La conquista commerciale dell’Eritrea
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 25/10/1906
La conquista commerciale dell’Eritrea
« Corriere della sera», 25 ottobre 1906
Abbiamo sott’occhio un documento di recente pubblicato nel Bollettino Ufficiale della Colonia Eritrea: il Movimento del Commercio e della Navigazione nel 1905 del Porto di Massaua. Ogni anno noi commentiamo le statistiche commerciali italiane per trarne argomento e considerazioni pessimistiche od ottimistiche intorno allo sviluppo delle nostre industrie ed all’indirizzo delle correnti internazionali di scambio; sicché non sembra fuor di luogo lo studiare altresì come il traffico si svolga nel massimo porto della nostra principale colonia ed anzi nel porto attraverso a cui passa la quasi totalità del commercio internazionale dell’Eritrea.
A furia di sentir ripetere che l’Eritrea non val nulla economicamente l’opinione pubblica italiana in genere si era abituata a credere non valesse la pena di interessarsi di quella colonia e di studiarne le possibilità commerciali. Quanti hanno visitato le sale eritree nella Mostra degli italiani all’estero nell’Esposizione di Milano, hanno fatto giustizia sommaria del preteso non valore economico dell’Eritrea; tante sono le prove ivi accumulate delle notevoli e svariate ricchezze attuali e delle maggiori ricchezze che potrebbero sorgere nella nostra colonia. Coloro i quali prendono in mano questo fascicolo del traffico del Porto di Massaua, si persuaderanno di un altro fatto assai interessante: che gli industriali ed i commercianti italiani hanno cominciato per conto proprio a far giustizia dell’opinione comune che l’Eritrea sia un ammasso inospitale di sabbie e di pietre; ma, sta pure sotto la spinta di condizioni privilegiate, hanno dato inizio ad un lavoro fecondo di penetrazione economica, che potrà fruttificare assai in avvenire e che intanto appare assai confortante.
E valga il vero: il Porto di Massaua ha avuto nel 1905 un movimento generale, compreso il transito, di 12.909.181 lire all’importazione e di 6.772.440 lire all’esportazione. Non è quanto potrebbe dare l’Eritrea, qualora le vie di comunicazione ed i progressi agricoli permettessero uno sviluppo maggiore del consumo e del commercio; ma è più di quel che molti probabilmente immaginano. Di questo movimento l’Italia assorbì 3.542.184 lire all’importazione ed 812.334 lire all’esportazione. Se noi escludiamo il transito, che per ora si compie solo coll’Arabia, Aden, l’India, ecc., e ci limitiamo alle merci che sono importate dall’Eritrea o che dall’Eritrea prendono origine, troviamo che l’Italia viene, dopo l’India, seconda nel commercio di importazione con lire 3.471.318 su un totale di lire 9.152.105; e pure seconda, dopo Aden, nel commercio di esportazione con L. 782.572 su L. 3.015.364. Quasi il 38 per cento dell’importazione ed il 25 per cento dell’esportazione del porto di Massaua è, in mano dell’Italia. La qualcosa, se non ha tutto quel significato che potrebbe avere ove la forte corrente di traffico italiano non fosse determinata in parte da privilegi doganali e in parte dall’esistenza del nucleo di militari e di impiegati italiani coloniali ha però un significato notevole se si bada alla natura delle merci e delle derrate che costituiscono il nostro traffico con l’Eritrea.
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Bisogna notare infatti – e lo avverte anche il dott. Boldrati nel suo utilissimo catalogo dei prodotti di importazione nella Colonia Eritrea, esposti alla Mostra di Milano – che i generi di prima necessità, come il frumento, le farine, gli ortaggi, i quali fino a pochi anni fa figuravano nella importazione per cifre notevoli, oggi o non figurano affatto, o figurano per quantità insignificanti; e che le cifre rilevanti degli anni più lontani da noi sono dovute in buona parte ai consumi di un contingente di truppe assai più considerevole dell’attuale. Dato ciò, le cifre del commercio d’importazione acquistano un nuovo rilievo, perché esse denotano uno sforzo fatto dai nostri industriali per la conquista del mercato eritreo indigeno, non limitato più cioè al facile mercato degli italiani residenti in colonia. Per taluni prodotti il consumo si limita ancora agli europei, dato il prezzo proibitivo per gli indigeni; come per le acque minerali, di cui l’Italia importa per 8.417 lire su 8.813, per il vino (L. 354.843 su 361.216), per l’olio d’oliva (L. 51.942, tutte provenienti dall’Italia), per il tabacco lavorato (L. 46.891, id. id.), per i prodotti chimici e generi medicinali diversi (L. 20.046 su 23.064). Ma il sapone (L. 91.492 su 94.094) e` già entrato nelle consuetudini indigene; ma nei filati e tessuti l’Italia ha acquistato una bella posizione nel consumo locale. L’Italia importa per L. 10.727 su 13.297 di cordami di canape, L. 11.748 su 12.408 di tessuti di canapa greggi, L. 7.965 su 9.212 di tessuti di canapa idrofughi, i quali servono a fare la ghirte, cioè recipienti per il trasporto di acqua. Nei tessuti di cotone greggi è stata specialmente significante la nostra vittoria. Nel 1903 se ne importarono nell’Eritrea per L. 2.032.176, di cui L. 1.438.561 dall’India, L. 591.478 dagli Stati Uniti e L. 2.137 dalla Gran Bretagna. Nel 1904 la Gran Bretagna scompare, gli Stati Uniti riducono le loro vendite a lire 126.822 e se l’India mantiene le sue posizioni con lire 1.520.191. l’Italia, con un passo da gigante, balza a L. 1.606.155. Così pure nei tessuti di cotone imbianchiti operati o graticolati, l’Italia, che nel 1903 e nel 1904 non faceva affari, nel 1905 importa L. 168.853 su 181.613.
