Le Poste ed i Monti di pegno
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 12/09/1904
Le Poste ed i Monti di pegno
«Corriere della sera», 12 settembre 1904
Le Casse postali di risparmio hanno percorso una via così brillante dal giorno della loro istituzione nel 1875 ad oggi, da eccitare davvero ammirazione ed invidia. Ammirazione, quando si vedono i depositi salire da L. 3.742.139 alla fine del 1876 a L. 878.323.285 alla fine del 1903, gli uffici da 2.150 a 5.400, le operazioni medie per ufficio da L. 2,330 a L. 173.807, i depositi degli emigrati da L. 3.600.000 nel 1896 a 55 milioni nel 1903. Invidia, poiché col crescere del fondo depositato nelle Casse di risparmio, cominciarono a scatenarsi le competizioni invidiose fra gli enti e le persone che accampano diritti a ricevere in prestito così egregie somme. Finora lo Stato, il quale ha avuto il merito di canalizzare e di concentrare in un unico fiume magnifico i mille e mille rivoli del piccolo risparmio, ha saputo farsi la parte del leone, quando si è trattato di decidere l’impiego dei fondi accumulati; e per mezzo della Cassa dei depositi e prestiti, li ha impiegati nella compera di titoli di Stato, e in prestiti a Provincie e Comuni.
Ma non sono mancate le critiche vivaci a questo modo di usare i risparmi del medio ceto e della povera gente. È certo – si disse – che lo Stato compie opera benefica nell’eccitare e favorire il piccolo risparmio fornendo un mezzo sicuro di deposito delle somme minute a chi sta nei luoghi e nelle campagne lontane dalle città ricche di potenti istituti bancari. Ma d’altro canto non è a negare che lo Stato assorbe i capitali dei poveri e dei poco agiati per favorire le imprese di pochi Comuni; raccoglie i capitali della campagna per riversarli nelle città. Ottimo raccoglitore, lo Stato è un distributore ingiusto, egoista, anti-sociale. Occorre quindi mutar metro e andare alla ricerca di qualche sistema che tolga lo sconcio.
Fece gran rumore qualche anno fa la Riforma Agraria dell’onor. Maggiorino Ferraris, il quale voleva che una parte dei fondi delle Casse postali di risparmio fosse destinata a prestiti agli agricoltori da concedersi dagli Uffici postali sotto la dipendenza di un Istituto agrario. I risparmi venuti dalla campagna sarebbero ritornati a fecondare la terra; ed impiegati sul luogo avrebbero cresciuto la ricchezza del gruppo sociale ove essi avevano avuto origine. Il progetto di riforma agraria del Ferraris fu lodato assai in via teorica, ma parve troppo colossale e troppo accentratore per potersene iniziare l’attuazione, sicché esso faticosamente si trascina di sessione in sessione senza che la Camera trovi mai il momento di discuterlo.
Ora è la volta del cav. Francesco Sessini, capo-sezione nel servizio risparmio al Ministero delle poste, il quale in un progetto suo – che ebbe la cresima della presentazione alla Camera dall’on. Turati e forma ora oggetto di interessanti polemiche fra la Tribuna di Roma e l’Economista di Firenze – propone che in parte il fondo del risparmio venga volto alla creazione dei Monti di Pietà postali o Casse postali di pegni.
Il povero – riassumiamo il ragionamento del Sessini – nei giorni di bisogno difficilmente trova prestiti a ragionevoli condizioni. Il credito personale gli è negato; ed anche a quelli che posseggono qualche oggetto mobile, monili di oro ed argento, ben di rado soccorre il Monte di Pietà. In tutto il regno abbiamo solo 533 Monti su 8.266 Comuni, uno su sedici Comuni.
Cinque intere provincie (Sondrio, Sassari, Porto Maurizio, Grosseto, Massa Carrara) ne sono sprovviste. Fatto il viaggio per giungere sino al Monte, occorre pagare interessi usurari; il tasso normale è del 6 per cento, ma vi sono quarantacinque Monti che richiedono dal 7 al 10 per cento, e sempre bisogna aggiungervi le sovratasse e i diritti accessori, sicché per le piccole somme il tasso complessivo è enorme. Si aggiunga che 89 Monti imprestano solo da 50 a 100 lire, 119 solo fra 100 e 1.000 lire e 6 da 1.000 a 10.000 lire. Solo l’aristocrazia delle classi operaie può ottenervi credito. Ogni anno dal 6 al 7 per cento dei pegni viene abbandonato e ciò si spiega pensando alla mancanza di mezzi ed alla lontananza dei Monti. A tutto ciò si dovrebbe provvedere coi Monti postali di Pegno. Si istituiscano 69 Magazzini provinciali ai quali facciano capo i singoli uffici e collettorie postali. Lo Stato, che riceve il denaro al 2,64 per cento, potrebbe concedere pegni al 4 o 5 per cento, ritraendone maggior vantaggio che non dai prestiti ai Comuni, fatti al 3 od al 3 e mezzo per cento. Gli oggetti potrebbero essere spignorati in qualunque Ufficio del regno, mercé adatte corrispondenze fra i Magazzini provinciali. La posta verrebbe ad aggiungere così un’altra alle funzioni sociali e di credito di cui è incaricata.
