Il centenario di una cassa di risparmio
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/12/1941
Il centenario di una cassa di risparmio
«Rivista di storia economica», VI, n. 4, dicembre 1941, pp. 255-258.
Il primo secolo di vita della Cassa di Risparmio di Ravenna, 1840-1940. Ed. La Cassa di Risparmio, Ravenna, 1941. Un vol. in quarto grande di pp. 341 – 7 c. s. n. e 76 tavole fuori testo. S. i. p.
Ottima usanza di parecchi enti economici italiani è di pubblicare, ad occasione dei loro cinquantenari e centenari, un volume in ricordo dell’opera compiuta in passato. Ubbidisce in modo degnissimo all’usanza degna la Cassa di risparmio di Ravenna oggi presieduta da Amedeo Farini e diretta da Pietro Sassi, i quali hanno dato il carico dell’impresa al vice – direttore Mario Scapinelli, coadiuvato da valenti collaboratori. Ne è venuto fuori un bel volume, ben stampato, adorno di belle tavole, forse poco maneggevole, ma in compenso ricchissimo di informazioni, di dati, di riflessioni. La narrazione va in una prima parte dalla fondazione (1840) all’unità nazionale (1869), in una seconda dal 1870 al 1919, in una terza dal 1920 al 1939. Per ogni periodo è prima studiato l’ambiente politico ed economico, particolarmente locale, e poi sono discusse le vicende dell’istituto. Furono, tra i cento, scelti gli anni che mi parvero significativi, sia per il passaggio a più alto livello dei depositi, sia per il retrocedere a minimi temporanei, sia per la mutazione dei metodi di investimento. L’incremento nei depositi si interrompe per le contingenze politiche e belliche nel 1849, nel 1859, nel 1867 e nel 1915, ed a cagione di crisi economiche nel 1898 e nel 1935. Ma riprende subito, sino alla grande guerra. Dopo, il quadro si oscura e non è possibile trarre dalle cifre illazioni sicure. Se paragoniamo i 141,6 milioni del 1939 ai 17,3 del 1913 abbiamo un coefficiente moltiplico di 8,2, che è superiore al coefficiente legale (6,2) di moltiplico della unità monetaria. Il criterio di paragone è però il 6,2 ovvero quell’altro numero che esprimerebbe la diversa potenza di acquisto in beni economici della unità monetaria nei due momenti? e questo numero è superiore od inferiore a 6,2? Come fare il paragone tra il 1922 ed il 1939? Nel 1922 il cambio della lira sul dollaro antico fu in media di 1 a 21,19, il che vuol dire 1 a 12,52 sul dollaro attuale. Nei 1939 il cambio ufficiale sul dollaro attuale era da 1 a 19, il che stabilisce un coefficiente di moltiplico di 1,51 tra la lira del 1922 e quella del 1939. I 32,9 milioni di depositi di fine 1922 equivarrebbero perciò a 49,7 milioni di fine 1939. Ed invece nei 1939 erano 141,6 milioni. Anche qui, i numeri tratti dai corsi dei cambi sono atti a consentir paragoni probanti? Molto all’ingrosso, pare si possa concludere che i depositi reali, espressi in una unità monetaria avente capacità di acquisto costante, hanno subito un enorme tracollo dal 1913 al 1922. La guerra, i turbamenti sociali che ne derivarono e quelli monetari che ne furono causa ed effetto nel tempo stesso spogliarono i ceti risparmiatori minuti e medi ravennati della più gran parte dei loro depositi. Con parsimonia rinnovata quei ceti ricostituirono dal 1922 al 1939 i perduti averi. Suppergiù coi 141,6 milioni di fine 1939 essi si trovano nella medesima situazione economica in cui si trovavano coi 17,3 milioni di fine 1913. Solo la tenace virtù risparmiatrice dei ceti medi e contadini italiani può, in faccia a circostanze tanto avverse, produrre miracoli siffatti di conservazione della ricchezza nazionale, in attesa di toccare nuovamente le mete del tempo tra il 1840 ed il 1913 quando in verità il risparmio ravennate dai pochi 12.100 scudi del 1840 crebbe ai 17,73 milioni di lire del 1913. La storia dei tipi di investimento nel secolo decorso insegna anch’essa qualcosa. Per anni e per decenni gli amministratori della cassa ravennate non conobbero quasi altro impiego se non lo sconto di cambiali: di commercianti, piccoli industriali, artigiani ed agricoltori. Verso il 1862 spuntano i mutui ipotecari a privati ed i mutui ad enti pubblici. Verso l’80 comincia, timido, qualche impiego in titoli ed in anticipazioni su pegno di titoli e di merci. Dopo il 1890 l’impiego in titoli tocca i 3 milioni di lire e supera l’antico tradizionale sconto di cambiali. Oggi il portafoglio non comprende solo cambiali commerciali propriamente dette, ma forse in misura superiore cambiali finanziarie variamente garantite; e l’impiego principe (52,3 milioni su 141,6 milioni di deposito) è divenuto quello in titoli di stato. Dal 1938 si osserva una novità: l’investimento in partecipazioni, che giungono nel 1939 a 3,7 milioni di lire. La concorrenza di altre banche, prima inesistenti, la mutazione degli usi commerciali e della struttura economica, che ha rarefatto sul mercato le classiche cambiali scontabili, hanno costretto la cassa ravennate, come tante altre, ad acconciarsi ai nuovi impieghi, che portano il risparmio locale lontano dal paese, contrariamente ai propositi dei primi fondatori delle casse. Ma la cassa ravennate dà prova di una certa resistenza all’andazzo generale, il quale convoglia tutto il risparmio del paese verso l’unica foce dell’impiego in mutui allo stato ed agli enti pubblici e serba un certo equilibrio tra le diverse maniere di far fruttare il risparmio popolare. Occorrerebbe uno studio accurato comparativo nei bilanci delle casse italiane per sapere se la cassa ravennate abbia indulto più o meno delle consorelle alla malattia della pietra. Per molti anni, fino al 1858, in bilancio non figurano immobili e dapprima compaiono nella modesta cifra di 600 scudi oltre a 620 scudi di mobilio e stampe. Nei 1884 siamo ancora sulle 10.097 lire di immobili e 6.644 di mobilio e stampe. Col 1892 si fa un primo salto a 173.656 lire di immobili e 7.850 lire di mobilio e stampe; col 1894 un altro salto porta a 319.746 lire e nel 1898 a 390.766.
