Il nostro Debito Pubblico
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 26/02/1904
Il nostro Debito Pubblico
«Corriere della sera», 26 febbraio 1904
Oggi che lo scoppio della guerra russo-giapponese ha avuto, fra gli altri effetti, quello disgraziatissimo di rimandare la conversione della nostra maggiore rendita dal 5 per cento lordo al 3 e mezzo per cento netto, può essere interessante riassumere – sulle tracce di un elaborato e recentissimo rapporto del comm. Vincenzo Mancioli, direttore generale del Debito Pubblico – lo stato presente dei debiti dell’Italia. Numerosi e gravi sono senza dubbio questi debiti: al 30 giugno 1903 il capitale nominale raggiungeva i 12 miliardi e 762 milioni e l’onere per interessi i 574 milioni e 975 mila lire. Il blocco più forte è sempre dato dal Consolidato 5 per cento lordo con i suoi 7 miliardi e 997 milioni di capitale ed i 399 milioni di rendita annua. Seguono, a distanza, il Consolidato 4,50 per cento netto – ora convertito in 3 e mezzo per cento ad opera del Luzzatti – con 1.356 milioni di capitale e 61 milioni di rendita, il 4 per cento netto con 195 milioni di capitale e 7 milioni ed 830 mila lire di rendita, il 3,50 per cento netto con 197 milioni di capitale e 6.920.000 lire di rendita il 3 per cento lordo con 160 milioni di capitale e 4.803.000 lire di rendita. Allato viene la grossa pattuglia dei debiti inclusi separatamente nel Gran Libro del Debito Pubblico (Rendite antiche, asse ecclesiastico, Santa Sede, ecc.), con i suoi 333 milioni di capitale e 14.186.000 lire di interesse, fiancheggiata dal manipolo ancor più saldo e resistente dei debiti non inclusi nel Gran Libro (Obbligazioni ferroviarie, dei canali Cavour, del Tevere, del risanamento di Napoli) con ben 1.521 milioni di capitale e 52 milioni di rendita e rafforzato dai debiti amministrati dalla direzione generale del tesoro (Prestito inglese 3 per cento, Buoni dei danneggiati dalle truppe borboniche, annualità per il riscatto delle ferrovie dell’alta Italia, e Buoni del Tesoro a lunga scadenza) con 993 milioni di capitale e 27.526.000 lire di rendita annua. Una vera selva selvaggia di titoli piccoli e grossi che, a tener conto di tutte le emissioni e le serie diverse, salgono a ben settantacinque. Sarebbe curioso rintracciare le origini di tutti questi debiti: vedere quanta parte di essa sia dovuta agli antichi regimi, quanta alle guerre dell’indipendenza, quanta alle costruzioni ferroviarie, ecc., ecc. A cagion d’esempio, basti citare alcuni dati per il Consolidato 5 per cento. Ebbe origine questo massimo debito nostro per 113 milioni di rendita dall’unificazione degli antichi debiti dei cessati Stati italiani: per 126 milioni da prestiti per far fronte ai «deficit» di bilancio, per 54 milioni da riscatti e costruzioni di ferrovie, per 3.473 lire dal riscatto delle piazze privilegiate in Piemonte di procuratore, di liquidatore e di misuratore, per 6.749.000 lire dalla devoluzione al demanio dello Stato di beni della cassa ecclesiastica, per 13.854.000 lire per il patrimonio delle corporazioni religiose soppresse passato al demanio, per 11.386.000 lire dalle conversioni di beni immobili di enti morali ecclesiastici non soppressi, per 560 mila lire per l’asse ecclesiastico di Roma, per lire 5.235.000 dell’indennità a Torino e Firenze per il trasporto della capitale, per 9.800.000 lire dall’indennità all’Austria dopo il 1866, per 466 mila lire da assegni a famiglie già regnanti in Italia, per 59.951.000 da operazioni finanziarie colla Banca Nazionale, per 6.162.000 lire dalla conversione di debiti redimibili, per 10.168.000 lire dalla conversione di obbligazioni delle ferrovie romane, per 875 mila lire dal riscatto dei canali Cavour, per 50 mila lire dal dono nazionale a Garibaldi per 27.153.000 lire dalla liquidazione della cassa pensioni per gli impiegati, ecc. È tutta la storia recente d’Italia, con le sue glorie e le sue sconfitte, con l’accettazione eroica dell’eredità passiva degli antichi regimi, e con i dolori e le follie dei disavanzi, che si riverberarono in questo massimo titolo nostro di cui si inscrissero nel Gran Libro dal 1861 al 30 giugno 1903 per 446 milioni di rendita annua. Togliendone 46.720.000 lire annullate in massima parte perché sostituite da titoli 4 e mezzo e 4 per cento, abbiamo la consistenza odierna di quasi 400 milioni di rendita annua lorda e 320 milioni di rendita netta, oggetto di tante cure e di tanti pronostici dei ministri e dei finanzieri italiani. Quali le speranze per il futuro? Ottimo è il pronostico che si può ricavare dalla proporzione dei pagamenti che si fanno all’estero rispetto ai pagamenti fatti all’interno. Anche nell’ultimo anno ne è continuata la progressione discendente. Dal massimo di 192 milioni nel 1892-93 per il complesso dei debiti amministrati dalla direzione generale del debito pubblico si era già discesi nel 1894-95 a 102 milioni grazie all’espediente dell’affidavit: ma la diminuzione progredì per gli incessanti acquisti fatti dagli italiani di titoli nostri; sicché dopo esser discesi nel 1901-2 a 70 milioni e 475 mila lire, nell’esercizio 1902-3 siamo ad appena 54 milioni e 461 mila lire. È la cifra più bassa dopo il 1875. La proporzione dei pagamenti fatti all’estero rispetto ai pagamenti totali, che nei successivi quadrienni dopo il 1875 era stata del 194, 217, 242, 341, 391, 224 e 211 per mille, fu nel 1902 – 3 di appena il 116 per mille. Né pare che la discesa voglia fermarsi a questo punto. Confortevole pure è la tendenza dei possessori di Consolidato a preferire la forma nominativa a quella al portatore. Mentre nel 1896 la rendita nominativa 5 per cento stava a quella al portatore come 71 a 100, ora la proporzione è di 98 a 100; segno evidente che i risparmi italiani non soltanto sono causa del rimpatrio dei titoli dall’estero, ma vogliono investirsi stabilmente in rendita malgrado le minacce di conversione. Il Consolidato italiano ha quasi cessato di essere strumento della speculazione internazionale e lasciando questa non invidiabile funzione alle rendite russe, spagnuole e sud-americane, si è come dicono i trattatisti – classificato, ossia distribuito quasi tutto fra i veri capitalisti, i quali l’hanno comprato e lo detengono a scopo di investimento stabile. Invidiabile condizione codesta che è il presupposto primo delle grandi conversioni.