Terre irredente
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 15/01/1906
Terre irredente
«Corriere della sera», 15 gennaio 1906
Egregio Signor Direttore,
Ella che nello scorso autunno m’invitò con cortese insistenza a pubblicare una lettera sulla Sicilia, vuol farmi l’onore di accettarne un’altra sulla mia nativa Romagna nell’autorevole giornale da Lei diretto?
Intendo discorrere delle terre non redente dal lavoro umano, le quali, con una superficie di circa quattro milioni di ettari, sono là a dimostrare, dopo quasi mezzo secolo di unità, la nostra ignavia, e forse la nostra decadenza politica. E per cominciare da quelle che conosco più da vicino, e che offrono argomento ad affrontare un’alta quistione economica, parlerò oggi di un vastissimo latifondo che si estende fra la pineta di Ravenna e il lido Adriano.
Tre fra i maggiori uomini d’Italia, nell’antichità, nel medio evo, nei tempi moderni, resero ancor più famosa quella foresta spessa e viva, testimone di tanta parte della nostra storia. Giulio Cesare vi accampò poco lungi colle sue legioni, prima di passare il Rubicone, di che ricordiamo i versi:
Quel che fe’ poi ch’egli uscì di Ravenna
E saltò Rubicon.
Dante vi cercò l’ispirazione per uno dei più alti canti del poema divino, il ventottesimo del Purgatorio; Garibaldi, inseguito da tre eserciti stranieri, vi trovò rifugio e salvezza per serbarsi a più grande avvenire.
Si direbbe che il genio italico tragga dalla foresta secolare virtù per le grandi imprese; ed io auguro a chi governa lo Stato d’ispirarsi a quegli esempi per compiere presso quei luoghi opera degna di un gran popolo, la quale può essere esordio di opere anche maggiori.
Quella distesa di terreni, cui accenno, misura una superficie di quasi 5.000 ettari, ed è fatta di alluvioni fertilissime: è in gran parte incolta e brulla, mentre dovrebbe essere feconda per le sue zolle nere come quelle del Minnesota; potrebbe rimboschirsi dove la coltura a cereali non fosse rimuneratrice. Perché è così deserta, e perché il proprietario non obbedisce alla legge del tornaconto, duplicando, triplicando la rendita che ne raccoglie?… A questo quesito non si risponde che coll’antica sentenza di Plinio: latifundia Italiam perdidere: ed è proprio questa di cui parliamo l’espressione più selvaggia del latifondo improduttivo. Se in tutti i paesi i proprietari coltivassero i loro poderi a somiglianza di quello, il popolo morrebbe di fame, e lo Stato dovrebbe intervenire.
Lo spettacolo di tanta desolazione in una provincia così bella e così ricca di coltura intensiva, fa pensare ad un altro problema che incombe specialmente sulla Romagna: la disoccupazione dell’operaio agricolo, del bracciante. Le cause sono molte: la soprappopolazione, la nostalgia che impedisce spesso al romagnolo di abbandonare il luogo natio per recarsi all’estero; né io me ne dolgo, perchéemigrano sempre i più validi; la lontananza delle grandi città, alle quali, per un fenomeno universale e costante, accorrono gli operai delle campagne. Nel solo comune di Ravenna sono circa 15.000 i braccianti! E vi sono lì a poche miglia dalla città 5.000 ettari da redimere!
Se è vero che l’interesse economico esige che si moltiplichi la produzione, e che l’interesse morale consiglia di estendere la proprietà al maggior numero, credo che di fronte all’improduttività di una immensa superficie, e all’aumento incessante di operai agricoli disoccupati, lo Stato non debba starsene inerte. Comperi esso o espropri i terreni incolti, con emissione di un prestito speciale od altrimenti li distribuisca fra qualche centinaio di quei braccianti, imponendo un canone annuo per un trentennio, e affrancabile; esoneri dalle imposte quei terreni per un tempo determinato, e l’erario vi perderà un reddito insignificante, perchénel 1835 quelle terre furono notate in catasto come improduttive: faccia insomma nel centro d’Italia un esperimento, che potrà, se la prova riesce, essere imitato in Sicilia, in Sardegna, in Capitanata, nell’Agro Romano. Occorrerà chiamare in aiuto le Casse di risparmio romagnole, floridissime e sapientemente amministrate, per istituire un Credito agrario che presti a mite interesse e a lunga scadenza ai nuovi coloni: nelle Casse di risparmio di Romagna, della vera Romagna, cioè nelle città principali di Ravenna, Imola, Lugo, Forlì, Cesena, Rimini, i depositi ascendevano alla fine del 1904 a oltre 34 milioni di lire.
Veggio già i sorrisi degli scettici, le convulsioni dei paurosi, le scomuniche degli ortodossi; ma non mi sgomento. I lettori (se pure avrò l’onore di trovarne) mi ascoltino ancora per poco, e ricordino quello che si fece altrove.
