Del signor Thomas Gibson Bowles e di una sua nuova rivista
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/05/1914
Del signor Thomas Gibson Bowles e di una sua nuova rivista
«La Riforma Sociale», maggio 1914, pp. 497-508
Le mie informazioni sul signor Thomas Gibson Bowles sono in verità alquanto scarse. Non è uomo politico il cui nome corra tutti i giorni per i giornali ed intorno alla cui figura ci si sia tutti più o meno formata un’idea. Si parla di Bowles sui giornali inglesi, quando si parla del bilancio inglese: non quando se ne parla in lode – il che del resto accade sempre anche sui giornali del partito al governo, in assai misurata maniera bensì quando lo si critica. Da lontano, il signor Bowles fa l’impressione del più formidabile critico del bilancio che esista in Inghilterra. Di lui si parlò molto il giorno in cui, alcuni anni or sono, trasse in giudizio la Banca d’Inghilterra per farsi restituire 52 lire sterline e 10 scellini che la Banca gli aveva trattenuto, a titolo di imposta sul reddito, sull’interesse dovutogli su 65.000 lire sterline di titoli di debito pubblico fondiario irlandese. S’era sempre fatto così, poiché la consuetudine voleva che la income tax, imposta annua, tale cioè che decadrebbe se il Parlamento non la rivotasse ogni anno, divenisse esigibile – anche prima dell’approvazione sostanziale della Camera dei Comuni, formale della Camera dei Lordi e della sanzione regia al bill, che soltanto così si trasforma in act ossia in legge – in virtù di una semplice resolution della Camera dei Comuni, radunata in comitato delle vie e mezzi (committee for ways and means). Era qualcosa di simile ad un dodicesimo provvisorio italiano; e con esso s’era sempre inteso che l’income tax e le altre poche imposte annue, non facenti parte del consolidated fond, potessero essere esatte dal governo per provvedere alle spese correnti del paese, ancora prima dell’approvazione del Finance bill. L’atto formale di approvazione veniva dopo, con comodo, e poteva tardare magari parecchi mesi. Il signor Bowles trovò che tutto ciò era scandaloso; essendo assurdo che un governo, padrone della maggioranza, potesse mettere in esazione le imposte, prima che la legge del bilancio fosse sottoposta a quella critica che i partiti di opposizione avevano diritto di fare e che le formalità ordinarie dell’approvazione della legge garantivano loro di poter fare. In Italia, se qualcuno si irritasse a questo proposito, scriverebbe un articolo di giornale, oppure, se fosse deputato, farebbe un discorso alla Camera; governo e maggioranza gli riderebbero in faccia e tutto finirebbe lì. Il signor Bowles agì diversamente: rinnovando il caso celeberrimo nella storia inglese della ship money, da cui in parte trasse origine la caduta degli Stuardi, trasse la Banca d’Inghilterra, in qualità di cassiere dello Stato, ed il Tesoro in giudizio e chiese la restituzione delle 52 lire e 10 scellini che anzi tempo gli erano stati trattenuti. In Italia, colui che si azzardasse a chiamare in giudizio il governo per così poca cosa, sarebbe trattato dai tribunali come un pazzo stravagante. Trattandosi di atti di governo, i magistrati se ne laverebbero le mani, ed accollerebbero le spese di lite al querelante. In Inghilterra il caso Bowles fu discusso con solenne gravità; portato dinanzi all’Alta Corte il 26 giugno 1912, ai primi di novembre Mr. Justice Parker gli dava ragione ed ordinava alla Banca la restituzione delle L. st. 52,10 indebitamente esatte. Così cadeva una consuetudine durata 200 anni; e veniva solennemente riaffermata la massima fondamentale della costituzione inglese, contenuta nel Bill of Right del primo anno di regno di William and Mary (1689): il governo non può esigere imposte se non in virtù di una legge; né una semplice resolution della Camera dei Comuni può autorizzare il governo ad esigere un’imposta la quale non faccia parte del fondo consolidato.