Le intitolazioni delle categorie non si mantengono sempre uguali. Il “portafoglio cambiali” dopo il 1913 comprende anche le cambiali garantite da sovvenzioni o da ipoteche; nei mutui ipotecari sono comprese per un certo tempo le prestanze agrarie; in quelli chirografari sono compresi dal 1933 i mutui per cessione del quinto dello stipendio; i mutui prima divisi a seconda se concessi a privati od enti pubblici, vengono poi distinti a seconda della loro indole tecnica. Le cifre si riducono. Nel 1923 si ripiglia l’aire. Alla fine del 1939 si sono investiti 4.529.480 lire in calce e mattoni, quasi una metà del patrimonio e riserve. Nel libro ci son di gran belle stampe delle molte sedi che la Cassa ravennate ha costrutto nei comuni del suo distretto, con decoro suo e comodo dei suoi clienti. Ma io vorrei, chiudendo la rapida rassegna, esporre un quesito ed esprimere una convinzione. Che davvero quella sobria porta nobilmente iscritta nel portico del palazzo del comune, dove la Cassa ebbe modesta sede dal 1851 al 1858, non abbia avuto influenza sul credito che la cassa si procacciò? Temo che tutti coloro i quali recano denari in banca, s’intende la modesta gente di campagna e di città, la quale ancora apprezza i biglietti da cento, si senta spaesata nelle grandi aule, tra marmi lucenti, sotto le solenni invetriate e dinnanzi ad ampi scaloni. Forse pensa: che i miei soldi vadano a finire in queste pietre! ed amerebbe maggior semplicità. Se nelle grandi casse ci fosse qualche porticina laterale la quale adducesse a qualche modesta saletta, dove si sbrigassero da impiegati servizievoli gli stessi servizi, forse essa sarebbe più frequentata di quella pubblica maestosa. La convinzione è questa: le aperte oneste faccie dei bravi uomini i quali ressero dal 1840 al 1940 la Cassa di risparmio di Ravenna, di cui si contemplano nel volume le bellissime fotografie, ebbero certamente insieme alle nobili sedi, ai bilanci solidi, ai guadagni e patrimoni crescenti, virtù di crescere credito e clientela all’istituto. Fa piacere guardare quei visi: tutti nobili di gran casato i presidenti in un primo periodo: conte Ippolito Rasponi, marchese Antonio Cavalli, conte Giuseppe Pasolini, conte Ippolito Gamba, conte Giulio Rasponi, conte Cesare Rasponi, marchese Vincenzo Cavalli. Dal 1840 al 1869 due soli borghesi, l’avvocato Gerolamo Pinto, e il signor Pietro Santucci. Dal 1870 al 1919 per un po’ siamo ancora quasi in un club di nobili: il conte Cesare Rasponi sino al 1879; e poi per un anno il conte Ippolito Gamba. Poscia ascende al governo della cassa il terzo stato: con il dottor Emilio Ghezzo, l’avv. Valentino Rivolta (1893 – 1909), il dott. Guglielmo Malagola e l’avv. prof. Luigi Rava (1919). Dopo, c’è un ritorno parziale di sangue azzurro; all’ing. Ugo Enani ed al cav. Cherubino Ghigi, si alternano il conte Giuseppe Rasponi delle Teste, il N. U. ing. Ulrico Farini ed il N. U. Amedeo Farini. A me che li conosco solo attraverso le chiare oneste fisionomie, queste mi fan dire: erano e sono tutti, nobili e borghesi, brave persone, amanti del loro paese grande e del piccolo natio loco e perciò amministrarono bene, con retta coscienza. Che è la sola pietra di paragone della condotta di chi amministra il denaro altrui.