Opera Omnia Luigi Einaudi

I problemi economici della federazione europea

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1945

I problemi economici della federazione europea
Ed. La Fiaccola, Milano, 1945

 

 

 

 

«Avec le principe sacré de la liberté du commerce, tous les prétendus intérêts de posséder plus ou moins de territoire, s’évanouissent par ce principe, que le territoire n’appartient point aux nations, mais aux individus; que la question de savoir si tel canton, tel village doit appartenir à telle province, à tel Etat, ne doit être décidée que par l’intérêt qu’ont les habitants de tel canton, de tel village, de se rassembler pour leurs affaires dans le lieu où il leur est le plus commode d’aller». Turgot

 

 

CAPITOLO I

I COMPITI ECONOMICI DELLA FEDERAZIONE

 

1. Necessità di elencare tassativamente i compiti

 

Federazione europea dal punto di vista economico vuol dire attribuzione alla autorità federale di alcuni compiti economici definiti tassativamente nel documento costitutivo della federazione, definiti cioè in modo tale che la autorità federale abbia soltanto il potere di attendere ai compiti compresi nell’elenco, tutti gli altri non elencati rimanendo di competenza dei singoli stati federati. Giova perciò, allo scopo di attenuare i sospetti ed i timori di larghe correnti di opinione o di forti gruppi di interessi, ridurre al minimo assolutamente necessario il numero dei compiti attribuiti alla federazione fin dal principio. Col tempo, l’esperienza fatta ed il consenso crescente dei popoli consentiranno che l’elenco di quei compiti venga allungato osservando le formalità prescritte per l’approvazione di emendamenti alla costituzione federale; formalità che saranno certamente non facili ad osservare: maggioranza speciale, superiore alla metà dei voti delle due camere del parlamento federale, maggioranza speciale degli stati federati espressa con modalità particolare. Se gli ostacoli all’approvazione degli emendamenti saranno superati, ciò accadrà perché l’estensione dei compiti dell’autorità federale sarà entrata nella coscienza della grandissima maggioranza dei cittadini della federazione ed insieme dei cittadini della massima parte degli stati federati, persuasi dei benefici ottenuti dall’esperienza passata. Frattanto giova che la esperienza iniziale sia ristretta a quei compiti senza adempiere ai quali la federazione sarebbe praticamente non esistente.

 

 

2. Posta, telegrafi, telefoni, trasporti internazionali per ferrovia, per mare, per aria, su canali e su fiumi. Quid delle forze idrauliche?

 

Alcuni di questi compiti hanno indole tecnica e sono quelli che già sin d’ora sono internazionalizzati od il difetto della internazionalizzazione dei quali fa apparire, con la forza dell’evidenza intuitiva, anacronistica la persistenza nel mondo contemporaneo degli stati singoli sovrani: la posta, il telegrafo, il telefono, il regolamento dei trasporti interstatali per ferrovia, per fiumi e canali navigabili, per mare e per aria. Una amministrazione postale telegrafica e telefonica federale può evidentemente gestire questi servizi, di natura evidentemente tecnica, con molto più economicità e in modo assai più efficace di quanto possa accadere con amministrazioni separate. Ed è chiaro anche come il regime dei laghi alpini, dei grandi fiumi come il Danubio, il Rodano, l’Elba, il Reno ed, attraverso il Ticino, il Po, possa essere meglio regolato da una autorità federale, la quale tenga conto di tutti gli interessi particolari e possa disporre le opere d’arte necessarie nei luoghi più adatti, che non da singoli stati gelosi custodi di interessi locali non sempre coincidenti con quelli generali. I problemi connessi con il regime degli stretti e del sorvolo aereo degli spazi territoriali nazionali trovano una soluzione nell’ambito federale assai più agevole che non nel contrasto fra i singoli stati sovrani.

 

 

Oggetto di controversia può essere il punto se anche il regolamento delle forze idrauliche debba diventare materia federale; e pare ovvio che all’autorità federale debba essere attribuito il regolamento di quelle forze idrauliche le quali derivano o sono strettamente connesse con il regolamento dei laghi e dei fiumi interstatali. Per le altre forze idrauliche i pareri possono essere discordi, ai vantaggi connessi con la possibilità di utilizzare, con scambi opportuni, al massimo le forze aventi origine in territori statali diversi e periodicità diversa di massime e di minime stagionali, contrapponendosi da taluno l’opportunità di non offendere troppo i sentimenti di priorità e di proprietà propri delle popolazioni in cui le forze idrauliche sono localizzate. E costoro perciò sostengono essere meglio rinviare, a scanso di opposizioni iniziali, la federalizzazione delle forze idrauliche, fatta la eccezione sopradetta, ad un momento futuro.

 

 

3. Moneta e surrogati della moneta. Vantaggi del trasferimento alla federazione

 

Non parrebbe controversa la devoluzione alla Federazione del regolamento della moneta e dei surrogati alla moneta. Il disordine attuale delle unità monetarie in tutti i paesi del mondo, le difficoltà degli scambi derivanti dall’incertezza dei saggi di cambio tra un paese e l’altro e più dalla impossibilità di effettuare i cambi medesimi, hanno reso evidente agli occhi di tutti il vantaggio che deriverebbe dall’adozione di un’unica unità monetaria in tutto il territorio della Federazione. Se dappertutto in Europa o almeno nell’Europa federata, si ragionasse e si conteggiasse e si facessero prezzi di beni e di servigi, ad esempio, per adoperare una parola neutra, in lire zecchine, quanta semplificazione, quanta facilità nei pagamenti, nei trasferimenti di denaro, nei regolamenti dei saldi! Nel caso che, l’autorità federale intendesse ritornare al sistema aureo, ciò vorrebbe dire avocazione all’autorità medesima del diritto di adottare l’unica nuova unità monetaria d’oro ed i necessari sottomultipli divisionari d’argento, di nikel, di rame per i minuti pagamenti, come pure del diritto di istituire un’unica Banca Centrale o di emissione incaricata di emettere i biglietti permutabili a vista in oro. Nel caso nel quale non si intendesse ritornare al tipo aureo, l’autorità federale, pur riservandosi il diritto di battere nuovamente ed eventualmente moneta d’oro, avrebbe sempre l’esclusività della battitura delle monete divisionarie d’argento, di nikel e di rame e della emissione dei biglietti della Banca centrale espressi nella nuova unità monetaria, pongasi la lira zecchina. Sarebbe abolito cioè il diritto dei singoli stati federati di battere moneta propria con denominazioni, pesi e titoli propri e di istituire banche centrali con diritto di emissione indipendente di biglietti. Potrebbe essere solo consentito che la zecca o la Banca centrale, agendo forsanco per mezzo di filiali locali, battesse esemplari di monete, con impronte diverse per ogni stato ma con denominazione, peso e titolo uniformi. Sarebbe ben chiaro che questa diversità avrebbe indole puramente sentimentale; ché i biglietti e le monete diversamente improntate sarebbero emessi esclusivamente dall’autorità federale e nella quantità da essa e non dai singoli stati fissata; e tutti dovrebbero essere mutuamente intercambiabili senza alcun ostacolo.

 

 

Il vantaggio del sistema non sarebbe solo di conteggio e di comodità nei pagamenti e nelle transazioni interstatali. Per quanto altissimo, il vantaggio sarebbe piccolo in confronto di un altro, di pregio di gran lunga superiore, che è l’abolizione della sovranità dei singoli stati in materia monetaria. Chi ricorda il malo uso che molti stati avevano fatto e fanno del diritto di battere moneta non può aver dubbio rispetto alla urgenza di togliere ad essi cosifatto diritto. Esso si è ridotto in sostanza al diritto di falsificare la moneta (Dante li avrebbe messi tutti nel suo inferno codesti moderni reggitori di stati e di banche, insieme con maestro Adamo) e cioè al diritto di imporre ai popoli la peggiore delle imposte, peggiore perché inavvertita, gravante assai più sui poveri che sui ricchi, cagione di arricchimento per i pochi e di impoverimento per i più, lievito di malcontento per ogni classe contro ogni altra classe sociale e di disordine sociale. La svalutazione della lira italiana e del marco tedesco, che rovinò le classi medie e rese malcontente le classi operaie fu una delle cause da cui nacquero le bande di disoccupati intellettuali e di facinorosi che diedero il potere ai dittatori. Se la federazione europea toglierà ai singoli stati federati la possibilità di far fronte alle opere pubbliche col far gemere il torchio dei biglietti, e li costringerà a provvedere unicamente con le imposte e con prestiti volontari avrà, per ciò solo, compiuto opera grande. Opera di democrazia sana ed efficace, perché i governanti degli stati federati non potranno più ingannare i popoli, col miraggio di opere compiute senza costo, grazie al miracolismo dei biglietti, ma dovranno, per ottenere consenso a nuove imposte o credito per nuovi prestiti, dimostrare di rendere servigi effettivi ai cittadini.