Nel provocare il celebre processo contro la Banca d’Inghilterra ed il Tesoro il signor Bowles non ebbe per iscopo di incassare le L. st. 52,10. Egli voleva evitare che la discussione del Finance Bill fosse protratta troppo a lungo, oltre, ad es., il 21 agosto, che nei 51 anni precedenti al 1911 era stata l’estrema data dell’approvazione finale del bilancio; e sovratutto voleva evitare che la discussione del bilancio fosse frastornata od affogata in altre materie legislative, ben meno importanti sostanzialmente, sebbene meglio atte, in tempi in cui si ama dimenticare la vera funzione del Parlamento, ad attirare l’attenzione del pubblico e dei deputati. Se si sapesse che, se il bilancio non è definitivamente approvato entro il 21 od il 31 agosto, il Tesoro dovrà rimborsare ai contribuenti le imposte riscosse, il governo sarebbe indotto a fare ogni sforzo per far approvare per tempo il bilancio e non ingombrerebbe gli ordini del giorno con proposte di legge presentate per far perdere tempo e procacciare popolarità.
Il signor Bowles è un M. P. intermittente; ogni tanto trova un collegio extravagante che lo manda alla Camera dei Comuni; ma alla legislatura seguente è abbandonato. Egli non è iscritto a nessuno dei tre partiti inglesi: non è unionista, non è liberale, non è labourista, o, meglio, non è iscritto a nessuna delle tre organizzazioni politiche; e poiché chi non è iscritto ha pochissime probabilità di essere eletto e nessuna di essere rieletto, si capisce come il signor Bowles, sebbene sia il più penetrante conoscitore del bilancio inglese, sia un M. P. a sbalzi.
Questo è, per quel poco che io conosco di lui attraverso ai ricordi di letture di giornali, l’uomo il quale ha pubblicato il primo numero di una rivista, della quale voglio intrattenere i lettori della Riforma Sociale. Il titolo medesimo è curioso: The Candid Quarterly Review of Public affairs; Political, Scientific, Social and Literary. Come chi dicesse: La Sincera rivista trimestrale di affari pubblici; politica, scientifica, sociale e letteraria[i]. Il programma, che apre il primo numero, così parla: “Scopo di questa rivista è di trattare dei pubblici affari fedelmente e francamente e di trattarne con candore e con riguardo unicamente al pubblico benessere. Il tentativo, soventi annunciato, raramente compiuto ed ancora più raramente continuato, di passare in rassegna i problemi pubblici imparzialmente e senza preconcetti partigiani, sarà qui rinnovato. Ci sforzeremo di studiare le qualità, le caratteristiche e le attitudini a promuovere il benessere pubblico delle cose conseguite o proposte, sia nel campo politico come nello scientifico o sociale o letterario e di presentarle ai lettori sulla base dei loro meriti intrinseci senza pregiudizi partigiani.
Non è certo facile questa impresa. Ma uno sforzo in tal senso sarà compiuto onestamente da uomini sinceri che scriveranno per lettori sinceri.
In politica ricorderemo sempre che gli uomini d’oggi sono figli del passato ed insieme padri del futuro e che dal passato noi abbiamo ereditato un sistema stabilito di governo, il quale è sopravvissuto alle difficoltà del tempo e non può perciò essere scartato senza l’assicurazione di qualcosa di meglio. Alle scienze, il cui crescente dominio si estende con successo e con rapidità ognora maggiori su ogni parte della vita, sarà assegnato il posto che è dovuto ai grandi risultati ottenuti ed ai maggiori i quali se ne possono attendere. Si darà altresì la dovuta importanza agli argomenti letterari e sociali, in quanto attengono alla vita pubblica.
“Dimostreremo simpatia e rispetto alla sincerità. Ma dovunque appariranno ingenerosità, disonestà, confusione e qualunque cosa la quale possa recare pericolo o disonore allo Stato, faremo ogni sforzo per scoprirla, metterla in luce, denunciarla e distruggerla, insieme con coloro che vi hanno dato origine”.
Tutti i ciarlatani ed i saltimbanchi sono venuti su col programma dell’onestà e della sincerità; e quindi non varrebbe la pena di segnalare ai lettori vogliosi di conoscere la vita pubblica del paese, che fu maestro al mondo di governo parlamentare, una rivista la quale si proponesse soltanto di essere sincera e di non lasciarsi traviare da preconcetti partigiani. La cosa più interessante in questo primo numero è l’attuazione del programma, in una serie di articoli incisivi, mordenti, dotti di quella caratteristica dottrina politica inglese fatta di precedenti, i quali risalgono ad uno, due, cinque secoli addietro, e tuttavia non sono polvere d’archivio, ma materia viva e sentita dagli uomini d’oggi.