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Altre cifre potremmo andar spigolando; e potremmo mettere in rilievo la superiorità acquistata nei lavori in legno, nel legno comune segato, nelle pelli conciate e nei lavori in pelle, nei lavori in ghisa ed in altri metalli, nelle macchine diverse, utensili, ecc., nelle maioliche, terraglie e porcellane, nei lavori e contenerie di vetro, nelle paste di frumento, nella frutta, legumi ed ortaggi conservati, nel latte sterilizzato, nel burro, nei formaggi. Ma non vogliamo tediare i lettori con una arida enumerazione di cifre. Certo queste cifre sono spesso piccole, aggirandosi sulle 10, 20 o 30 mila lre l’anno; ed è appunto la piccolezza delle cifre iniziali d’affari che si possono fare in colonie che trattiene molti industriali italiani nel tentare quella via. Ed hanno torto poiché la cosa più difficile è di sapersi impiantare sul mercato e fare apprezzare la bontà del proprio prodotto. Il consumo, una volta provocato, può crescere assai, rimunerando largamente chi abbia saputo perseverare. L’esempio dei tessuti di cotone greggi è significante. L’Italia ha conquistato il mercato eritreo, vincendo la concorrenza indiana ed americana, cosa nella quale non erano riusciti ne` gli inglesi ne` i francesi; il che significa come la nostra industria possa lavorare ad un costo abbastanza basso da essere accessibile alle borse degli indigeni. Ed è opinione diffusa della conquista del mercato italiano l’industria cotoniera italiana possa farsi una base per affermarsi potentemente nell’Etiopia, nell’Jermen e su tutte le coste del Mar Rosso. L’Italia potrebbe allora essere più largamente rappresentata in quel commercio di transito in cui ora essa figura solo per L. 70.866 all’importazione e lire 29.762 all’esportazione su un totale di L. 3.757.076. Questo è vero dei punti deboli della nostra azione commerciale nell’Eritrea: di non aver mai pensato a fare di Massaua un punto centrale di rifornimento per i commercianti indigeni del Mar Rosso, cosa la quale sarebbe possibilissima, a giudizio dei competenti, e non solo per le cotonate.
Nel commercio d’esportazione dall’Eritrea, la posizione dell’Italia potrebbe pure essere molto migliore. È vero che noi assorbiamo L. 782.752 su L. 3.015.364 ossia il 25 per cento; ma la quasi totalità delle merci che l’Eritrea esporta in Italia è data dalle pelli secche di bue (L. 685.497. Nelle altre esportazioni di prodotti dall’Eritrea, l’Italia quasi non figura: nulla o troppo scarsa essendo la sua partecipazione al commercio della madreperla, della tartaruga, delle unghie di pesce, delle collane di conchiglia, dell’avorio, del zibetto, della cera, delle penne di struzzo, delle pelli secche di capra e di bue, della gomma, del caffè che l’Eritrea produce; senza parlare di quelle molte altre produzioni indigene, la cui produzione e la cui esportazione sarebbero in colonia suscettibile di un forte aumento.
Certamente non si può affermare che l’Eritrea sia una colonia puramente di occupazione militare, e che vi si sviluppi solo il commercio relativo ai militari ed ai funzionari. La statistica del 1905 permette di constatare un confortante risveglio della penetrazione commerciale italiana sul mercato indigeno di quelle contrade. Ma si tratta ancora di inizio, al quale dovrebbe seguire uno sviluppo molto più largo. A questo progresso nella colonizzazione commerciale dell’Eritrea possa – è il nostro augurio – dare una forte spinta la Mostra di Milano!