 

 

4. Di alcune riserve teoriche al governo federale della moneta

 

Il trasferimento alla Federazione del diritto esclusivo di battere moneta e di emettere biglietti non opererà da solo il miracolo di garantire ai popoli una moneta buona. Miracoli non accadono mai in materia economica. Ma la possibilità di falsificare l’unità monetaria scema con lo scemare delle probabilità di guerre e di rivolgimenti sociali violenti; epperciò scema in un sistema federale che toglie le cause di siffatti eventi od almeno le rende meno potenti. La grande pubblicità dei dibattiti nelle assemblee federali, il contrasto degli interessi regionali, il vigile controllo dei rappresentanti dei singoli stati contribuiscono al medesimo risultato.

 

 

Di fronte al quale cadono talune riserve le quali sono messe innanzi da un gruppo di teorici, particolarmente inglesi, di cui il più noto e rappresentativo è Lord Keynes, e che qui non è il luogo di discutere particolareggiatamente. Riassumendo, dicono costoro che ad un singolo stato può convenire in dati momenti, particolarmente di crisi, svalutare l’unità monetaria (cambi esteri variabili) e tenere fermi i prezzi all’interno, piuttosto che tener ferma l’unità monetaria (cambi esteri costanti) e lasciare ribassare i prezzi all’interno. Si dice che il primo metodo è più dolce e blando dell’altro, perché non ribassando i prezzi nominali all’interno non occorre ribassare i salari nominali in moneta. Nulla cambia alla sostanza delle cose, trattandosi solo di differenti metodi di ovviare o di limitare i danni delle crisi. Come bene afferma il Robbins, non occorre che i federalisti prendano posizione in tale delicata e difficile materia. Se, come si deve, spetterà all’autorità federale di regolare la materia monetaria, l’autorità medesima potrà, in casi particolarmente gravi, deliberare di fare omissioni particolari di biglietti circolanti o di allargare le aperture di credito da parte della banca centrale di emissione solo nel paese dove cotal metodo di cura apparisse conveniente e potrà in tal caso stabilire saggi particolari di cambio fra i biglietti la cui circolazione sia ristretta ad un solo stato ed i biglietti aventi circolazione federale. Ma si ricorda la riserva quasi solo per memoria essendo praticamente certo che in un grande stato federale quel metodo di cura delle crisi apparirà senz’altro sconsigliabile di fronte ad altri più efficaci, e che le crisi medesime saranno meno gravi di quel che siano in un mondo spezzettato ed irto di gelosie internazionali.

 

 

5. Delle imposte da attribuirsi alla Federazione. Dazi doganali ed accise. Esclusione dei contributi statali e di sovrimposte federali sulle imposte statali. L’imposta federale sul reddito netto totale. Esclusione di un’imposta successoria federale

 

Si può rimanere alquanto più incerti intorno alla attribuzione del diritto di stabilire imposte alla federazione. La regola che a questa spettino soltanto quei compiti i quali esplicitamente le sono assegnati nella Carta costituzionale deve essere approvata anche in questa materia. Se è facile l’accordo sul principio che la Federazione debba poter prelevare solo alcune date imposte elencate e nessun’altra, meno agevole è la risposta alla domanda: quali imposte elencare? Su un gruppo di esse non cade dubbio: poiché, come si vedrà subito, alla sola Federazione spetta il regolamento del commercio internazionale, così, per logica conseguenza, alla sola Federazione spetta l’esazione dei dazi doganali sulle merci importate dall’estero entro la nuova allargata linea doganale e di quegli eventuali rarissimi dazi di uscita sulle merci esportate all’estero e degli ancor più rari dazi di transito che venissero conservati o nuovamente istituiti. Ai dazi doganali sono parificati tutti i diritti di statistica, di registro, le sovratasse ferroviarie, portuali, fluviali, aeree gravanti sul trasporto di merci tra uno stato e l’altro e con l’estero, sotto la apparenza dei quali si possono mascherare impedimenti al traffico interstatale. Alla sola Federazione spetta di regolare, con imposte e tasse, questa materia. Per illazione altrettanto logica spetta unicamente alla Federazione il diritto di stabilire imposte sulla produzione o fabbricazione di merci all’interno (accise). Dazi sulle merci estere ed accise sono come fratelli siamesi, ché dove sono gli uni anche le altre forzatamente compaiono. Se un dazio di 1000 lire al quintale colpisce lo zucchero importato dall’estero, altrettanta accisa deve colpire lo zucchero fabbricato all’interno; altrimenti, se l’accisa fosse solo di 800 lire, nessuno comprerebbe zucchero estero e lo stato perderebbe il provento del maggior dazio; e se l’accisa fosse di 1200 lire, nessuno fabbricherebbe zucchero all’interno, ché tutti acquisterebbero lo zucchero estero. Bene la Federazione potrà stabilire, a suo criterio, accise di 1000, 800 o 1200 lire, ma deve, essa sola e non gli stati federati, essere padrona di decidere in argomento, se non si vuole che ognuno degli stati federali ad arbitrio annulli gli effetti della politica economica voluta dalla Federazione.

 

 

Sebbene sia accertato che i proventi doganali e delle accise sono stati bastevoli a sovvenire in passato ai bisogni di talune Federazioni (Stati Uniti d’America e Confederazione svizzera), si deve constatare che non sono più bastevoli oggi e che non v’ha ragione di affermare lo debbano essere in una futura Federazione europea. Un metodo che pare debba essere escluso è quello dei contributi degli stati federati, siffattamente misurati da bastare al disavanzo fra le spese federali ed il gettito dei dazi ed accise. Le esperienze fatte nella Federazione australiana e quelle che, in materia analoga, si possono ricordare per i rapporti fra stato, comuni e province nel Regno delle due Sicilie ed in Toscana dimostrano le difficoltà di sovvenire congruamente in tal modo ai bisogni federali senza eccitare malcontento e resistenza negli stati federati. Nemmeno sembra conveniente dare alla Federazione il diritto di sovrimporre con decimi o centesimi addizionali sulle imposte statali; ché la distribuzione delle imposte sui cittadini europei varierebbe da stato a stato a seconda della gravezza delle imposte e dei metodi di accertamento usati nei singoli stati. All’identico servizio pubblico federale contribuirebbero qua, dove l’imposta statale è fortemente progressiva, più i ricchi e meno i modesti contribuenti, là, dove l’imposta statale è proporzionale o blandamente progressiva, meno i ricchi e più i modesti, con offesa al principio della uguaglianza fra tutti i cittadini appartenenti alla federazione. La soluzione che finì per imporsi nelle maggiori Federazioni (USA) e che converrebbe accogliere sin dal principio nella Federazione europea, pare sia l’attribuzione a questa del diritto di stabilire in concorrenza, ossia contemporaneamente ai singoli stati federati, una propria imposta a base generalissima, che il consenso pressoché universale addita nella imposta sul reddito netto complessivo dei cittadini. Nulla di male accadrà se la Federazione e i singoli stati, adoperando il medesimo strumento tributario, lo applicheranno con criteri differenti rispetto alla graduazione (progressività), ai minimi esenti, alle detrazioni per oneri di famiglia, per assicurazioni, per debiti, e ai metodi di accertamento. La varia esperienza la quale così si farà, l’emulazione nella ricerca e nell’accertamento della materia imponibile non mancherà di produrre il buon effetto di additare a poco a poco alla Federazione ed agli stati federati la via migliore comune da seguire.

 

 

Data la elasticità e la larghissima base della imposta sul reddito, non pare consigliabile di dare alla Federazione le facoltà di esigere altre imposte; nemmeno quelle successorie, le quali dovrebbero essere riservate ai singoli stati troppo stretti essendo i legami di esse col diritto di famiglia e delle successioni, che ogni stato continuerà a regolare secondo le proprie tradizioni storiche e i propri ideali sociali.

 

 

6. Il regolamento federale dei trasporti delle cose e delle persone. Duplice contenuto di esso.

 

Più vivaci i dubbi opposti all’attuazione del postulato fondamentale: alla sola Federazione spetta il regolamento dei trasferimenti di persone e di cose fra l’uno e l’altro stato federato e fra la Federazione e l’estero. Due sono le affermazioni contenute nel postulato. In primo luogo alla sola Federazione spetta il diritto di conchiudere trattati di commercio, di navigazione e di emigrazione con gli stati esteri. In secondo luogo è fatto divieto ai singoli stati federati di imporre qualsiasi restrizione al traffico interstatale di persone e di cose con divieti di immigrazione, restrizioni di domicilio e di residenza ai cittadini appartenenti ad altro fra gli stati federati, con dazi di entrata, di uscita o di transito, con tariffe differenziali ferroviarie, fluviali, lacuali, marittime, automobilistiche, con privative industriali, marchi, contrassegni, diritti di sosta, licenze, visite e limitazioni a proposito di malattie contagiose ed altrettanti pretesti di qualsiasi genere. Tutta la materia del traffico interstatale di persone o cose è unicamente regolata dalle autorità federali.