Il signor Bowles è un tradizionalista politico. Vede nella struttura politica odierna le stratificazioni del passato; sa che ogni precedente, ogni istituto è stato, un tempo, una conquista ottenuta con fatiche e lotte acerrime. E sente perciò un profondo disprezzo per la gente nuova che non sa nulla e vuole abbattere le cose vecchie, neppure immaginando di fare così opera di reazione e di distruzione di istituti, i quali dovrebbero essere sacri, perché sono l’ultimo baluardo del misero e del debole, che gli uomini nuovi gridano di voler difendere. Ed ecco il primo articolo della nuova rivista: The kingship, ovverosia “La regalità”, o meglio “L’ufficio del Re”. Siamo troppo abituati a sentir dire che la monarchia in Inghilterra è una pura parvenza, che il regime monarchico inglese è in realtà un regime repubblicano a forma monarchica; ed un bagno in un articolo dove sono descritti gli attributi della regalità ed indicata la missione del Re fa bene. Specialmente perché quel bagno lo facciamo in compagnia di citazioni dal libro dei proverbi, da testi classici di Bracton del 1260, di Blackstone del 1750, di Chitty del 1820, di Todd del 1867, di Lord Beaconsfield, di Mr. Asquith, di Mr. Winston Churchill, di Mr. Redmond in questi ultimi anni. I suoi strali più avvelenati sono diretti contro la nuova dottrina dei radicali, la quale dice che “in realtà non vi è un Re; che vi è solo un Magnifico stipendiato e splendido, senza nessun potere e nessun posto nello Stato salvo per vuoti cerimoniali; senza diritti e senza doveri. Egli non può agire e neppure pensare da sé stesso; egli non può agire eccetto che per in consiglio del primo ministro del giorno; anzi non può richiedere il consiglio di nessuno salvo che dal suo primo ministro; e, quando il consiglio del ministro è dato, egli deve automaticamente obbedire, se non vuole essere condotto, egli ed il trono, alla distruzione ed alla rovina per sempre”. Il signor Bowles si indigna al pensiero che questa teoria possa essere ritenuta conforme alla costituzione inglese. E cita i precedenti. La storia inglese è fertile di precedenti, in cui il Re non ha ascoltato il consiglio del suo primo ministro ed ha seguito i dettami della sua coscienza. Dal caso di Lord Grey, il quale il 19 marzo 1831 aveva osato annunciare a Re Guglielmo quarto che il gabinetto avrebbe forse avuto occasione di consigliare al sovrano lo scioglimento della Camera, e dovette subito chiedere scusa, implorando dal Re il favore di non comunicare a nessuno la domanda sua e la risposta negativa avuta, alla celebre lettera del 10 febbraio 1861 della Regina Vittoria a Lord Palmerston, in cui essa ricordava che “i ministri sono responsabili del consiglio che danno alla regina, ma sono obbligati ad esporle completamente, rispettosamente e chiaramente il fondamento e le ragioni su cui il consiglio è fondato, così da metterla in grado di giudicare se debba dare o rifiutare il suo consenso al consiglio dato”, è tutta una serie di massime e di casi, i quali dimostrano che, anche in tempi recenti, il Re ha esercitato e sovratutto ha creduto di dovere esercitare la prerogativa reale di non aderire al consiglio del gabinetto. E questi precedenti sono fondati, asserisce e dimostra la The Candid Quarterly Review of public affairs, sulla necessità di impedire il ritorno della tirannia – tirannia mascherata sotto forme democratiche, ma pur sempre tirannia – e di impedire la distruzione di una costituzione, la quale fu elaborata con secoli di fatiche, e la quale poggia tutta su un sistema complicatissimo di contrappesi, unica salvaguardia della libertà dei molti contro la prepotenza dei pochi.
Ciò urta contro la dottrina dominante anche tra gli scrittori politici inglesi, essere il governo di gabinetto l’espressione della volontà della maggioranza degli elettori, liberamente manifestata nelle elezioni generali.