Nel 1847, lord John Russel, che non era un socialista, affermava dai banchi del governo la necessità di impossessarsi delle terre non coltivate che il proprietario rifiutasse di vendere, e proponeva una legge a questo fine, osservando che la creazione di una classe di piccoli proprietari avrebbe aperto un’era novella nelle condizioni sociali dell’Irlanda.
Così avesse fatto l’Italia nel tempo della soppressione dell’asse ecclesiastico! Ma l’esempio del The Irish Church Act 1869, 32 e 33 Vict, c. 42, non fu imitato da noi, perseguitati dalla finanza fiscale…. Nel 1885, il Purchase of Land Act, 48 e 49 Vict c. 73, istituì un Dipartimento agrario per l’acquisto delle terre; e questa legge, modificata e migliorata dopo con altre leggi, aumentò il capitale assegnato alla compra delle terre, ed estese i poteri del Dipartimento agrario, il quale ebbe facoltà di anticipare ai conduttori delle terre il prezzo di acquisto.
Gladstone, che non era un anarchico, andò più oltre, e propugnò di comprare per un miliardo e trecento milioni le terre da rivendere ai contadini: fu in quell’occasione, se bene mi ricordo, che Chamberlain si distaccò da lui, e il gran vecchio cadde dal governo.
Veniamo all’ultima legge, all’Irish Land Act 1903, che comunemente è chiamata la legge Wyndham, dal nome del proponente. È questa una legge di ricostruzione sociale ed economica, che delega al Dipartimento agrario i più ampli poteri per l’acquisto di terre dai grandi proprietari, per il loro riscatto, per i miglioramenti agrari, per la ripartizione delle terre ai lavoratori.
Ma nel Regno Unito lo Stato non è lasciato solo; vicina a lui cresce una vegetazione rigogliosa di private iniziative che agevolano e integrano l’azione governativa con un’alta emulazione. Per esempio, l’Irish Agricultural Organisation Society, è una cooperativa, ma non di produzione, di consumo o di credito; essa ha una fisionomia speciale: è una cooperativa di organizzazione. Insegna doversi adoperare metodi tecnici rispondenti ai progressi della scienza agricola; ammaestra sulla necessità che l’agricoltura per difendersi dalla concorrenza debba poggiare sopra una base commerciale per affrontare le nuove condizioni fatte alla distribuzione dei prodotti agrari dall’apertura del mercato mondiale, e dalla concentrazione di una popolazione immensa nelle grandi città. Da quella Associazione la politica è bandita: la presiede un protestante unionista; ne è vicepresidente un nazionalista che appartiene alla Compagnia di Gesù.
Ho invocato questi esempi sperando che aggiungano alle mie parole quell’autorità che disgraziatamente esse non hanno. Ma se queste non saranno ascoltate, non dispererò del trionfo delle mie idee; anche i disegni di lord John Russel, del 1847, non furono disseppelliti che dopo un quarto di secolo.
È questa per l’Italia una grande questione che bisogna dibattere e risolvere, senza quei comodi rinvii che sono uno dei vizi più pericolosi della vita politica italiana.
Marco Minghetti soleva dire che l’Italia è invasa dal demone della procrastinazione; eppure quand’egli lo diceva, l’Italia era uscita da poco dagli ardimenti che l’avevano composta ad unità; ma il giudizio dell’illustre uomo di Stato era vero per tutti gli atti della vita economica ed amministrativa. Auguriamoci che si emendi; altrimenti il Parlamento sarà giudicato impotente a risolvere i grandi problemi della vita moderna, e le istituzioni andranno perdute nella fiducia del paese. È inutile che gli oppositori di queste idee sperino nel tempo pietoso per farle dimenticare: vi sono delle quistioni che si esacerbano coll’indugio, ed è vano il resistervi davanti ai nuovi bisogni sociali, e alla gran voce del paese.
Le rendo sincere azioni di grazie, signor Direttore, di avere accolto sotto l’autorità del suo giornale queste mie idee, e La prego di gradire il mio saluto rispettoso e cordiale.
Roma, 10 gennaio 1906.
Obbligatissimo
G. Codronchi-Argeli
La lettera del senatore Codronchi espone considerazioni importanti, sì che noi vorremmo sperare che essa dia appiglio a discussioni feconde e a un movimento efficace di idee e di opere. Intanto, poichéla discussione ammaestra sempre, cominciamo noi ad aggiungere poche cose per conto nostro a quelle così bene dette dall’on. Codronchi.