 

 

7. Attribuzione all’autorità federale del commercio con gli stati esteri. Federazione è sinonimo di unico territorio doganale.

 

Non v’ha sostanziale controversia sul primo punto. Libero scambisti e protezionisti sono d’accordo nel ritenere che quel qualunque regime il quale sarà ritenuto più conveniente per l’Europa federata nel suo complesso di fronte al resto del mondo debba essere deciso dal Parlamento federale e non dal Parlamento dei singoli stati. Il Parlamento federale deve avere la potestà di decidere se l’Europa debba circondarsi di alte frontiere contro le importazioni dalla Russia, dagli Stati Uniti, dai paesi asiatici ed americani meridionali, dall’Australia, ovvero se essa debba adottare una politica di protezione moderata o di dazi puramente fiscali. Il solo Parlamento federale dovrà decidere quale sia la politica doganale da adottare nei rapporti con le colonie appartenenti ai singoli stati o alla Federazione. Solo al Parlamento federale spetterà di decidere se la emigrazione e l’immigrazione siano libere o contingentate e quali trattati siano in proposito da stipulare con i paesi d’immigrazione. Il territorio federale non è forse unico? Le dogane non sono forse un’entrata esclusiva del tesoro federale? Una diversità di dazi per i diversi tratti della frontiera internazionale avrebbe per unico effetto di fare affluire le merci ai porti a dazi minimi, dai quali le merci si irradierebbero per tutto il territorio federale. La necessità di un unico sistema federale doganale è talmente evidente che nessuna controversia mai è sorta in proposito. Federazione vuol dire innanzitutto lega doganale, vuol dire unico territorio doganale.

 

 

8. Divieto di ostacoli al commercio interstatale. Sua evidente necessità per togliere una causa potente di guerra.

 

La necessità della seconda parte del postulato economico, ossia del divieto fatto ai singoli stati federati di opporre essi un qualsiasi impedimento, con qualsiasi pretesto e con qualsiasi denominazione, al traffico interstatale di persone e di cose entro l’unico territorio federale, è altrettanto evidente; ma per l’appunto siffatta evidente necessità è l’ostacolo massimo, di natura economica, alla Federazione. Questa è voluta per togliere la possibilità di guerre; e poiché le barriere doganali fra stato e stato, gli impedimenti di ogni altra specie al commercio interstatale, le varie forme di autarcia sono una potente causa di guerra, così è necessario che siano abolite le barriere fra uno stato e l’altro stato federato e sia costituito un unico territorio entro il quale uomini e cose possano liberamente muoversi. La Svizzera non sarebbe una Federazione se il Cantone di Ginevra potesse chiudersi in se stesso, proteggere le proprie industrie «nazionali», stabilendo dazi contro le merci provenienti dal cantone di Vaud o di Friburgo o di Berna; e se così potesse fare ogni cantone, che è uno stato sovrano, contro le merci di ogni altro cantone. Gli Stati Uniti di America non sarebbero una Federazione, se lo stato di New York potesse vietare, a protezione della sua agricoltura, l’introduzione della carne proveniente dagli ammazzatoi di Chicago o del frumento degli stati del centro; e se ognuno degli stati volesse far sorgere una propria industria automobilistica e perciò gravasse di forti dazi le automobili di Ford, solo perché questi ha i propri stabilimenti a Detroit, in un altro stato.

 

 

Appunto perché un’Europa federata vuol dire unico territorio doganale, liberamente aperto, senza alcun impedimento all’infuori di quelli naturali della distanza e dei relativi costi differenziali di trasporto alle importazioni di merci provenienti da qualunque altro punto del territorio federato, si moltiplicano le diffidenze ed i dubbi e le critiche.

 

 

CAPITOLO II

LA FILOSOFIA DELLA SCARSITÀ

E QUELLA DELL’ABBONDANZA

 

1. Fra le opposizioni, quelle provenienti dal campo agricolo non sono le più vivaci. Le regioni agricole europee sono più complementari che concorrenti

 

Volendo por mente alle più probabili critiche ad una Federazione europea, forse le più vivaci non provengono dai rappresentanti dell’agricoltura. Gli agricoltori temono sovratutto la concorrenza del frumento della Russia, del Canadà, dell’Argentina, dell’Australia, della carne congelata dell’Argentina o australiana, della lana australiana od argentina, del cotone americano. Ma tutte queste derrate alimentari e materie prime vengono da paesi situati all’infuori del territorio probabile di una Federazione europea e questa, se così delibererà il parlamento federale, potrà sempre difendersi contro importazioni le quali sembrassero pericolose per gli agricoltori. I paesi situati entro i limiti del territorio federato sono piuttosto complementari che concorrenti. L’Italia e la Francia del nord, la Germania il Belgio, l’Olanda, i paesi scandinavi, a tacere di quelli polacchi, sono pronti ad assorbire masse crescenti di frutta, di agrumi, di ortaggi, di fiori, di olio, di vino dei paesi meridionali; né, tanta essendo la sete di latticini tra i consumatori, è probabile che il burro della Danimarca ed i formaggi svizzeri facciano venire meno la produzione locale degli altri paesi. In un grande mercato unificato, la concorrenza orizzontale fra agrumi, i vini, gli olii, gli ortaggi, le frutta delle penisole iberica, italiana e greca diventerà emulazione feconda, come quella che esiste fra la California e la Florida negli Stati Uniti d’America; emulazione nell’offrire prodotti migliori, meglio presentati e scelti ad un pubblico più ampio ed avidissimo di consumare.

 

 

2. Mutazione del tipo dell’impresa in funzione della estensione del mercato

 

Avidissimo perché in una Europa unificata, la capacità produttiva del lavoro e del capitale sarà grandemente accresciuta in confronto a quella che è oggi in una Europa spezzettata in più di venti stati. Può sembrare che la estensione territoriale non abbia nulla a che fare con la maggiore o minore produttività delle singole imprese agricole ed industriali. Non sono, in uno stato piccolo o grande, ugualmente disponibili le macchine, gli utensili, gli impianti? Non ci sono gli stessi campi, le stesse vigne, gli stessi orti? Non vivono, nei campi e nelle officine, gli stessi uomini e non sono atti a compiere lo stesso lavoro? Anche in stati piccoli di territorio come la Svizzera e la Cecoslovacchia o la Danimarca, non vi è forse la possibilità di applicare sino ai suoi limiti estremi quella divisione del lavoro, alla quale si fanno risalire i maggiori progressi della produzione? Non occorrono le centinaia di milioni, bastano anche i semplici milioni di abitanti per consentire la più specificata divisione di compiti e di lavorazioni; e ne sia testimone la Svizzera, la quale si è imposta per taluni prodotti fini – orologio, macchinario elettrico ecc. – su tutti i mercati del mondo. Ma l’esempio medesimo della Svizzera prova invece quale sia l’importanza somma del fattore «estensione» del mercato per la prosperità di un paese. Coefficiente massimo e condizione necessaria della grandezza industriale di questo piccolo paese è la possibilità per esso di estendere la sua attività ad un mercato assai più ampio di quello suo ristretto nazionale. Consideriamo per un istante quel fattore semplicissimo della produzione che si chiama «albero da frutta», sia pesco, o melo, o pero. Molti di noi hanno assistito durante la loro vita alla trasformazione radicale del modo di coltivare ed utilizzare l’albero produttivo di frutta. Quando il mercato era ristretto al villaggio od al grosso borgo vicino, l’albero era a pieno vento, situato dove il buon Dio aveva fatto cadere e fecondato il seme, nei campi e nei prati; il contadino lo lasciava venir su alla ventura; i ragazzi vi si arrampicavano sopra per mangiare i frutti acerbi, come oggi accade ancora spesso per le ciliege; e quel che non marciva caduto per terra o non si metteva in serbo per l’inverno per uso famigliare, si portava in ceste o su carretti al mercato, vendendolo bene o male, a seconda dell’accidentale abbondanza o scarsità della merce presente in quel giorno sul mercato. Il ricavo della frutta non contava nel bilancio dell’agricoltore. Era un dippiù. Ad un certo momento, taluni cominciarono a capire che la frutta scelta può essere venduta in città, nel capoluogo della regione, a Torino, a Genova, a Milano. Il contadino vede che gli conviene potare gli alberi per indurli a fruttificare regolarmente e non sprecare tanto terreno per niente. Ma, finché gli alberi sono così sparpagliati e alti, il raccolto è costoso, le cure insetticide, le irrorazioni cupriche od altre contro le malattie delle piante, sono costose per la gran perdita di tempo e lo spreco della roba. Questi alberi nei campi disturbano l’aratura, specialmente se divenuta nel frattempo meccanica, od impacciano la falciatura dell’erba. Con le loro fronde vigorose fanno ombra alle culture sottostanti. Frattanto compaiono mercanti cittadini i quali vanno in giro a vedere se loro convenga fare acquisti in blocco di frutta e, discorrendo, fanno capire ai contadini come ad essi non convenga comprare la frutta a ceste, una qui l’altra là, di qualità, forma e dimensioni svariate, lisce o bitorzolute, mal presentate o belle, alla rinfusa. Un po’ per volta, la scena cambia. I grandi alberi a pieno vento, sparpagliati qua e là, sono abbattuti; e si vedono crescere nei siti più riparati dal vento, meglio soleggiati, alberi di mezza statura, tenuti mondi da rami infruttiferi, bene aereati all’interno, potati con arte, o, meglio, l’albero cessa di essere tale, diventa nano, ad altezza d’uomo, regolato, costretto, deformato a spalliera, a cordone verticale od orizzontale. Il contadino è divenuto un artista; è andato a sentire le lezioni di potatura del professore ambulante; possiede arnesi; maneggia pompe e irrora a tempo le gemme, le foglie, le bacche da frutta; pulisce il tronco e lo dipinge di bianco o di verde; colloca al piede anelli di panno, entro cui si ricoverano le larve dannose, che egli poi brucia. La raccolta medesima è addomesticata; si fa in tempi diversi, a poco a poco, in guisa da distaccare la frutta quando è il momento migliore per la spedizione. Nasce la divisione del lavoro. Un contadino non porta più la frutta al mercato a spalle nelle ceste o nel carretto che l’ammacca tutta con i suoi sobbalzi. Poiché ne val la pena, il mercante passa a parecchie riprese nell’anno sul fondo dove l’agricoltore ha un terreno specializzato, un raccolto pendente che giunge oramai alle decine di quintali: a consigliare cure, a contrattare in primavera il prezzo del raccolto intiero per quando sarà maturo a rischio e pericolo suo; ad effettuare la raccolta, con personale suo, con mezzi suoi di trasporto, con una prima cernita. A poco a poco le cose si perfezionano. L’agricoltore non coltiva più una miscellanea di frutta di diverse qualità e denominazione, mature ad epoche diverse, ma si specializza in tre, due, e forse una sola qualità, quella di rendimento massimo, più adatta al clima ed al terreno. Alla fine, quello che era un ingombro, una perdita di tempo, una occupazione di ragazzi festanti e quella frutta che, se non era lasciata marcire per terra, andava a finire nel truogolo del maiale, è diventata la materia prima di una grande industria, la quale non si conclude nella campagna. Sorgono laboratori e magazzini per la scelta, l’impaccatura, la messa in iscatole, in ceste ben confezionate, la spedizione; per la destinazione di talune qualità alle fabbriche di conserve, di marmellate. Il lavoro dell’uomo, gli alberi, il terreno che prima erano malamente utilizzati e sprecati, ora sono trasformati. In luogo del contadino ignorante ci sono ora agricoltori che conoscono i nomi in latino delle diverse qualità di frutta, che maneggiano arnesi e prodotti chimici, che apprezzano i diversi tipi di potatura. Altra gente e che merita di essere pagata per quel che vale. Ci sono negozianti, che, senza prendere per il collo l’agricoltore come accade nei giorni di mercato abbondante, pagano la merce ai prezzi noti di mercato; ci sono, industriali speditori, i quali sanno dove spedire la merce per ricavarne il maggior utile.