Ed ecco il secondo articolo del signor Bowles: The new corruption. Il governo di gabinetto ha cessato di essere il governo della maggioranza dal giorno in cui fu importato a Birmingham dagli Stati Uniti il metodo del caucus, ossia del comitato elettorale permanente. Parve, poco dopo il 1870, che il governo democratico implicasse il concetto dell’intervento diretto del popolo anche nelle operazioni preliminari delle elezioni e sovratutto nella scelta degli elettori. Di qui la divisione dei soci dell’associazione di partito in gruppi sezionali, in cui i soci si dovevano periodicamente radunare per mandare i proprii rappresentanti al comitato generale della città, il quale a sua volta nominava un comitato esecutivo permanente. Ed i comitati esecutivi delle varie circoscrizioni elettorali o delle città mandavano i rappresentanti al comitato nazionale centrale, il quale doveva così essere l’esponente della volontà dei proprii partigiani, passata attraverso al vaglio di replicate votazioni nei comitati inferiori. Tutto ciò sulla carta. Nella realtà il sistema ha creato l’onnipotenza del caucus, ovverosia del Comitato. I soci, non avendo tempo da perdere, non possono frequentare assiduamente le adunanze; sicché i comitati si convertono ben presto in nuclei di professionisti, i quali dominano la politica inglese.
La dominano perché il comitato centrale tiene stretti in mano i cordoni della borsa. Le spese elettorali sono enormi e crescenti; s’intende le spese lecite e pubbliche, ché gli atti di corruzione sono rarissimi e quasi impossibili. Gli affigliati al partito pagano, poco i poveri e molto i ricchi. Ma sovratutto le casse si riempiono mercé la vendita degli onori.
Il partito al potere subordina la concessione dei titoli di cavaliere, baronetto, barone, visconte, conte, marchese e duca, e relativo seggio alla Camera dei Lordi, al pagamento di forti somme alla cassa del partito. Il prezzo di un peerage, ossia di un seggio ereditario alla Camera dei Lordi va da 150.000 a 400.000 lire sterline. Vi sono mediatori nella City, che offrono titoli di baronetto a prezzi variabili da 4.000 a 6.000 lire sterline. Il fondo elettorale del partito liberale raggiunse, a quanto si narra, nel 1907 l’enorme cifra di 700.000 lire sterline, ed è ora di 400.000 lire sterline.
Ed è a disposizione di una persona sola, il whip del partito, che è del partito nel tempo stesso il tesoriere, la frusta, il capo onnipotente. Egli non deve rendere conto a nessuno del modo come spende i suoi denari. Da lui, ossia dal piccolo gruppo dei membri del comitato centrale del partito, per lo più uomini oscuri, elevatisi coll’abilità caratteristica dei piccoli intriganti e professionisti della politica, dipende tutto il partito. I deputati ed i candidati non possono sperare salvezza se non sono appoggiati da lui. Se un gruppo qualsiasi si impadronisce della cassa centrale, tutto il partito deve obbedire ai voleri del gruppo.
Quando il gruppo di Birmingham, con Chamberlain alla testa, si impadronì della cassa centrale del partito unionista, questo dovette, volente o nolente, abbracciare il credo protezionista, cui la massima parte dei deputati e dei candidati unionisti ripugnava, perché contrario alle loro convinzioni e perché lo sapevano impopolare nel paese. Da 10 anni il partito unionista si trascina questa palla di piombo al piede; senza riuscire a liberarsene. Gli uomini oscuri e piccoli, i quali hanno in mano l’organizzazione e la borsa del partito, hanno costretto a dimettersi il sig. Balfour, l’unico vero uomo di Stato del partito unionista, l’uomo che colla sua intelligenza e vastità di mente e finezza di condotta politica poteva ricondurre alla vittoria i proprii seguaci ed hanno messo al suo posto il sig. Bonar Law, grossolano, inabile, che condusse al suicidio la Camera dei Lordi ed ora mette l’esercito in contrasto coll’opinione pubblica inglese. An opposition impotent: è il titolo del terzo articolo della rivista; impotente perché costretta dal proprio caucus a conservare un programma di protezione doganale, che è profondamente impopolare tra le masse, fra gli industriali, nelle città commerciali, ma è tenacemente conservato come la bandiera del partito, perché i membri del comitato centrale temono il venir meno dei fondi di guerra, il giorno in cui il whip del partito non potesse più fare assegnamento sulle contribuzioni degli industriali protezionisti.
