Statistiche ottimiste
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 10/09/1903
Statistiche ottimiste
«Corriere della sera», 10 settembre 1903
La vivissima discussione che ora si agita in Inghilterra sulla questione doganale messa innanzi con tanta audacia da Chamberlain merita di essere seguita in Italia con occhio attento ai pericoli i quali potrebbero nascere dai dazi differenziali a favore delle colonie inglesi e a danno dei prodotti italiani.
Finora la controversia si è aggirata un po’ troppo nel campo delle affermazioni teoriche liberiste e protezioniste. Affermano gli uni che i dazi faranno rincarare il costo della vita e nega Chamberlain che tale sia il suo proposito. Ma, trattandosi di previsioni gratuite intorno a provvedimenti dei quali non si conosce ancora esattamente la portata, poco frutto si può trarre dal tenervi dietro.
Dove invece riesce più interessante seguire la controversia doganale britannica si è nell’esame delle statistiche relative alle condizioni dell’economia di quel paese ed al bisogno di mutamenti i quali valgano a restituirlo alla floridezza antica, ove questa in realtà sia diminuita. Il punto è interessante anche per l’Italia la quale incerta se debba, quantunque con prudenza, modificare alquanto nell’anno venturo i propri ordinamenti doganali, può trarre profitto dal conoscere quali effetti abbia prodotto la politica liberista inglese in contrapposto, ad esempio, alla politica restrittiva della Germania o della Francia.
Orbene, i giornali più autorevoli, come l’Economist di Londra, stanno mettendo in luce un fatto curioso: che mentre in Germania è generale la lagnanza per il ristagno degli affari e la crisi economica, mentre in Francia il Leroy-Beaulieu da anni lamenta l’arresto assoluto del gettito delle imposte di successione, indizio triste di una stasi nel progresso economico del paese; in Inghilterra invece i rapporti dei commissari delle imposte sono improntati ad un ottimismo stranamente roseo. L’ultimo rapporto dei Commissioners of Inland Revenue ci dice infatti che il reddito complessivo constatato dal Dipartimento agli effetti dell’income tax salì da 657 milioni e 97 mila lire sterline nel 1894-95, a 866 milioni e 993 mila lire sterline nel 1901-2 con un aumento assoluto di 209 milioni e 896 mila lire sterline e relativo del 31,9 per cento. È un aumento notevolissimo, se si pensa che nel periodo di maggiore prosperità che nel secolo scorso abbia avuto l’Inghilterra, l’ottennio 1868-76, si passò da 398 a 544 milioni, con un soprappiù assoluto di 145 milioni e relativo del 36,5 per cento. E si noti che nel periodo 1868-76 il miglioramento era in parte artificioso e dovuto al salire eccessivo dei prezzi, che poi precipitarono; mentre ora il livello dei prezzi non è gran che mutato; ed i maggiori redditi corrispondono ad affari solidi e reali, compiuti in circostanze di concorrenza internazionale acuita e in anni parzialmente funestati dalla guerra anglo-boera.
Né si dica che aumentarono sovratutto i redditi delle case, e di altri impieghi non industriali, poiché i commissari rispondono che la categoria la quale presenta l’aumento maggiore è precisamente quella D, dei redditi industriali e professionali, che da 340 milioni passarono a 487 con un aumento assoluto di 147 milioni e relativo del 43,2 per cento. Scendendo ai particolari delle varie industrie, è interessante vedere come i guadagni delle ferriere e delle acciaierie, una delle industrie più minacciate dalla concorrenza nord-americana, siano cresciuti con movimento continuo da 2.089.227 lire sterline nel 1892-3, a 3.007.591 nel 1898-9 ed a lire sterline 6.600.263 nel 1901-2.
Non sono questi certamente degli indizi di decadenza industriale o commerciale; né si può affermare che l’Inghilterra viva consumando il suo capitale, come affermano coloro i quali, vedendo l’enorme sbilancio di 200 milioni di lire sterline all’anno (5 miliardi di lire nostre) fra le importazioni e le esportazioni, affermano che l’Inghilterra riesce ad importare molto di più che non venda, in parte bensì grazie ai guadagni della marina mercantile ed ai redditi di imprese e titoli esteri, ma in parte vendendo i titoli stranieri da essa posseduti, come azioni di ferrovie americane, consolidati esteri, ecc., ecc. Questa «esportazione invisibile» vi potrà essere per alcuni titoli; ma è largamente compensata dalla importazione di altri titoli forse più proficui. È ciò almeno che ci dicono le tabelle dei Commissari delle imposte, le quali insegnano che i redditi accertati dei valori stranieri salirono ininterrottamente da 31.890 mila lire sterline nel 1882-83, a 62.559 mila lire sterline nel 1901-2.
Notisi che qui si è parlato sempre di redditi accertati dai Commissari, cosa ben diversa dai redditi reali, a causa della abitudine, comune ai contribuenti inglesi a somiglianza di quelli italiani, di occultare al fisco, quando sia possibile, i propri redditi. L’aumento effettivo deve essere stato ben maggiore; e se si pensa che contemporaneamente dal 1861 al 1902 il commercio estero per abitante salì da 13 lire sterline a 20 lire sterline e 9 scellini e che i poveri nello stesso periodo diminuirono da 1.054.099 a 1.001.933, malgrado che la popolazione fosse cresciuta da 29 a 42 milioni circa di abitanti; se si aggiunge che il tonnellaggio della marina mercantile da 5.694 mila tonnellate nel 1871 passava a 6.691 mila nel 1881, ad 8.279 mila nel 1891 ed a 10.054 mila nel 1902, si deve concludere che l’Inghilterra non è poi sull’orlo della rovina, come si dice. È naturale che una nazione già ricca ed evoluta, come l’inglese, progredisca meno di un paese ricco di novelle energie, come il nord-americano; ma se si prendono a criterio di paragone paesi egualmente antichi e prosperi, come l’Inghilterra e la Francia, non è certo la prima a doversi dichiarare vinta. L’Italia poi, sebbene il suo sviluppo industriale sia relativamente recente, non può mettere innanzi degli indici di progresso così rapidi come quelli della vecchia isola amica. È bene non dimenticarsene quando sarà il momento opportuno.