 

 

Da quale causa è venuta la trasformazione? Dall’allargarsi del mercato. Quella frutta, la quale finiva un tempo sulle tavole dei professionisti e negozianti e signori del borgo, che si accontentavano dei tipi locali e li trovavano, anche se malamente presentati, migliori per sapore, di quelli di ogni altro paese del globo terracqueo, ora va nelle grandi città dell’alta Italia, della Germania, dell’Inghilterra, in Scandinavia. Occorre che sia ben presentata, incartata, fresca, non ammaccata, tutta uguale, senza vermi, senza semi, colla pelle sottile. Perciò, la frutticoltura è divenuta un’industria ed un’arte. Se invece di barriere e di dazi ad ogni piè sospinto, di fermi alle frontiere, di documenti complicati di esportazione, tutta l’Europa fosse un mercato unico, quanto più facile vendere, quanta maggiore domanda nascerebbe, che oggi è latente e non può essere soddisfatta! Oggi una famiglia di agricoltori, può vivere e vivere bene attendendo ad una fatica interessante, attenta ed intelligente in un ettaro solo di terreno, là dove invece occorreva sfaticare in venti. In luogo di sprecare alberi, terreno e fatica l’uomo è stato persuaso dalla ampiezza del mercato a trasformare se stesso e la terra e gli alberi sì da renderli dieci e venti volte più produttivi. Si sarebbe ottenuto tutto ciò senza l’allargamento del mercato? Su un piccolo mercato il contadino non avrebbe avuto interesse a trasformarsi in frutticoltore, per la mancanza di clienti abbastanza numerosi e raffinati da richiedere frutta scelta e ben presentata. Non avrebbe avuto ragione d’essere un ceto di negozianti raccoglitori ed un altro di mercanti esportatori, non si sarebbero potute impiantare scuole di frutticultura, né da queste sarebbero usciti i tecnici specializzati nella produzione di piantine delle qualità migliori da vendere agli agricoltori e nell’insegnamento sul luogo delle pratiche di potatura e di medicazione delle piante. Quanto più si allarga il mercato, tanta maggiore è la probabilità di trovare clienti desiderosi di consumare prodotti di qualità e pronti ad offrire il prezzo occorrente a coprire i costi più alti del prodotto fine. Ma l’esistenza di uno smercio sufficiente di prodotti fini, rendendone comune la conoscenza, divulgando i metodi di produrli, finisce alla lunga per diminuire i costi medesimi. Quello che prima era merce offerta ai pochi, deve essere offerta, se vuol essere venduta ai molti nella quantità crescente la quale arriva sul mercato, a prezzi ribassati, i quali tuttavia, compensano i costi. La concorrenza, che con un mercato ampio è assai più arduo sopprimere o limitare che su un mercato ristretto, agisce e costringe i produttori a ridurre i prezzi sino al livello del costo marginale.

 

 

3. La tendenza dei profitti derivanti da nuovi metodi produttivi a scomparire col tempo a causa della concorrenza. Reazioni dei produttori. Varie maniere di restrizione della produzione.

 

È naturale che i produttori vedano di mal occhio la lotta reciproca, la concorrenza, la quale li costringe a rinunciare ai profitti appena intravisti. Vi è un tipo di profitto, tutti i costi sopportati durante la produzione, compresi nei costi l’interesse corrente sul capitale investito ed il compenso normale per l’opera di direzione e di organizzazione dell’impresa, il quale è socialmente ed economicamente vantaggioso; ed è il profitto che va a colui il quale primo inventa un nuovo prodotto od un nuovo modo di fabbricare il prodotto antico a costo minore, il quale primo sa apprezzare una nuova invenzione, una nuova macchina, un nuovo processo chimico, una più felice maniera di presentare la merce al cliente, una disposizione più attraente ed artistica della merce offerta in vetrina, una combinazione più comoda di pagamento, di rimessa della merce a domicilio, anche in luoghi lontani della città, di ordinazione su cataloghi o su listini. Sono infinite le maniere con le quali il produttore (agricoltore, industriale, negoziante) si industria a rendere al cliente un servigio migliore e riesce così ad ottenere un profitto. Ma il profitto guadagnato in tal maniera logora l’intelletto, impone una tensione continua per la ricerca del nuovo e del diverso, ed è temporaneo, sfuggente. L’idea nuova oggi non lo è più domani, il nuovo prodotto, il nuovo processo tecnico, la nuova presentazione della merce, non appena conosciuta, subito si divulga. La concorrenza la sfrutta, i prezzi ribassano ed il profitto sfuma. Contro la malaugurata tendenza dei profitti a svanire nel nulla, i produttori reagiscono nei modi più svariati. Talvolta in maniera corretta, come quando tentano di mantenere il segreto intorno ad una invenzione (forse che il tale ristorante non profitta a causa del mistero da cui è circondata la manipolazione del giusto punto di cottura e con la dovuta manipolazione di ingredienti, di una celebre bistecca di formaggio o di una pizza alla napoletana ancor più famosa? Ed i clienti non si lagnano sebbene la loro curiosità di penetrare il mistero non possa essere soddisfatta), o ricorrono alla protezione legale di un brevetto temporaneo. Ma spesso essi non si contentano delle maniere corrette, e tentano tutte le vie possibili per rendere permanenti quei profitti che hanno la brutta abitudine di dileguarsi troppo presto. A tale scopo essi sostituiscono i disservigi ai servigi; invece di accrescere la produzione tendono a limitarla; invece di aumentare la massa dei beni migliori messi a disposizione degli uomini, la diminuiscono, invece di diminuire i prezzi li aumentano. Il produttore se è costretto dalla concorrenza a rendere servigio altrui col ribasso dei prezzi o col miglioramento della qualità o in ambedue i modi, per se stesso ci ripugna. Se potesse faticare poco o nulla, vendere ad alto prezzo e guadagnare molto lo farebbe volentieri. Non perché sia un produttore ed i produttori siano peggiori degli altri uomini. Lavorare meno che si può e tirare la paga egualmente è una tendenza connaturata all’uomo od almeno alla grande maggioranza degli uomini. Gli altruisti, i filantropi, i francescani, sono i meno, e fa d’uopo confessare essere un bene che ce ne siano ad esempio e monito altrui, ma siano pochi. Che cosa sarebbe il mondo se tutti fossero seguaci di S. Francesco?