Senza questa palla di piombo al piede del partito unionista, il partito liberale sarebbe caduto da un pezzo. Come il partito unionista è dominato dal caucus di Birmingham, così il partito unionista è sotto la ferula da un lato di Mr. Redmond, capo dei nazionalisti irlandesi, e dall’altro di Mr. Lloyd George, capo degli agitati inglesi. È impossibile riassumere la critica che il Bowles fa nell’Home Rule Bill. Egli non lo critica in sé stesso. Non ha nulla da obbiettare al governo dell’Irlanda da parte degli irlandesi. La sua tesi è un’altra: il bill, così come è proposto, sarà sorgente di una serie infinita di guai per entrambi i paesi. Non è una separazione totale quella che il bill opera; ma una dichiarazione di voler separare due paesi, nel tempo stesso che si creano legami strettissimi, fastidiosi, fra la finanza dell’Irlanda e la finanza dell’Inghilterra.
L’Irlanda separata si accorgerà subito di potere infinite volte ricattare l’Inghilterra, facendosi pagar caro, a suon di denari, il suo silenzio negli affari inglesi, in cui l’Irlanda avrà diritto d’intervenire, e la sua benigna rinuncia al diritto di sollevare conflitti fastidiosi. Col testo degli articoli del bill alla mano, l’articolista prova che ad ogni momento sorgeranno le occasioni di attrito e ad ogni momento l’Inghilterra, se vorrà evitare la separazione definitiva, dovrà in silenzio pagare. Qual meraviglia che l’Home Rule bill sia impopolare in Inghilterra?
E chi legge l’altro articolo su The National Insurance Act, non si meraviglierà neppure che il signor Lloyd George non incontri più quegli applausi incondizionati che la sua audace politica incontrava prima. Nella primavera del 1911 Lloyd George cadde ammalato alla gola; e non potendo più discorrere, si mise ad almanaccare un metodo per redimere gli inglesi dalla malattia. Quando fu ristabilito, la sua proposta di assicurazione obbligatoria contro le malattie fu accolta con entusiasmo; i giovani tories dichiararono di abbassare le armi, per il bene del paese. Solo l’Economist, tra i giornali inglesi, osò dimostrare che il piano del Lloyd George era grossolano, male studiato, sbagliato nei calcoli e nelle previsioni. Fu, una voce nel deserto. È passato del tempo; e l’entusiasmo è sfumato, di fronte al modo con cui la legge frettolosa si applica. Il signor Bowles dimostra che non è una legge; ma – fatto inaudito nella costituzione inglese – è una delega a taluni funzionari burocratici a creare la legge, che il Parlamento ha riconosciuto di essere incapace di formulare. A crearla prima ed a modificarla in seguito, sì e come piacerà alla burocrazia. Centinaia di leggi furono così emanate, all’insaputa del Parlamento; i calcoli originari si chiarirono fantasticamente inferiori al vero, le antiche società di mutuo soccorso sono spinte dalla nuova legislazione alla bancarotta ed alla corruzione dei propri soci; la potenza di società, benemerite sotto molti rispetti, ma private, come le Prudential Company, fu ingigantita; centomila agenti della Prudential sono diventati quasi degli assicuratori pubblici, per virtù di legge e stanno trasformandosi in pericolosi agenti elettorali a favore di quel partito, il quale prometterà di crescere i vantaggi grandi, di cui già godono le società private a causa della obbligatorietà della assicurazione contro le malattie.
Se Lloyd George non fosse stato padrone dell’organizzazione del partito liberale, se qualcuno avesse osato chiedere di sottoporre il bill da lui proposto ad un piccolo comitato di esperti, il bill, afferma il signor Bowles, non sarebbe stato certamente approvato nella sua forma attuale. Ma il Parlamento è una macchina da votare ciò che il caucus ha scelto come programma del partito: le sue funzioni di controllo e di legiferazione sono oramai in sostanza venute meno. Fosse almeno il programma del caucus l’espressione della volontà del Paese! Mai no. Il caucus “crea” la volontà del Paese; lo inonda di carta stampata, di opuscoli, fogli volanti, grandi disegni murali, organizza comizi, in cui oratori stipendiati dal caucus espongono ed esaltano il programma del caucus. I pochi uomini politici indipendenti, che vorrebbero reagire e mettersi a contatto coi loro elettori, per cercare quali siano i reali bisogni della popolazione, sono intimiditi, minacciati di vedersi tolto ogni aiuto finanziario. I comitati locali, dove intervengono soltanto i professionisti della politica, marionette in mano dei tirafili che stanno al centro, vengono convocati e votano ordini del giorno oscuri e minacciosi per il rappresentante che non obbedisce subito alla cosidetta volontà popolare espressa dai comitati del partito. Gli elettori, assordati, privi di ogni effettiva libertà di scelta tra varii candidati del proprio partito e costretti a scegliere fra il candidato del caucus unionista ed il candidato del caucus liberale, consacrano quella che non è la volontà del popolo, sibbene di una piccola congrega di politicanti.
