo disinteresse da parte della classe governante. Anzi la classe governante potrebbe trovare che tale sistema riuscirebbe il più conveniente per il raggiungimento dei suoi fini, giacché nel costo dei varii prodotti potrebbe comprendere una remunerazione, anche altissima, a proprio beneficio.
In questa terza ipotesi-che è per noi la più interessante-non sono affatto convinto dalle dimostrazioni del Pareto e del Barone che si arriverebbe deliberatamente alle stesse soluzioni a cui arriva in modo automatico il mercato in condizioni di libera concorrenza.
L’ordinamento che si è andato teoricamente precisando in questi ultimi anni, di una società in cui tutti gli strumenti di produzione sarebbero collettivizzati e concessi in uso a grandi trusts che dovrebbero farsi concorrenza fra loro sia per l’acquisto che per la vendita, come se fossero aziende private, e curare il pareggio del proprio bilancio, mi sembra non possa darci gli elementi necessari per la determinazione dei costi. Infatti:
- a) il flusso del risparmio collettivo non sarebbe più una resultante delle posizioni di equilibrio nelle economie individuali, ma dipenderebbe dalla decisione della classe governante. Risulterebbe cioè arbitraria la determinazione del saggio di interesse e quindi la valutazione dell’importanza del tempo nella produzione con le conseguenze già sopra accennate;
- b) rimarrebbe indeterminato il costo di tutti i fattori di produzione che non potrebbero essere utilizzati altro che in un ramo di industria (secondo la classificazione comunque data dalle autorità centrali) perché non sarebbe possibile fare in tali casi funzionare la concorrenza fittizia;
- c) se i trusts non potessero tentare le diverse organizzazioni possibili, cessando quando volessero di produrre alcuni beni per iniziare la produzione di altri-e non riesco a concepire come una tale libertà potrebbe essere loro concessa nell’ordinamento ipotetizzato-non sarebbe possibile determinare il costo di molti beni, nei casi di produzione congiunta nell’interno del medesimo trust.
È compito-a me sembra-dell’economista di indicare questi e gli altri eventuali fattori la cui valutazione non risulterebbe automaticamente dal gioco delle forze esistenti sul mercato, e di studiare le prevedibili conseguenze di tali indeterminatezze.
In particolare andrebbe messo ben in chiaro che il trapasso al regime collettivistico farebbe perdere ogni significato indicatore al sistema dei prezzi vigente nel regime capitalistico anteriore, e come sarebbe assurdo, dopo aver abolita la proprietà privata degli strumenti di produzione e la differenza fra i redditi individuali, copiare quello che continuerebbero a fare gli imprenditori degli altri paesi, in cui non fosse avvenuta una corrispondente modificazione dell’ordinamento economico. Il fatto che i dirigenti dell’U.R.S.S. abbiano cercato di trapiantare nel loro paese le forme di organizzazione, i macchinari ed i metodi di produzione che davano i migliori resultati in America è per me una dimostrazione sufficiente della completa irrazionalità dei loro piani. Essi, cioè, non devono aver tenuta presente la differenza che c’è fra i problemi tecnici e problemi economici.
Il riconoscimento di indeterminatezze nell’ordinamento della ipotesi gamma non significa che esso non possa stare in piedi; significa solo che esso manca di autonomia, non comprende tutti i dati necessari per arrivare alle successive posizioni di equilibrio; i dati mancanti potrebbero sempre essere posti da forze estranee al mercato (volontà politica della classe governante). Anche nel regime capitalistico attuale molti dati sono posti da forze estranee al mercato: basta pensare all’arbitrarietà del costo di produzione delle diverse capacità professionali risultanti dal tipo di ordinamento scolastico adottato; alle continue ridistribuzioni della ricchezza in conseguenza di successioni ereditarie; agli sconvolgimenti causati da svalutazioni monetarie, da riforme doganali, dalla imposizione di nuovi tributi, ecc, (dalla lettera citata del 31 agosto 1940).
