L’esame di coscienza della municipalizzazione
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 18/08/1908
L’esame di coscienza della municipalizzazione
«Corriere della sera», 18 agosto 1908
È cominciato da qualche tempo in Inghilterra, la patria, tanto spesso citata, degli sperimenti più celebri di municipalizzazione, ed ha condotto alla strepitosa vittoria contro i progressisti municipalizzatori di Londra.
E sta cominciando anche in Italia, dove, alcuni anni or sono, quando fu approvata la legge del 29 marzo 1908, la municipalizzazione sembrava un articolo di fede, ed i suoi avversari erano guardati con occhio sospetto, quasi fossero avvocati difensori agli stipendi di monopolisti ingordi. La controversia oggi tende a farsi più serena ed alta. Non è più fra conservatori e democratici, fra amanti del privilegio privato e tutori dell’interesse pubblico, fra avversari ed avvocati del proletariato. Le iniziative ardite prese da alcuni Municipi, dove sono al potere i conservatori liberali, fra cui si trova in primissima linea Milano, provano che la controversia si agita e deve agitarsi fra persone, tutte amanti del pubblico bene, desiderose tutte di elevare le condizioni di vita delle masse, le quali disputano soltanto, sulla base di dati precisi e di argomentazioni spassionate, quale sia la miglior via a tenersi per ottenere il massimo utile per la società: se l’esercizio diretto in economia, o la costituzione di enti autonomi, o la concessione ben disciplinata ad intraprese private. Nessuno ritiene più che, grazie ad una mistica e misteriosa virtù, i Municipi abbiano sempre ad essere i migliori gestori dei servizi pubblici: e si comincia ad analizzare criticamente ogni progetto che venga alla luce, esaminandone i difetti ed i vantaggi tecnici ed economici, procurando di star lontano dalle diatribe verbose di parte.
Purtroppo però questo spirito critico ed imparziale nell’esame dei problemi della municipalizzazione non è finora abbastanza diffuso. Vi sono ancora molti i quali sottoscrivono ingenuamente od appassionatamente le proposizioni più sempliciste della fede municipalizzatrice, quelle, ad esempio, che si leggevano nella relazione ministeriale al disegno di legge che divenne poi la legge del 1903.
«Riduzioni di prezzi, profitti per i Comuni sono i due vantaggi massimi della municipalizzazione. Essi si verificano quasi costantemente nelle industrie esercitate direttamente dai Comuni italiani ed in misura assai notevole in Inghilterra, ed in Germania. L’esercizio comunale non è pericoloso esperimento: non importa un temibile rischio a cui vengono esposti i contribuenti. Innovazioni tecniche fondamentali non sono da prevedersi a breve scadenza ed in ogni modo i Comuni sono in grado di attuarle e di sopportarle. I patrimoni o fondi di esercizio delle aziende si costituiscono ordinariamente con mutui per la cui estinzione vengono adoperati in primo luogo i prodotti annui delle aziende medesime. Il di più, generalmente cospicuo, va, di solito, in detrazione delle imposte locali».