Il quadro forse è un po’ tratteggiato a tinte scure, ma è di interesse singolare. Poiché il Bowles non vende chiacchiere; ma ragiona sui fatti, sui dati, sui precedenti, sulle conseguenze avvenute in passato in condizioni eguali ed analoghe.
Egli comincia uno studio su The Salaried Parliament con la citazione di alcuni versi tratti dal poema Hudibras, i quali dicono; “Che cosa rende semplici e chiare tutte le dottrine? Circa duecento lire in sterline all’anno. E che cosa dimostra nuovamente falso ciò che si era dianzi pronunciato vero? Duecento lire sterline di giunta”.
Ma la verità di questi versi egli la prova ricorrendo alla storia, ricercando le ragioni storiche per le quali nei secoli dal tredicesimo al sedicesimo i membri della Camera dei Comuni erano pagati non dal tesoro ma direttamente dai contribuenti, e rinarrando le lotte memorabili con cui nel secolo diciottesimo si riuscì via via ad eliminare quasi del tutto dalla Camera i membri pagati o pensionati o sussidiati dalla Corona o dal Governo; ricorda la celeberrima definizione della pensione di Stato data dal dott. Johnson nel 1755. “La pensione è un assegno concesso senza uopo di controprestazione. In Inghilterra si ritiene generalmente che essa significhi una paga data ad un uomo prezzolato dal governo per tradire il proprio paese”.
È vero che il dott. Johnson accettò in seguito una pensione di 300 lire sterline dal governo; ma la definizione rimase e l’effetto più probabile del pagamento di un salario ai membri della Camera dei Comuni sarà la diminuzione dell’indipendenza dei deputati di fronte al gabinetto, ossia di fronte al comitato centrale elettorale; ossia un allontanamento vie maggiore dal sistema di verace rappresentanza che solo garantisce la libertà e l’indipendenza dei cittadini.
Dove il governo diventa onnipotente, le finanze diventano scure. È noto, dice il Bowles, nell’articolo intitolato National Finance, 1914, che la spesa pubblica è disordinatamente cresciuta e cresce tuttavia; che il debito nazionale è assai scarsamente diminuito dai due fondi di ammortamento; che il prezzo dei consolidati è caduto in sedici anni da più di 113 nel 1897 a 71 nel 1913, ossia del 42 per cento; che mentre nel 1897 il mercato finanziario libero era preparato ad imprestare al governo britannico al 2,45 per cento, ora impresterebbe solo al 3,50 per cento,; e che è probabile le cose abbiano ad andare di male in peggio, spendendosi ognora di più e sempre con credito peggiore. Ed è noto che la causa principale dell’aumento della spesa pubblica è nell’incremento della flotta e dell’esercito e nella politica del governo radicale di intraprendere cose che prima il cittadino faceva da sé stesso. Ma è imperfettamente conosciuto che un’altra causa potentissima di cresciute spese è la diminuzione del controllo del parlamento. Il bilancio non è più discusso; il potere esecutivo modifica la legge del bilancio a suo piacimento; presenta progetti supplettivi di spese, distruggendo l’unità del giudizio sulla spesa e sull’entrata. Per conoscere quanto la Stato incassa e quanto spende, occorre un lavoro lunghissimo di analisi, di scomposizione e di ricognizione ed il Bowles lo ha fatto e ne presenta i risultati; perché dai documenti presentati dal Governo la verità non zampilla fuori netta e precisa.
La confusione è cresciuta da quando il fanatico gallese, che il continente ammira sotto il nome di Lloyd George, è divenuto cancelliere dello scacchiere. Costui crede onestamente di essere ispirato dal cielo e di aver la missione di creare un nuovo mondo, più ridente e bello del mondo, in cui egli convulsamente si agita. Sta di fatto, afferma il Bowles, che i metodi finanziari di Lloyd George sono contrari ed incompatibili con tutte le tradizioni finanziarie inglesi; al che si deve aggiungere essere opinione di tutte le persone serie che i metodi nuovi non hanno molta probabilità di durata.