14.-È compito dell’economista scegliere tra le tante ipotesi-premesse possibili quella più atta a rappresentare la realtà, epperciò meglio feconda di risultamenti scientifici? Se si trattasse di realtà note, di tipi di società storicamente ben conosciute, direi senz’altro, col Lamberti, di sì. Qui però trattasi di astrarre i lineamenti essenziali del modo di comportarsi degli uomini in società che sono assai imperfettamente conosciute, anche quando, come per l’unione sovietica, vivono oggi. L’economista potrà cominciare a ragionare, senza essere accusato di perditempo, solo quando lo storico, il sociologo, lo statistico gli forniranno dati probanti, bene assodati, che oggi non possediamo. Possediamo taluni bei lavori d’insieme sulle società collettivistiche antiche, come quelli del Cognetti De Martiis e del Pohlman, sulle “riduzioni” indiane dei gesuiti nel Paraguay (nel “Cristianesimo felice” di Ludovico Antonio Muratori), sugli sperimenti di utopia nel diciannovesimo secolo (ancora Cognetti De Martiis), sulla unione sovietica (dei coniugi Webb, dello Chamberlin, dell’Hoover ecc.); ma si esagererebbe affermando di possedere un materiale che basti a porre premesse precise e realistiche al ragionare economico. I meno adatti ad aiutarci sono, come nota l’Opie nel brano citato in principio delle presenti note, gli economisti russi.
L’Opie augura che essi giungano un giorno a porsi almeno il problema che affatica gli economisti tedeschi inglesi ed italiani. Sono più scettico di lui e temo che quel giorno abbia a tardare assai. Ragiono per analogia, paragonando i progressi magnifici compiuti dalla scienza economica nei due ultimi secoli con lo stato di infantilismo nel quale si trova la scienza delle finanze, che pure era nata prima della maggior consorella. Nonostante che, come Spectator giustamente osserva (cfr. par. 13, ipotesi alfa), i problemi finanziari possano oggi giovarsi, per la loro soluzione, della coesistenza di un sistema di prezzi risultante dalla libera contrattazione sui mercati privati, è sintomatica la circostanza che gli scrittori di finanza scrivono libri atti per lo più a rivoltare lo stomaco dei cultori della scienza economica. Le pagine più belle, anzi le sole teoricamente belle, dei libri di finanza di che cosa invero trattano? Forse dei prezzi pubblici, delle tasse, dei contributi, delle imposte? Ohibò! Queste sono quasi esclusivamente pagine descrittive, di ordinamenti esistenti in questo o quel paese o generalizzazioni di quegli ordinamenti.
Si respira solo quando, descritta e definita, ad esempio, un’imposta, lo studioso ne indaga gli effetti nelle varie specie di pressione, percussione, traslazione ed incidenza, ossia quando egli si pone un problema di prezzi, di beni e servigi, che mutano in conseguenza di quell’imposta. Allora, sì, costui può dar prova di virtuosità e di ingegno. Ma sull’imposta in se stessa, che cosa si può esporre, all’infuori, si intende, della sua ricostruzione storica e giuridica, che sono, se ben fatte, degnissime indagini, se non più o meno interessanti disquisizioni intorno alla “giustizia” od alla “ingiustizia” di essa, alla sua correlazione con certi o certi altri sentimenti sociali politici morali religiosi patriottici classisti, con certi o certi altri tipi di illusione, che la fanno parere a pochi, a molti, a tutti approvabile o contennenda? Poiché l’economista è poco adatto alla descrizione di codesti sentimenti, non è meraviglia che egli si senta la bocca amara. Se egli analizza la ragione del suo scarso contentamento, giunge da ultimo alla conclusione che l’imposta non è uno dei soliti prezzi, in cui al consumatore è lasciata facoltà di fissare la quantità del bene o servigio acquistato, se il venditore fissa il prezzo o viceversa di fissare il prezzo, se il venditore determina la quantità. No. L’imposta si paga precisamente in uno di quei casi nei quali, contrariamente alla regola solita, lo stato è padrone dei prezzi e della quantità, nei quali esso prescrive “ai sudditi cosa e quanto essi devono consumare e comperare nell’unità di tempo” (vedi sopra il citato brano di Cabiati al par. 8). Dove domina la volontà del legislatore, il sociologo, lo storico, lo psicologo potrà indagare le ragioni di quella volontà e l’economista indagherà le conseguenze della manifestazione di quella volontà. Lo può fare; e Pantaleoni, Seligman, Edgeworth, Wicksell, De Viti hanno fornito insigni contributi a quelle indagini, perché, fuori dell’imposta, nel mondo civile nostro esistono ancora prezzi di beni, prezzi di servizi (salari e stipendi), prezzi di capitali (saggi di interesse e rendite) che si muovono, che sono tra loro in equilibrio e che risentono tutti insieme ed a vicenda l’urto del bolide chiamato “imposta”, il quale cade sul lago, ad ipotesi tranquillo, di una situazione economica in equilibrio. Se ben si riflette, questa è la sola indagine di carattere economico che gli economisti fanno nel capitolo-ed è il più grosso capitolo-della scienza delle finanze dedicato all’imposta. Ma fate che si avveri l’ipotesi alfa di Spectator, fate che lo stato collettivistico, conducendo sino al limite l’evoluzione-della quale il De Viti mette così bene in luce le caratteristiche di necessità imposta dalla convenienza economica-dal pedaggio privato per il ponte costrutto ad iniziativa privata (prezzo di concorrenza o di monopolio o di concorrenza imperfetta) al pedaggio pubblico, con pagamento dell’intero costo (prezzo pubblico) o di parte del costo, specie delle spese vive o specifiche (tassa, vedi sopra il caso di Pareto al par. 6), alla gratuità completa per l’utente-consumatore (imposta), arrivi all’imposta totale.