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Purtroppo queste affermazioni apodittiche, le quali hanno adesso un sapore marcatamente comico ed ironico per ognuno a cui sia giunta l’eco delle recenti controversie municipalizzatrici, sono ancora radicate nell’animo di molti italiani amministratori della cosa pubblica che non hanno avuto l’agio di addentrarsi in quelle controversie. Dobbiamo perciò salutare con gioia la comparsa di due libri, non di dottrina astratta ma di esperienza applicata, i quali giungono in buon punto a fornire armi formidabili di dati e di considerazioni a chiunque voglia criticamente ed imparzialmente studiare i problemi singoli della municipalizzazione. Vengono i due libri da due fonti diverse, per quanto ambedue scevre di preconcetti dottrinali e desiderose soltanto del massimo bene per il maggior numero. Il primo, «La municipalizzazione dei pubblici servizi in Inghilterra e agli Stati Uniti», comprende la maggior parte (120 pag.) del fascicolo luglio-agosto della rivista torinese La Riforma Sociale ed è un riassunto critico, fedele e diligente scritto da Attilio Cabiati, dei risultati a cui, in tre grossi volumi, è giunta una Commissione d’inchiesta nominata in America per lo studio delle municipalizzazioni inglesi ed americane. È forse quest’inchiesta la miniera più vasta di notizie e di raffronti sull’arduo problema; e noi dobbiamo essere veramente grati al Cabiati di averne esposto i risultati al pubblico italiano, arricchendo il suo accurato compendio con un acuto capitolo finale, in cui egli cerca di coordinare quei risultati e trarne il maggior frutto possibile. L’altro volume è una traduzione dall’inglese (pubblicata nella Biblioteca della Rivista Minerva, Roma) dell’operetta di Lord Avebury sn. «Le industrie dello Stato e dei Municipi». Lord Avebury è il nome più recente assunto, quando fu elevato alla dignità di pari inglese, da John Lubbock, il famoso naturalista, autore di volumi celebrati, già volti in lingua italiana, sui tempi preistorici, su la scienza della vita, ecc. ecc. Per chi non sapesse diremo che il Lubbock è di professione banchiere, capo di una delle più reputate ditte bancarie private della City di Londra, continuatore delle magnifiche tradizioni dei banchieri londinesi dalle cui fila uscirono Davide Ricardo, il principe degli economisti inglesi, il Grote, l’illustre storico della Grecia e tanti altri insigni della scienza. Il Lubbock fu il primo presidente del Consiglio della Contea di Londra, del corpo cioè che amministra la più grande agglomerazione cittadina del mondo. Il suo libro è frutto perciò dell’esperienza senza pari di uno scienziato che nella vita si trovò a capo di importanti imprese private e di colossali interessi pubblici: ed è ricco del mirabile buon senso inglese, di osservazioni calzanti e di esempi appropriati. Il valore ne è accresciuto da una bella appendice, dovuta alla penna di Alberto Geisser, un torinese che sa divulgare per le stampe una notevole esperienza acquistata nelle aziende private e nelle amministrazioni pubbliche. In Inghilterra abbondano i cultori non accademici della scienza economica, di cui uno degli esemplari migliori è appunto il banchiere Lord Avebury, i quali sanno applicare la scienza universitaria ai fatti da loro sperimentati e ne cavano osservazioni utilissime anche ai teorici. In Italia invece, dove la scienza economica è quasi soltanto coltivata da professori e da burocratici delle pubbliche amministrazioni, noi abbiamo spesso una teoria infeconda baloccantesi colle parole e molte applicazioni a casi irreali, faticosamente elaborate sugli scrittoi ministeriali, a giustificare nuovi vincoli all’intraprendenza individuale ed al progresso libero delle industrie. Io vorrei perciò che numerosi industriali, ingegneri, banchieri, commercianti privati, si decidessero a mettere in carta le loro idee ed i fatti da loro conosciuti e ci dessero delle monografie, simili a quella pubblicata dal Geisser in appendice al libro di Lord Avebury, ben degna di stare alla pari cogli scritti migliori della analoga letteratura inglese. Sarebbe un antidoto efficace contro la stucchevole inondazione di titoli, accademici per concorso, che ha reso così noiosa ed antipatica la scienza economica al pubblico italiano.