Non vorrei si credesse che col presente riassunto del primo numero di The Candid io abbia voluto rendere ossequio alla tendenza da qualche tempo affermatasi in Italia, di consolarci dei guai di casa nostra additando malanni uguali o peggiori nelle case altrui. Nessun processo mentale parmi più corruttore di questo. Invece di essere indotti a migliorare noi stessi, a correggere i nostri difetti, a riparare i nostri mali procedimenti, noi idealizziamo i difetti, trasformandoli in proprietà generali e permanenti della natura umana. Sono confusi i nostri bilanci? E sono anche oscuri quelli inglesi. Vi è in Italia il governo personale? Ha acquistato credito la frase il Re regna e non governa? Si fanno leggi male concepite e peggio elaborate?
Si mettono innanzi, come emanazione della volontà del popolo, programmi di monopolio delle assicurazioni, di suffragio universale, di assicurazione degli infortuni agricoli, ecc., ecc., a cui il popolo non aveva mai pensato e che erano il prodotto professionale di un piccolissimo gruppo di gente agitata? Ed in Inghilterra succede altrettanto e peggio, come dimostra il Bowles, che adesso potrà, forse, diventare persino celebre, per la comodità di citarlo senza averlo letto, tra i saltimbanchi della politica italiana in cerca di scuse per le loro male fatte.
Non per questo intento ho voluto scrivere questo breve riassunto; ma per attirare l’attenzione sul fatto che in Inghilterra sono possibili non solo le male fatte ma anche i critici delle male fatte.
Sembrava vicina la fine del governo parlamentare quando Giorgio terzo, insieme con Lord Bute, congiurava a ripristinare l’assolutismo ed a sopprimere il controllo del Parlamento; ma vennero le lettere di Junius e suscitarono una eco immensa in Inghilterra: di rabbia negli inni, che volevano scoprire l’autore, rimasto ignoto ai suoi persecutori, per rovinarlo, di indignazione nelle masse che traevano da quelle lettere feroci, terribilmente fredde nella loro logica serrata la forza per resistere alle usurpazioni della Corona e per difendere il governo parlamentare. E chi osò difendere contro un’opinione pubblica cieca le ribelli colonie americane? Edmondo Burke. Chi mise dinanzi agli occhi della vecchia Inghilterra la necessità di resistere ai razionalisti, agli illuminati, ai giacobini inglesi che volevano importare nell’isola i principii della rivoluzione francese? Ancora Edmondo Burke colle sue famose Reflections on the French Revolution, le quali anticiparono di un secolo i giudizi degli storici moderni. Oggi, in mezzo all’infatuazione generale degli unionisti e dei liberali, dominati dai loro caucus elettorali, la quale spinge il governo a profondere miliardi nei bilanci della guerra, della marina e della pace sociale, poche sono le voci dei critici che si levano in Inghilterra: la voce antica e non mai spenta e sempre fedele alle più pure e nobili tradizioni cobdenite dell’Economist, questa nuova del Bowles e poche altre. Mi bastano perché non si debba disperare dell’avvenire. Non può esistere una grande letteratura politica senza che, presto o tardi, si faccia della grande politica: Johnson, Swift, Junius, Burke non avrebbero potuto scrivere nell’Italia del secolo diciottesimo; e noi ebbimo gli scritti politici ed economici di Cavour, Mazzini, Ferrara, Spaventa, quando in Italia ferveva la grande vita politica. Ciò che mi rende persuaso che i mali dell’Inghilterra sono, in sostanza, superficiali è l’esistenza di grandi scrittori, come il Bowles, che in scritti impeccabili per forma, vivi di una cultura storica mirabile e di una conoscenza profonda dei fatti attuali denuncino quei mali. Ciò che mi fa temere essere ancora lontana in Italia la fine del governo personale e lontanissima la vittoria dei grandi interessi nazionali sui piccoli interessi delle cricche burocratiche e pseudo-industriali parassitarie è la mancanza di una letteratura politica, nudrita di forti studi ed animata da una viva passione, la quale assuma a suo ufficio la critica dei mali della vita politica moderna italiana ed additi le nuove vie da seguire.
[i] Published by Frederick Henry Garratt at 26 Maiden Lane, London, W. C. Prezzo 5 scellini netti per fascicolo; abbonamento L. st. 1 all’anno. Il primo fascicolo è un volume di 278 pagine.