Fate cioè che lo stato sia e si dichiari padrone dei prezzi e delle quantità di tutti i beni e di tutti i servigi prodotti e consumati dalla collettività nazionale. È un’ipotesi spaventevole, di cui la Russia sovietica, già così orrenda, è una pallida anticipazione; ma non è ipotesi assurda teoricamente ed impossibile storicamente. In quella ipotesi esisterà ancora una scienza economica? La chiameremo “economica”, ovvero “scienza delle finanze”, ovvero “economia politica”, coll’accento sul “politica”? La questione è di parole, osserva il dott. Lamberti:
“Il quesito sulla applicabilità della scienza delle finanze come ‘teoria dell’imposta’ ad una economia collettivistica si presta alla domanda: è possibile costruire una teoria dell’imposta, così estesa, senza basarla a sua volta sulla teoria del valore? Se si riconosce che una teoria del valore è pur sempre necessaria, allora non si tratterrebbe che di un mutamento di nome, significativo e forse anche utile sotto un certo aspetto, ma non di sostanza.
“Io ritengo per mio conto che una economia politica, sotto un qualsiasi nome, esisterà sino a che gli uomini non perderanno l’interesse scientifico e quindi ‘razionale’ nelle cose politiche, nello stesso modo che la scienza economica è sorta col sorgere di questo interesse”. (lettera citata del 18 agosto 1940).
Poiché è invalso tradizionalmente l’uso di dare il nome di “scienza delle finanze” ai capitoli della scienza economica in cui si tratta di imposte, propenderei a seguitare nell’uso di quel titolo se si verificasse l’ipotesi, sentimentalmente per me deprecanda, di uno stato collettivista, il quale distribuisse “tutti” i beni e servizi a mezzo dell’imposta. Sul problema, irrilevante, di nomenclatura si innesta un problema serio di sostanza. A che cosa sarebbe ridotta, in quella ipotesi, la scienza, comunque la si chiami, delle finanze o della economia “politica” o della politica economica? A quella dell’allevamento di animali da stalla, che il contadino intelligente cura e sceglie ed incrocia allo scopo di ottenere il massimo reddito.
Talora gli uomini, così allevati, furono felici. Gli indiani guarany del Paraguay si rivoltarono, indignati ma invano, contro gli emissari dei governi portoghese e spagnolo quando questi, in ubbidienza alle leggi eversive dell’ordine, espulsero i buoni padri gesuiti, i quali nelle “riduzioni” li educavano, governavano, portavano al lavoro, provvedevano di vivanda bevanda vestito casa divertimenti. La moneta ed i prezzi erano sconosciuti, e la quantità di beni e servizi distribuiti ai singoli erano fissati dai “padri”. Il pio cronista candidamente narra fino a che punto la vita degli indiani fosse regolata:
“Ut audivissem horis diversis noctu tympanum pulsari, et precipue ad auroram exorientem, inquisivi quorsum hic sonitus? Dixerunt mihi semper consuetum esse totam gentem suscitare secundum quietem: huius usus originem cognoscere volens, responderunt propter notam indolem desidiosam Indiorum, qui, labore quotidiano defessi, initi sunt lectum et dormiti totam noctem; hoc modo officiis conjugalibus non functis, Jesuitae mandaverunt ut nonnullis horis noctu tympanum pulsatum esse, in hunc modum incitare maritos”. (Doblas in Stegman and Hugo, “Handbuch des Sozialismus”, p. 598).