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Orbene, che cosa dicono queste due opere ricche di tanta dottrina ed esperienza? Il Cabiati riassume tutto il miglior costrutto che si può ricavare dall’opera della Commissione d’inchiesta americana, citando una frase del Poincarè, uno dei maggiori fisici viventi, intorno al calcolo delle probabilità: «Esso ci insegna sovratutto una cosa: ad essere consapevoli che noi non sappiamo nulla». «Se, dopo avere studiato minutamente sul luogo centinaia di casi di municipalizzazioni, i commissari americani sono stati condotti a conclusioni così negative, ben gravi insegnamenti se ne debbono ricavare. Sovratutto questo: che il processo è tutt’altro che finito e che gli amministratori della cosa pubblica debbono andare ben guardinghi prima di avventurarsi su una via la quale sarà probabilmente seminata di acutissimi triboli e di disinganni acerbi. Quali siano per essere questi triboli e questi disinganni, è detto in modo evidente da Lord Avebury e dal Geisser. Riportiamo i principali dubbi che scienza ed esperienza mettono innanzi: 1) Le funzioni e gli obblighi imposti dalle leggi alle amministrazioni municipali non sono già sufficienti, ed anzi più che sufficienti ad assorbire ogni loro energia e tutto il loro tempo? Non è quindi pericoloso di affidare ad esse nuove funzioni delicatissime, rischiose ed estranee alle ordinarie faccende pubbliche? – 2) La assunzione di imprese municipali non implicherà un enorme aumento dei debiti municipali? Se nell’Inghilterra grande è lo spavento perché i debiti municipali son cresciuti da lire 4.867.460.000 nel 1883-84 a lire 11.828.180.000 nel 1903-904, dubitandosi che non tutte le imprese municipali, sorte in virtù dei debiti, siano remunerative, quanto maggiore non dovrà essere il timore in Italia, dove è scadente l’educazione pubblica e dove quindi è massimo il pericolo delle imprese elettorali, sbagliate, popolaresche? – 3) Quali saranno i rapporti fra i Municipi assuntori di pubblici servizi e le crescenti falangi dei loro dipendenti? In Germania il problema appare meno grave, solo perché le amministrazioni municipali sono formate di elementi tecnici quasi indipendenti dal corpo elettorale; e poiché gli elettori sono divisi in classi censuarie siffattamente foggiate da dare la prevalenza a coloro che pagano più imposte. Brema, Amburgo, Lubecca, città libere, hanno recentemente riformato il sistema elettorale, in guisa che i contribuenti maggiori non corrono il rischio di essere spogliati col mezzo della vendita al disotto del costo dei pubblici servizi. Ma in Inghilterra – dove il suffragio, per quanto ristretto agli abitanti stabili e permanenti delle città, non comporta differenze per censo – sono divenuti preoccupanti i pericoli dell’azione elettorale dei dipendenti dei Municipi. Leghe speciali si costituiscono fra costoro, per costringere i candidati alle cariche pubbliche a promettere aumenti di salario, ed altri vantaggi. Quale sarà la sorte delle imprese municipalizzate strette fra l’incudine degli operai ed impiegati chiedenti salari più elevati e minori ore di lavoro, e il martello dei consumatori, anch’essi muniti del diritto elettorale e desiderosi di diminuzioni un prezzo? 4) è possibile costituire organismi direttivi delle imprese municipali così intraprendenti, così economi come sono i dirigenti delle imprese private? Se ciò è difficile, non val meglio che il Comune si disinteressi dell’esercizio e cerchi di ottenere il massimo vantaggio da accorte concessioni temporanee ad imprese private? Gli esempi splendidi del contratto del Municipio di Milano con la Società Edison per l’esercizio delle tramvie, e delle concessioni del gas a due Società, sapientemente congegnate, della città di Torino, in guisa da costringerle a ridurre il prezzo del gas a 12 cent. al m.c., ossia ad uno dei più bassi prezzi del mondo minore di quello praticato in grandi città situate in mezzo a bacini carboniferi, costituiscono una alternativa degna di studio alle municipalizzazioni dirette. – 5) L’assunzione di intraprese industriali da parte dei Municipi non creerà un monopolio in mano di questi ultimi e non li spingerà a difenderlo, ostacolando le nuove invenzioni tecniche che potessero minacciarlo? Questa accusa gravissima eleva Lord Avebury contro i Municipi inglesi, i quali, per difendere i propri gazometri, avrebbero ostacolate le applicazioni elettriche, mettendo l’Inghilterra alla coda ed a lunga distanza degli Stati Uniti, della Svizzera, della Germania ed anche dell’Italia. L’accusa fu oppugnata, ma con ragionamenti poco solidi, e rimane per ora in tutta la sua forza.
Potremmo continuare nel novero dei dubbi. Chi cerchi più ampio svolgimento del problema legga i suggestivi volumetti del Cabiati e di Lord Avebury-Geisser. Appositamente diciamo «dubbi» e non «critiche»; poiché se è passata l’ora degli entusiasmi irriflessivi, non dobbiamo abbandonarci ad uno scetticismo che sarebbe altrettanto ingiusto. Ogni problema di municipalizzazione va studiato a sé, nei suoi meriti e demeriti specifici.
E siano chiamati a studiarlo tecnici ed amministratori provati; non parolai ed accademici. Od almeno costoro sappiano conservare la modestia che è adatta a coloro che non sanno. Solo così l’Italia potrà evitare i pericoli in cui sono incorsi altri paesi e dar vita a soluzioni efficaci e benefiche all’universale.