 

 

4. Lo stato piccolo favorisce la restrizione, il disservizio; lo stato grande la concorrenza ed il servizio. La difesa contro l’inondazione; l’invasione della merce straniera. Dazi, contingenti, restrizioni di valuta.

 

Se è naturale che la maggior parte degli uomini cerchi di fare l’interesse proprio, è anche ovvio impedire che, nel fare il proprio interesse, gli uomini, scelgano la via più comoda, che è quella di rendere disservizio altrui con lo scemare la produzione e crescere i prezzi. Fa d’uopo invece creare un ambiente esterno siffatto che l’uomo sia costretto a rendere servizio con l’aumentare la produzione e diminuire i prezzi. Orbene, vi è a questo riguardo un contrasto stridente fra lo stato piccolo e lo stato grande; intendendo oggi per stato piccolo tutti quelli che hanno la estensione e l’importanza economica della Francia, o dell’Italia o della Germania e per stato grande quelli che hanno l’estensione e l’importanza economica degli Stati Uniti d’America. Poste, ferrovie, piroscafi, telegrafi, telefoni, radio, velivoli hanno resi economicamente piccoli gli stati che all’epoca delle guerre di nazionalità sembravano grandissimi. All’ombra dei piccoli stati la politica della restrizione, del disservizio, si afferma e facilmente trionfa. L’industriale e l’agricoltore nazionale fanno appello con successo a sentimenti profondamente radicati nell’animo. Lo straniero, il vicino, ecco il nemico contro il quale occorre difendersi. Occorre difendere ‘agricoltura nazionale, l’agricoltura italiana o francese o germanica contro, non si dice alla concorrenza, che potrebbe sembrare l’espressione di un interesse privato, ma contro l’invasione del frumento straniero russo od argentino, del vino straniero spagnolo od italiano, delle cotonate straniere inglesi, delle vetture automobili straniere, italiane, tedesche o nordamericane. Bisogna difendere l’industria nazionale contro l’inondazione dei prodotti esteri, i quali col loro vile prezzo minacciano di distruggere l’economia nazionale, di togliere lavoro agli operai nazionali, di gettare sul lastrico in preda alla carestia milioni e decine di milioni di disoccupati. Per non creare la fame in mezzo e per causa della abbondanza bisogna difendere il popolo contro il nemico che ci minaccia dal di fuori; per creare lavoro bisogna rendere costosa con dazi doganali l’importazione delle merci estere concorrenti con le nostre; e se non bastano i dazi, bisogna limitare a quantità prefissate (contingenti) l’importazione delle merci che assolutamente non si possono produrre in paese; e se ancora non basta bisogna limitare i mezzi di pagamento, per coloro i quali vorrebbero importare merci dall’estero, alla esatta misura nella quale l’estero acquista merci nazionali (compensazione o clearing bilaterale); ed alla fine, se occorre, vietare addirittura l’importazione di tutte le merci iscritte nella lista delle merci proibite. La campagna dei proibizionisti o restrizionisti si fonda in gran parte sull’uso di parole trasferite dal significato proprio ordinario ad un significato traslato per figura poetica o bellica. Difendersi si deve contro il nemico aggressore; e perciò il restrizionista addita lo straniero, il quale in verità si presenta come amico pacifico venuto ad offrire le cose sue a buone condizioni, quasi fosse nemico venuto a recarci offesa.

 

 

5. Accordi, cartelli fra industriali protetti allo scopo di limitare la produzione. Divieti di nuovi impianti.

 

Frattanto all’ombra di queste figure rettoriche, le quali fanno colpo sulle moltitudini attonite ed impreparate a vedere la realtà attraverso il trucco poetico, gli industriali nazionali, sicuri contro la concorrenza estera, stipulano tra loro accordi di prezzo o si ripartiscono, come gli antichi feudatari, i mercati paesani, e praticano la loro politica restrizionistica di aumenti di prezzi e di diminuzione della produzione, che sono fatti sinonimi tra di loro. Per aumentare i prezzi bisogna ridurre la quantità di merce prodotta ed offerta all’interno. Caso mai, se si è prodotto un supero, lo si svenderà all’estero (dumping) a prezzo più basso che all’interno. Non arrivano a contarsi sulle dita di una mano sola in tutto il mondo gli esempi di consorzi, trusts, o cartelli di industriali, i quali abbiano venduto all’interno a miglior mercato che all’estero ed il caso è tanto incredibile e raro che nei libri se ne ricorda un esempio solo, quello del sindacato tedesco della potassa, che, per un certo tratto della sua vita, vendette in Germania, a favore dei suoi propri connazionali quel concime chimico a prezzo più basso che ai forestieri. Normalmente gli stranieri, i quali possono comprare altrove, sono favoriti contro i nazionali i quali sono pigliati per il collo e non potendo, perché i dazi e i contingenti e i clearing lo vietano, dirigersi altrove, sono forzati a dire grazie! al compaesano, nell’atto in che costui porta via il loro denaro di tasca.

 

 

Anzi, poiché, se la concorrenza estera non c’è più od è limitata, possono sempre venir fuori nuovi concorrenti dall’interno medesimo, si inventano altre figure rettoriche, e, piangendo sull’«anarchia» della concorrenza «sfrenata», si impietosiscono gli organi legislativi e li si inducono a votare leggi in virtù delle quali nessun industriale può costruire nuovi od allargare vecchi impianti senza un’autorizzazione governativa. E questa viene data solo se, studiata la domanda, sentite le osservazioni degli industriali già esercenti, il governo si persuada che quel nuovo impianto è davvero necessario per soddisfare i bisogni effettivi della popolazione. Il che è cosa senza senso, in primo luogo perché nessuno conosce quali siano i bisogni potenzialmente effettivi degli uomini riguardo a beni vecchi o nuovi, ed in secondo luogo perché la sola quantità nota, ed è la domanda, varia in funzione del prezzo; e se è di un milione di quintali, se il sindacato degli industriali esistenti mantiene i prezzi a dieci, diventerebbe di un milione e mezzo se la concorrenza del nuovo imprenditore consentisse di scemare i prezzi a sette. Ma i vecchi, influendo con i loro piagnistei e con la corruzione politica sulle deliberazioni dei corpi incaricati di autorizzare quella nefanda novità che sono i nuovi impianti, strozzeranno questi in fasce e disciplineranno, con parola rubata anch’essa al proprio linguaggio militare o scolastico, la produzione affinché questa sia la più scarsa possibile.

 

 

6. Alla filosofia della scarsità, propria dello stato piccolo, si contrappone la filosofia dell’abbondanza, propria dello stato grande. Le maggiori difficoltà di accordi e di un loro successo in una Federazione europea in confronto alla facilità negli stati nazionali.

 

Alla filosofia della scarsità impersonata nello stato piccolo si contrappone la filosofia dell’abbondanza propria dello stato grande. Non già che lo stato grande sia per se stesso il rimedio contro i restrizionismi, le proibizioni, le protezioni. Anche in un’Europa unificata l’autorità federale potrà, come già dicemmo, stabilire dazi, divieti, restrizioni alle importazioni dall’estero, ma, come accade ora negli Stati Uniti di America, per l’ampiezza medesima del mercato interno i danni del restrizionismo incidono assai meno gravemente in uno stato grande che in uno stato piccolo. Sarà assai più difficile mettere d’accordo gli agricoltori della Danimarca con quelli della Sicilia per chiedere protezioni contro i cereali russi o canadesi o argentini; perché se alcuni cerealicultori siciliani, quelli grossi o grossissimi se pur ci saranno ancora, nel silenzio della grandissima maggioranza di proprietari agricoli della stessa regione, che sono quelli medi e minuti delle zone costiere, o intensamente coltivate, chiederanno di essere protetti, gli agricoltori danesi protesteranno perché interessati ad ottenere a buon mercato cereali di qualità per se stessi e cereali inferiori per il bestiame lattifero, ed in queste proteste saranno spalleggiati dagli agricoltori olandesi e da quelli lombardi, interessati per le medesime ragioni a diminuire il costo ed a crescere col basso prezzo lo spaccio delle carni e dei latticini. Sarà parimenti più difficile mettere i siderurgici tedeschi e francesi e italiani e cecoslovacchi d’accordo, per chiedere protezione contro una ipotetica importazione nordamericana, con gli industriali meccanici che dall’importazione a buon mercato del ferro e dell’acciaio attendono ribassi di costi. Quand’anche poi una tariffa doganale alla frontiera europea potesse essere in qualche modo imbastita, come lo è negli Stati Uniti, la vastità del mercato interno, la osservanza del principio del libero commercio fra gli stati federati, il nessun interesse di ognuno degli stati federati di limitare i nuovi impianti nel proprio territorio e l’interesse evidente di ognuno di essi di promuovere le nuove iniziative interne renderebbero più difficili gli accordi ed in ogni modo meno nocivi, per la incapacità dei sindacati, i quali pure si formassero, di reprimere il sorgere di nuovi concorrenti. Gli argomenti sentimentali, retorici, razionalistici, i quali oggi hanno tanto peso a persuadere il grosso degli elettori a sottomettersi alle taglie dei monopolisti nazionali per il bene e a difesa della patria italiana o francese o tedesca o ungherese, perderebbero assai della loro capacità di presa quando l’ente da difendere fosse l’Europa nella sua integrità ed il nemico da combattere diventasse il «pericolo bolscevico», il «pericolo giallo» o il «pericolo americano». Gli eccitatori di discordia e di odio internazionale non trovando più eco col ricorso ad argomenti sentimentali, dovrebbero far appello ad argomenti economici concreti del tipo che si usa chiamare realistico.