Forse gli uomini bianchi non si acqueterebbero a così paterno regime; e l’economista avrebbe il compito specifico di studiare le reazioni della condotta degli “allievi” ai diversi tipi di condotta degli “allevatori”. Uomini dotati di passione per la indagine scientifica si dedicherebbero in quella ipotesi alla scienza economica, con la stessa passione con la quale gli economisti d’oggi analizzano la condotta degli uomini nelle ipotesi di piena concorrenza, di monopolio puro, di concorrenza imperfetta o monopolistica? Non oso rispondere alla domanda, perché le profezie sono sempre cervellotiche, e perché è antipatico profetare a proposito di un’ipotesi che, a torto od a ragione, spero non si avveri. Sentimentalmente, direi che gli economisti dovrebbero appassionarsi sovratutto allo studio di quei tipi di reazione economica che fossero atti a restituire agli “allievi” di stalla e di bassa corte, sia pure cresciuti “scientificamente” e portati ad un alto livello di produttività tecnica-non è questo l’ideale della civiltà materialistica sovietica?-la dignità spirituale di “uomini”.
15.-Credo-sebbene al pari dello Knight (cfr. sopra par. 10) riconosca trattarsi di “opinione” non dimostrabile in modo logico e non facile a dimostrare sulla base dell’esperienza storica-che il regime collettivistico (o socialistico o comunistico, che sono varianti verbali del medesimo concetto) tenda, per ragioni connaturate al suo funzionamento, verso il limite della ipotesi alfa (cfr. sopra par. 13), ossia verso la negazione di ogni libertà legale di scelta del lavoro per i lavoratori e dei consumi per i consumatori: lavori forzati cioè e distribuzione coattiva dei beni e dei servigi prodotti a mezzo dell’imposta. Credo che, se anche il regime riuscisse in tal modo a raggiungere un massimo (?) di beni e servigi prodotti e questi fossero ripartiti con un criterio ritenuto dalla maggioranza dei viventi soddisfacentemente ugualitario, la società per tal modo costrutta sarebbe qualcosa tra il limbo e l’inferno. Non sono affatto persuaso che queste “credenze”, sia pure dettate a primo tratto da mero “sentimento”, non siano oggetto di ricerca scientifica altrettanto rispettabile come la fisica o la chimica o la economica pura; ma non voglio iniziare una discussione che qui sarebbe un fuor d’opera. Mi basti aggiungere che la probabile insofferenza degli economisti in quella ipotesi malaugurata per lo studio della economia degli “allevatori” e degli “allievi” negli stabilimenti di fabbricazione e selezione dei “perfetti” produttori e consumatori e la loro predilezione probabile, sempre in quella malaugurata ipotesi, per lo studio dei fattori di disgregazione di quel tipo di società, renderebbero testimonianza di un’altra verità, anch’essa sentita e non dimostrabile in pura logica: la scienza economica non può limitarsi al suo compito specifico, che è quello dello studio della ottima ripartizione, tra i fini postulati, dei mezzi limitati posti a disposizione degli uomini, ma è forzata irresistibilmente a porsi il problema dei fini. Vi sono certi “fini”, ad esempio quelli di una società collettivistica condotta al suo limite fatale (ipotesi alfa del par. 13), i quali probabilmente spegnerebbero l’interesse dell’economista ad attendere al suo proprio specifico compito o lo lascierebbero sopravvivere a mala pena in studiosi privi di ala innovatrice. Dati quei fini, non nascono i Cantillon, i Galiani, gli Smith, i Ricardo, i Ferrara, i Cournot, i Walras, i Pareto, e la scienza economica, pur continuando a vivere, rischia di diventare cosa insipida. Anche questa verità non è agevolmente dimostrabile; ma non è perciò meno atta a divenire oggetto di indagine scientifica.
[1] Le interpolazioni fra parentesi quadre che si leggono nei brani riprodotti nella presente nota sono dello scrivente.