L’esempio dell’Irlanda e della coraggiosa ed utilissima legislazione intesa a far passare la proprietà della terra dalle mani dei landlords inglesi a quelle dei coloni irlandesi è certamente degno di essere da noi attentamente studiato. Oseremmo però dire che il problema delle terre incolte italiane è un po’ diverso dal problema terriero dell’Irlanda: meno arduo socialmente da una parte, più difficile invece dal punto di vista tecnico. Nell’Irlanda la questione attuale non si imperniava sulla mala coltivazione della terra, la quale vi era sempre stata assai intensiva forse troppo depauperante, per soddisfare ai bisogni della popolazione lavoratrice, un giorno ancor più numerosa d’adesso. Il problema era tutto politico-sociale fra i landlords grandi proprietari appartenenti alla schiatta vincitrice di nazione inglese e di religione protestante e i lavoratori privi di terra irlandesi di nascita, oggi vinti e maltrattati e cattolici di religione ossia perseguitati. La lotta fu lunga prima per l’emancipazione religiosa, in seguito per quella politica e finalmente per riconquistare ai nazionali il diritto alla terra a scacciarne gli aborriti usurpatori. Certo a mano a mano che la terra ritornava in mano degli irlandesi, per opera delle leggi sapientemente ricordate dal Codronchi, si verificava anche un miglioramento nei metodi di cultura. Il piccolo proprietario indipendente coltivava meglio le sue terre: si univa in cooperative per migliorare i prodotti e venderli più vantaggiosamente: ma fu una trasformazione commerciale e non implicò enormi impieghi di capitale in bonifiche, prosciugamenti ecc.
In Italia il problema delle terre incolte o meglio male coltivate, si presenta un po’ diverso. Non lotte religiose, o di razza, o di insanabile odio politico fra i latifondisti ed i lavoratori; ma questione essenzialmente economica.
Noi non conosciamo il caso citato dal Codronchi dell’agro ravennate: ma in generale il problema può essere posto così: vi sono in Italia delle terre dalle quali i proprietari si contentano di ricavare una rendita netta con uno sfruttamento estensivo compiuto senza impiego di capitali, mentre da una coltivazione intensiva si otterrebbe certamente un prodotto lordo maggiore, un lavoro più frequentemente e meglio rimunerato per gli operai e probabilmente anche una rendita totale netta compreso l’interesse dei nuovi capitali impiegati più elevata.
Alla coltivazione intensiva si oppongono molti ostacoli: la malaria talvolta, la necessità preventiva di bonifiche costose, di impianti stradali, di rimboschimenti, di sistemazione dei fiumi, ecc. ecc. I proprietari non hanno spesso i capitali per intraprendere queste opere costose, e, se anche li avessero non li impiegherebbero perchéil vantaggio sarebbe sovratutto d’ordine generale e forse individualmente non sufficiente per distogliere i capitali da altri impieghi più produttivi.
Posto così il problema, la soluzione ne discende evidente. Compito dello Stato ci sembra essere quello di creare quelle condizioni d’ambiente senza delle quali non è giustificabile l’impiego di forti capitali nell’agricoltura. Costruisca le strade, faccia le bonifiche, regoli le acque e, possibilmente stabilisca un sistema di irrigazione, compri i terreni per rimboschirli (cosa che i privati da loro non farebbero), faccia insomma quelle cose che devono essere compiute da Enti pubblici perchél’iniziativa privata non vi giungerebbe. Noi non diciamo punto che lo Stato faccia tutto ciò per i begli occhi dei proprietari, senza compenso e senza proporsi nessun fine sociale. Si potrebbe, ad esempio, stabilire che lo Stato pei 6.000 ettari dell’agro ravennate incolto si tenesse per sé una quota, un terzo od una metà, in compenso di aver reso gli altri due terzi o l’altra metà più produttivi per gli attuali proprietari, con le opere pubbliche da lui condotte a termine: applicandosi così, in natura, il concetto dei contributi di miglioria già accolto nella nostra legislazione.
Su codesta quota dei terreni venuti in sua proprietà, lo Stato potrebbe benissimo applicare le proposte del senatore Codronchi, mediante concessioni di terre ai contadini. Per impedire che i contadini vendano a basso prezzo i lotti loro assegnati a speculatori, come accadde nelle quotizzazioni dei demani nel Mezzogiorno, bisognerebbe dare le terre in enfiteusi ammortizzabile a mite canone, ma senza facoltà di riscatto prima di un certo periodo di tempo. La iniziativa dovrebbe essere completata con organizzazioni cooperative di credito, di vendita, ecc., ecc.
La persistenza di territori a grande proprietà vicino a questa piccola proprietà coltivatrice a noi parrebbe più utile che dannosa. La grande proprietà servirebbe di esempio e di stimolo ai piccoli proprietari, con le innovazioni tecniche che in mutate condizioni potrebbero esservi più facilmente compiute; e servirebbe da regolatore della mano d’opera esuberante. I contadini, a cui la piccola proprietà coll’andar del tempo per il crescere delle famiglie e per altri motivi, non fornisse più lavoro sufficiente per tutto l’anno, potrebbero trovarne nella vicina grande proprietà.
Ecco in breve le osservazioni che volevamo fare non a critica, ma a complemento di quelle opportune e vere esposte dal senatore Codronchi, la cui parola, speriamolo, non sia per essere stata spesa invano.