 

 

7. Lo stato più grande è favorevole ai consorzi?

 

Si oppone da taluni a siffatta visione ottimistica degli effetti della federazione la probabilità che i grandi complessi industriali, ad esempio quelli della siderurgia della Ruhr o della Slesia, giovandosi delle loro dimensioni colossali e non più impediti dalle difese doganali, possano distruggere ad una ad una le migliori imprese preesistenti in Italia, in Francia, in Spagna e negli altri più piccoli stati federati. All’uopo la ditta gigante può temporaneamente ribassare i prezzi sui mercati proprii della ditta minore, costringendola al fallimento od alla resa a discrezione, e può far ciò perché le perdite così subite possono essere, per la maggior produzione e le più ampie riserve, più facilmente sopportate da essa che dalla impresa meno grande.

 

 

La teoria suppone implicitamente che il colossale sia sinonimo di forza e di bassi costi, che basti cioè ingrandirsi a dismisura per ripartire le proprie spese generali su una massa maggiore di prodotti, diminuire così i costi ed essere in grado di battere la concorrenza dei produttori a dimensioni minori. La verità è diversa: ché l’ingrandimento delle dimensioni è vantaggioso sino ad un certo punto, sino a quel punto cioè nel quale si sia raggiunta la combinazione ottima dei fattori produttivi. Sino a quel punto ingrandimento significa possibilità di applicare meglio gli ultimi ritrovati della tecnica, della lavorazione in serie ed a catena, di sfruttare al massimo i vantaggi della localizzazione vicino alle miniere ed alle materie prime, della divisione del lavoro. Ma al di là di quel punto, ingrandimento vuol dire solo giustapposizione di impianti simili gli uni agli altri, moltiplicazione delle gerarchie e dei controlli, con perdita economica per la efficacia e la rapidità delle deliberazioni. Molti cosidetti colossi hanno i piedi di argilla, perché la loro grandezza dipende solo dalla possibilità di sfruttare i margini eccessivi di profitti consentiti dalla chiusura del mercato interno alla concorrenza estera. Il colossale che sia anche «naturale», ossia che per vivere deve fondarsi esclusivamente sulle sole sue forze, non può eccedere nel fissare i prezzi, perché la stessa sua grandiosa produzione lo costringe, per esitarla, a tenersi moderato nei prezzi. L’ingrandimento ottenuto, così come si narra, con battaglie condotte ad uno ad uno contro i rivali fino ad assorbirli, aumenta il capitale che deve essere remunerato ed aumenta i costi, scemando la capacità della grandissima impresa di sostenere la concorrenza della impresa nuova costituitasi sulla base delle dimensioni ottime razionali, la quale non ha da remunerare se non il capitale minimo indispensabile alla produzione.

 

 

È del resto compito del legislatore intervenire contro talune maniere di condotta economica le quali abbiano caratteristiche manifestamente aggressive. Già in tutti i paesi è stato accolto ed è osservato il principio, ad es., che la ferrovia debba pubblicare le sue tariffe per trasporto merci ed applicarle ugualmente in confronto a tutti gli utenti. Essa può applicare tariffe più basse a chi faccia una spedizione a carro completo in confronto a chi spedisca la stessa merce a colli o casse separate, ma deve applicare tariffa uguale, senza favorire Tizio o Caio, a chiunque spedisca a carro completo. È probabile che lo stesso principio della pubblicità dei prezzi e delle tariffe si applichi in avvenire ad un maggior numero di beni e di servizi, sicché il prezzo basso di vendita adottato dal colosso in una data zona allo scopo di costringere qui alla resa un concorrente diventi immediatamente applicabile su tutto il mercato federale ed ogni cliente possa pretendere il rimborso della differenza ed il risarcimento dei danni in caso di discriminazione. In avvenire gli stati dovranno più frequentemente che in passato intervenire nelle cose economiche, talvolta, in casi ben precisi e ragionati, per sostituirsi all’azione manchevole o dannosa dei privati, più spesso per porre le regole necessarie a far sì che l’azione dei privati si svolga in conformità alle regole del gioco di concorrenza. Tra le quali regole vi sono quelle della possibilità di conoscere i prezzi correnti sul mercato e l’altra della unicità del prezzo dello stesso bene sullo stesso mercato e nel medesimo tempo. Non si nega che questi interventi non siano delicatissimi e di non facile esecuzione, ma è chiaro che non si deve rinunciare ai vantaggi della concorrenza su un mercato vasto solo perché l’ingrandimento del mercato impone allo stato federale la soluzione di problemi più complicati di quelli che si presentano su un mercato piccolo.

 

 

8. I piccoli stati sono più moderati dei grandi nella loro politica protezionistica?

 

Vi è chi obbietta alla federazione non essere provato che i piccoli paesi siano più esclusivisti dei grandi ed anzi si afferma che essi sono costretti dalla piccolezza a tenere le porte aperte alle importazioni allo scopo di approvvigionarsi più agevolmente sui mercati di maggior convenienza e di poter ottenere alle proprie esportazioni più favorevoli accoglienze nel maggior numero dei paesi stranieri. Laddove invece il grande stato accarezza l’idea della autosufficienza ed è più pronto ad aggredire i vicini allo scopo di procacciarsi i vantaggi del cosidetto spazio vitale. La teoria ha una qualche riprova parziale nei fatti. Vi fu chi ha calcolato il livello delle tariffe daziarie nei diversi paesi europei, intendendo per livello (od indice di altezza) dei dazi doganali la percentuale media dell’ammontare del dazio rispetto al valore delle merci soggette al dazio. Ed ha trovato che il Belgio ha aumentato dal 1913 al 1931 il livello della protezione doganale solo dal 14,2 al 17,4%, la Svizzera dal 10,5 al 26,4% e la Svezia l’ha ridotto dal 27,6 al 26,8 per cento. Ma, in compenso la Rumania, pur paese economicamente piccolo, crebbe il livello protettivo dal 30,3 al 63%, la Jugoslavia dal 22,2 al 46%, la Cecoslovacchia dal 22,8 al 50%, l’Ungheria dal 22,8 al 45%, l’Austria dal 22,8 al 36%, la Bulgaria dal 22,8 al 96,5%, la Finlandia dal 35 al 48,2%, e su su salendo in dimensioni, la Spagna andò dal 37 al 68,5%, la Polonia si mantenne alta fra il 72,5 ed il 67,5%, la Francia passò dal 23,6 al 38%, l’Italia dal 24,8 al 48,3%, la Germania dal 16,7 al 40,4 per cento. In verità salvo alcuni pochi paesi tradizionalmente liberistici e ragionevoli, il virus protezionistico e monopolistico è potente e di sé infetta tutti i paesi, quando si riesca a far vibrare la corda del nazionalismo e dell’indipendenza politica ed economica. Gli stati piccoli moderatamente liberistici, Svizzera, Belgio, Olanda, Svezia, Danimarca, Norvegia, sono tutti paesi industrializzati o ad agricoltura specializzata, laddove gli stati piccoli protezionistici sono paesi ad agricoltura estensiva. Anche se i primi potranno subire qualche momentaneo danno da una eventuale politica protezionistica della Federazione, in complesso la bilancia sembra pendere a favore della inclusione in una grande area doganale, entro la quale essi potranno costituire un fattore potente di moderazione.