Ma è appunto questa estensione continua delle funzioni della posta che rende assai dubbiosi sull’accettazione di questo o di altri metodi nuovi per usufruire i denari delle Casse postali di risparmio. La posta è davvero organizzata così perfettamente, che si possono accollarle sempre nuove funzioni? Tutti quelli che hanno da fare con essa sono convinti del contrario. I capi della burocrazia impiegherebbero meglio il loro tempo non ad inventare nuove faccende da assumersi, ma a semplificare e fare bene quelle cose di cui sono già incaricati. Il miglioramento dei locali, la rapidità delle consegne delle corrispondenze, sono cose che spesso lasciano a desiderare e che potrebbero essere migliorate con una più pronta e moderna organizzazione dei servizi. La riduzione delle tariffe postali e telegrafiche potrebbe richiedere tutta una riforma nell’ordinamento dell’azienda. L’aggiungere un servizio nuovo, non facile ed ingombrante parecchio, come quello dei pegni, gioverebbe a disperdere le forze ed a togliere energie al servizio essenziale delle corrispondenze e del telegrafo.
Una nuova burocrazia dei periti dovrebbe essere creata; e nuove divisioni e sezioni al Ministero di Roma. Tutto ciò certo servirebbe ad accelerare le carriere degli impiegati centrali, ma non si sa quale beneficio arrecherebbe alla posta. Nei piccoli centri gli ufficiali postali sbrigano di malavoglia le poche operazioni occorrenti sui libretti della Cassa nazionale per la vecchiaia; ed è occorso a chi scrive di non essere riuscito in un borgo a creare per un operaio uno di questi libretti, sicché si dovette compiere direttamente l’operazione. Immaginiamoci come sarebbe ben visto tutto il nuovissimo ingombro dei pegni!
Eppoi, è davvero tanto meritevole di incoraggiamento e di diffusione il credito su pegno? Talvolta corrisponde ad un bisogno vero, ma quante più volte la possibilità di impegnare gli oggetti mobili non favorisce lo spreco, l’infingardaggine ed il giuoco! Chi è che ci assicura contro la possibilità che gli uffici postali non diventino altrettante succursali del botteghino del lotto?
Né occorre dimenticare una cosa: che i milioni consacrati ai pegni andrebbero distolti da altri impieghi. Oggi i Monti di Pietà esistenti danno prestiti su pegno per circa un centinaio di milioni all’anno. È probabile che lo Stato, con tanto maggior numero di uffici aperti, non avrebbe una cifra di affari minore. Sarebbero quindi cento milioni che lo Stato oggi impiega in mutui a Comuni o in compra di titoli che impiegherebbe in pegni. Quale è la migliore delle due forme di impiego? Noi non esitiamo a schierarci in linea generale per la prima. I Comuni possono prendere a mutuo per delle spese pazze e superflue; ma di solito ricorrono al credito per costruir strade, edifici scolastici, per impiantare imprese municipali, per rimborsare prestiti contratti a tasso più oneroso. Ora chi non vede l’utilità di questi prestiti per l’educazione del popolo, per il progresso del commercio e dell’agricoltura, per i contribuenti? Vi saranno dei casi di mala amministrazione, ma giova sperare non siano la regola. Rimane l’impiego in titoli di rendita. Contro di essi si è gridato molto, quasi che i denari impiegati dalle Casse postali di risparmio nell’acquistar rendita andassero immobilizzati e persi per il paese. Si ode sempre dire che nelle Casse postali giacciono inoperose parecchie centinaia di milioni di lire immobilizzate in rendita. In realtà non giacciono nient’affatto inoperose, perché la Cassa, acquistando rendita, ha dato i denari ai venditori, i quali li avranno impiegati nel modo che credevano più opportuno, ma certo in qualche modo li hanno impiegati. Questi titoli sono utilissimi per le Casse di risparmio, perché sono facili a realizzarsi e rappresentano impieghi solidi.
I mutui su pegno hanno caratteri tali da renderli preferibili agli impieghi ora detti? Non sembra, perché in definitiva gli attuali impieghi giovano alla produzione della ricchezza, mentre il mutuo su pegno favorisce il consumo. Talvolta può trattarsi di un consumo necessario e pietoso; ma spesso sarà invece un consumo superfluo.
Forse la verità deve ricercarsi altrove che non nel modo d’impiego del fondo delle Casse di risparmio. Oramai lo Stato italiano ha finito per accumulare troppe somme a titolo di risparmio. Nelle campagne, dove non vi è sviluppo di Banche, questo può essere un fatto necessario. Ma nelle città, non sarebbe meglio che lo Stato non facesse troppa concorrenza alle Casse di risparmio ordinarie, alle Banche popolari, ecc., che meglio potrebbero impiegare i risparmi del popolo? Questo è il punto che andrebbe sviscerato, ma temiamo forte che la burocrazia voglia decidersi non a crescere ma a diminuire le proprie funzioni.