 

 

Solo coll’allargare lo spazio doganale e col privare gli stati singoli del diritto di chiudersi in se stessi, si riesce a mettere un freno all’imperversare dell’idea per cui non solo ogni stato, ma ogni provincia, ogni distretto ed ogni comune e quasi ogni casa vorrebbe essere in grado di difendersi contro ogni altro paese, provincia, distretto, comune o casa. Potrà darsi che l’Europa unificata si cinga di alte barriere doganali contro le altre costellazioni politiche mondiali, ma non è probabile. I contrasti fra stati interessati alla libertà degli scambi col resto del mondo e quelli desiderosi di chiudersi in se stessi, fra i ceti commerciali e quelli agricoli, la esistenza di una concorrenza vivace già nell’interno della federazione indurranno ad un a politica moderata. A che prò rialzare i dazi contro gli Stati Uniti od il Giappone o la Cina, quando già nell’interno della federazione i prezzi sono tenuti a freno dalla concorrenza? Se anche poi l’Europa volesse emulare gli Stati Uniti nell’adottare a sbalzi una politica protezionistica, il male sarebbe attenuato dalla ampiezza del mercato interno entro cui liberamente beni e servizi potrebbero circolare.

 

 

CAPITOLO III

CHE COSA FAREMO SE NON SAREMO PIÙ PROTETTI?

 

1. Dell’argomento protezionistico dell’industria bambina. Errore di concepire l’entità «industria» invece di quella «impresa». Premi invece di dazi. Confronto fra i due sistemi di incoraggiamento alle industrie nuove.

 

La Federazione potrà, se vorrà, continuare a proteggere con dazi le industrie interne, e gli stati federati potranno aggiungere premi a favore delle imprese nuove sorte nel territorio statale.

 

 

Se si comincia a ragionare, subito si vede che la Federazione non è pericolosa, anzi favorevole al fiorire delle industrie. Argomento principe, quasi si direbbe unico, addotto a favore della protezione doganale è quello che si chiama delle industrie bambine. È argomento che si intitola al nome dell’economista Giovanni Stuart Mill che lo consacrò nei suoi famosi Principi di economia politica. Lo consacrò, e non lo inventò, ché lo leggiamo esposto prima, ad esempio, in un non meno celebre rapporto sulle manifatture dell’americano Hamilton (1791). Dice l’argomento delle industrie giovani o bambine: un paese agricolo, il quale voglia diventare anche industriale – e si può consentire che questa sia ambizione legittima di ogni paese – si trova dinnanzi a un ostacolo: la concorrenza dei paesi industriali vecchi, i quali posseggono già una industria antica, bene attrezzata, bene organizzata, padrona della clientela. La nuova, giovane industria, la quale deve fare le ossa, che deve educare la maestranza, formarsi uno stato maggiore di tecnici e venditori, introdursi nella clientela, non può per qualche anno vendere ad 8, che è il prezzo di mercato corrente, poiché i suoi costi sono 10. Economicamente quell’industria non può nemmeno nascere. Eppure, superato quel primo periodo di infanzia, forse, l’industria nuova sarà capace di vendere non che ad 8, persino a 7, con vantaggio dei consumatori. Dia lo stato una protezione temporanea, per 5 anni, per 10 anni, per il tempo necessario a fare le ossa, alla industria bambina. Trascorso il periodo dell’allevamento, essa butterà via le dande o le grucce dei dazi e si reggerà da sé, liberamente, per le vie del mondo.

 

 

Forse nessun ragionamento economico apparentemente impeccabile fu mai più solennemente sconfitto dalla realtà. L’esperienza insegnò che mai nessuna industria divenne da bambina, giovane e, da giovane adulta; ma tutte bamboleggiarono invecchiando e chiesero e non di rado ottennero sempre più alti dazi. Sicché il grande divulgatore medesimo della teoria Giovanni Stuart Mill, in lettere posteriori di un ventennio alla pubblicazione dei Principi ed indirizzate ad autorevoli parlamentari dell’Australia, dove la sua teoria aveva goduto notevole popolarità ed ottenuto favorevole accoglienza, si indusse a solenne abiura. Era accaduto là, ed accadde altrove sempre, che, dopo il pasto, la fiera belva avesse più fame che pria. I teorici erano invero partiti da una idea fantastica: che esistesse una entità detta «industria». Molti partono anche oggi da questa che è una pseudo idea. Nessuno mai vide la cosa detta «industria»: e solo si vedono e si contemplano «imprese industriali» od «imprese agricole», appartenenti a Tizio od a Caio, alla società alfa od alla società beta. Può darsi che, a fine di brevità espositiva, si dia al complesso di tante imprese di filatura del cotone esistenti in Italia il nome di industria italiana della filatura del cotone; ma non dimentichiamo che la realtà vera è composta dalle singole imprese appartenenti a Tizio o a Caio, ad alfa od a beta. Supponiamo pure che nel paese di «Nuova Terra» nell’anno di grazia 1944 esista bambina, anzi neonata l’industria composta delle quattro imprese appartenenti a Tizio, Caio, alfa e beta. Lo stato concede per dieci anni un dazio sufficiente a far superare a queste quattro imprese il difficile periodo dell’allattamento, svezzamento ed allevamento. Chi vieterà a Sempronio ed a Mevio, alla società gamma ed a quella delta di nascere in «Nuova Terra» rispettivamente nel secondo, quarto, sesto ed ottavo anno del decennio? E perché a Marco non sarà lecito di impiantare una nuova fabbrica allo scadere del decennio? Il dazio non era stato invero stabilito per creare un monopolio a favore dei già nati, ma per offrire alla collettività allo scadere del decennio, una «industria» vitale atta a vivere da sé colle proprie forze. Alla fine del decennio lo stato potrebbe bensì abolire i dazi per quel che ha tratto alle imprese di Tizio, Caio, alfa e beta; ma che cosa farà dinnanzi alle querele delle ancora giovinette od infanti imprese di Sempronio e Mevio, di gamma e di delta; e come si comporterà di fronte alla mamma ancora fresca di parto del neonato Marco? Giocoforza sarà prorogare la vita dei dazi, sino alla virilità universale; la quale non giunge mai, essendo che le imprese vecchie, al par degli uomini vecchi usano morire e sempre nuove imprese neonate allietano con i loro vagiti la «Nuova Terra» i cui padri coscritti non trovano mai il momento buono per allentare o togliere le dande ai bambini pullulanti. Talché il padre putativo della teoria, Giovanni Stuart Mill, concludeva essersi ormai convinto che bisognasse mutar strada ed in luogo dei dazi concedere premi alle «imprese» nascenti. Essere i dazi illusori e corruttori, perché il pubblico si persuade che essi non costino nulla a nessuno e, col solo limitare od impedire la importazione delle merci concorrenti estere, facciano coltivare campi, innalzare e fumare comignoli di fabbriche, diano lavoro ad operai e simili cose miracolose. Laddove il dazio, che è una cifra, un comando di legge, da solo non crea nulla e non fa crescere neppure uno spigo di grano. Se ha una virtù è quella di spostare capitale e lavoro esistenti da un impiego ad un altro. Gli uomini, se non esistesse il dazio, non starebbero con le mani in mano. Coltiverebbero pomodori o mele o viti non protette; ed il dazio li induce ora a coltivare grano, che essi prima non coltivavano perché ad essi costava, a produrlo, 25 franchi al quintale, laddove veniva importato dall’estero al prezzo di 17,50 franchi. Se ora il grano estero è colpito da un dazio di franchi 7,50, lo si può coltivare perché anche l’importatore dall’estero non lo può vendere a meno di 17,50 più 7,50 = 25 franchi.

 

 

La differenza fra 17,50 prezzo antico (o prezzo della concorrenza estera o prezzo in regime di libertà) e 25 prezzo nuovo (o prezzo interno al riparo della protezione di 7,50) si divide in due parti. La prima non frutta nulla ai proprietari [sic] di terreni a frumento; è puro rimborso di costo. Il proprietario vende bensì il grano a venticinque invece che 17.50; ma poiché a lui costa 25, il suo utile è zero. La differenza è assorbita dalle maggiori spese di lavorazione, di concimazione e di raccolta del grano. Si dà lavoro ai contadini che coltivano i campi a grano; ma è un lavoro fatto a vuoto, fatica fatta per faticare, senza costrutto. Lo scopo del produrre non è quello di far lavorare ossia di provocare fatica; ma è quello di ridurre la fatica al minimo possibile, a parità di prodotto. Se quei contadini, facendo la fatica misurata con franchi 17.50, producevano prima tanti pomodori o frutta o vino od agrumi, con cui avrebbero potuto acquistare un quintale di frumento estero, c’è qualche sugo a far fare loro la maggior fatica misurata con franchi 25, per avere la soddisfazione di mangiare un pane costoso? Non è quella fatica sprecata? Non avrebbero quei contadini fatto meglio a far la fatica di 7.50, e col resto del loro tempo occuparsi a produrre qualcosa d’altro o magari occuparsi a far niente? L’ozio, il riposo, è un bene come un altro ed è compito dell’educazione insegnare ad occuparlo bene, nell’istruzione propria, nell’educazione dei figli, nell’abbellimento della casa, nell’interessamento alla cosa pubblica.

 

 

Ma non è necessario che i proprietari di terreni a grano spendano tutti 25 franchi a produrre il grano all’interno. Vi sarà chi spende 25, chi 20, chi solo 18 e magari, coloro che son più bravi o dispongono di terreni migliori, perfino solo 15. Poiché il prezzo della concorrenza estera senza dazio era di 17.50 ed ora col dazio è di 25 anche il prezzo interno è, nei due casi, 17.50 e 25. Quando il prezzo è di 17.50 producono grano solo coloro il cui costo va dai 15 ai 17.50; e costoro guadagnano da 2.50 a zero. Quando il prezzo è 25, la coltivazione si allarga e producono grano tutti coloro il cui costo va da 15 a 25 con un guadagno che va da 10 a zero per quintale. L’effetto del dazio perciò è:

 

 

  • 1) di aumentare il prezzo per tutti i consumatori da 17.50 a 25, ossia di 7.50 franchi al quintale. Se il consumo nazionale è di 80 milioni di quintali di frumento, l’onere per i consumatori è di 600 milioni di franchi;

 

 

  • 2) di far guadagnare qualcosa ai proprietari di terreno a grano. Se noi supponiamo, per fare il caso semplice, che 10 milioni di quintali siano prodotti al costo di 15 franchi, 30 milioni al costo di 25 franchi; i primi guadagnano 10 franchi al quintale (100 milioni in tutto), i secondi 7 (210 milioni) i terzi 1 (20 milioni) ed i quarti nulla. Il guadagno netto dei proprietari sarà di 100 + 210 + 20 + 0 = 330 milioni, contro una maggior spesa dei consumatori di 660 milioni. La differenza, come si disse sopra, di 270 milioni è sfumata in fatica senza costrutto, in spese senza corrispettivo.

 

 

C’è una buona ragione perché gli agricoltori si illudano di guadagnare 600 milioni e guadagnano in realtà 330 milioni? Per quale legge divina od umana è lecito inoltre trasferire questi milioni da una categoria all’altra dei cittadini? Se si dicesse ai cittadini consumatori: andate in giro e quando vedete su una porta di una casa, scritto: Tizio, proprietario di terreni coltivati a grano, entrate e pagate a Tizio, ora 10, ora 7, ora 5, ora 3 ed anche 1 franco per quintale di grano da lui prodotto e pagate ciò senza nulla ricevere in cambio, nemmeno la ricevuta, non sareste indignati della proposta e, potendo, non rovescereste il governo ed i deputati che avessero fatto la strana proposta? Eppure questo è ciò che i cittadini di molti stati fanno, perché si sono lasciati imbrogliare la testa dalle figure retoriche della difesa della patria contro l’invasione, contro l’inondazione delle merci estere.

 

 

La Federazione europea eliminerà, nell’interno del territorio europeo, lo scandalo per quel che si riferisce alla concorrenza interstatale, e lo renderà più difficile per quanto riguarda la protezione contro il frumento proveniente dagli stati posti fuori della Federazione. Ché se l’autorità federale, il Parlamento federale riterrà essere nell’interesse generale (ad esempio per assicurare contro il pericolo di restare privi di frumento in tempo di guerra) promuovere la coltivazione del frumento su terreni dove esso costi più di 17.50 franchi al quintale – supponendo sempre che 17.50 sia il prezzo della concorrenza nordamericana, argentina, australiana – essa avrà sempre a propria disposizione, un mezzo chiaro, onesto, meno costoso di raggiungere il risultato: quello di dare un premio per ogni quintale di frumento prodotto in più di quella certa quantità che si produceva o si sarebbe prodotta senza premio. Agronomi periti non si troveranno di fronte all’impossibile quando fossero chiamati a rispondere al quesito: su questo o quel fondo quanto grano sarebbe conveniente produrre al prezzo di 17.50 franchi? Stabilita la base, il punto di partenza, non è impresa assurda fissare il premio di 5, di 10 franchi al quintale, necessario a spingere la produzione al più alto limite desiderato. Se la Federazione non intende imbarcarsi nell’impresa, ben lo potrebbe fare ogni stato federato o persino ogni regione o provincia o contea o comune. Decideranno gli elettori se ad essi convenga di sobbarcarsi all’onere, se convenga costruire una scuola, fare una fognatura, creare un parco pubblico, ovvero incoraggiare questo o quel ramo di agricoltura o di industria.

 

 

O non ha il comune di Savigliano in Piemonte offerto un sussidio, in terreni ed in denaro, a chi fondasse sul suo territorio uno stabilimento, che prese infatti il nome di «Officine di Savigliano» e prospera ancor oggi? Oh! non danno la Federazione ed i cantoni svizzeri a gara sussidi a chi prosciuga paludi, costruisce canali irrigatori? Oh! non si danno in Italia ed altrove aiuti a chi, con costo troppo alto e non remunerativo per lui, intraprende opere utili anche all’universale? Non furono costruite così la più parte delle ferrovie in un’Europa montagnosa e difficile ad essere trasformata ed unificata? Perché dovrebbe essere più difficile seguitare a promuovere culture e industrie reputate di interesse pubblico in un’Europa federata che in un’Europa divisa? Tutto ciò che si risparmierà in armamenti destinati ad ammazzarci l’un l’altro ed a distruggere la civiltà europea, potrebbe essere destinato a gara dalla Federazione, dagli stati federati, dai cantoni, dalle provincie, dai comuni a promuovere ogni iniziativa che fosse reputata utile all’universale. Purché i cittadini sappiano perché si spende; decidano a ragione veduta il quanto da spendere e le imposte da prelevare all’uopo ed a carico di chi: purché siano resi i conti delle spese e dei risultati ottenuti. Il dazio è la finanza illusoria, che dà l’impressione di non spendere molto ed anzi di non spendere nulla e di ottenere solo vantaggi. Il premio è la finanza onesta che squaderna il dare e l’avere e pone i cittadini dinnanzi al dilemma che ognuno di noi risolve ogni giorno per le occorrenze quotidiane della vita: questo paio di scarpe oppure questo cappello; questo libro ovvero questi divertimenti; questo appartamento di tre stanze, oppure quest’altro appartamento di due camere sole ed il margine per andare a passare un mese ai monti? Sussidiare quel proprietario affinché produca 100 quintali di frumento in più, oppure lasciarlo arbitro di tenere il suo terreno a pascolo od a bosco? Se ben ragionato, il sussidio può essere conveniente. Purché se ne conosca l’ammontare, sia dato a tale o tal’altra persona conosciuta per nome e cognome, in cambio di un impegno preciso da parte sua di far qualcosa che non farebbe se non fosse sussidiata; e purché il sussidio continui solo finché consigli comunali o provinciali, parlamenti statali o federali giudichino opportuno di farne sopportare l’onere ai contribuenti per raggiungere lo scopo voluto.

 

 

2. La regola del forte che porta il debole in un’Europa federata. La questione del nord e del sud Italia; degli stati poveri e degli stati ricchi in Europa.

 

Il discorso potrebbe finire qui, con la dimostrazione che la Federazione non ostacola, anzi agevola quella qualunque politica di incoraggiamento che i singoli stati federati volessero condurre a pro di questa o quella branca di industria incipiente o pericolante o altrimenti reputata di interesse generale. Nessun cantone svizzero si è mai sentito impedito di fare opera vantaggiosa a pro delle iniziative locali a causa della esistenza della Confederazione. Anzi i cantoni più poveri, quelli che per la loro situazione montagnosa o poco fertile devono più duramente lottare contro le difficoltà opposte dalla ingrata natura, usano per l’appunto presentare le loro «rivendicazioni» alle autorità federali e queste concorrono alle iniziative locali, considerate utili anche nell’interesse generale, in ragione inversa alla ricchezza: più ai cantoni più poveri e meno a quelli più ricchi, secondo la regola del «forte il quale porta il debole». In un’Europa federata, gli stati più ricchi ed industriosi vedrebbero immediatamente la convenienza di attrezzare economicamente e di elevare verso il proprio livello i territori e gli abitanti degli stati più poveri; e l’opera di elevazione sarebbe favorita dalla facilità dei traffici, dall’unica cittadinanza, da regole uniformi di diritto per i rapporti interstatali e dall’unicità della moneta. Il commercio non prospera nella miseria altrui e sul latrocinio a danno dei clienti; suppone, invece, e provoca arricchimento reciproco.

 

 

La considerazione ora fatta annulla il rimprovero mosso al concetto federativo di tendere a concentrare l’industria nelle località più favorite: nord della Francia, regione renana, Slesia, nord d’Italia, lasciando deserte di commerci e di industrie vastissime regioni, dove le condizioni appaiono meno propizie. L’argomento è artificioso, in quanto suppone una limitazione delle opportunità di lavoro che in realtà non esiste. Ogni regione ha attitudini sue proprie, non esistono regioni sfornite addirittura di ogni attitudine. Il problema vero è quello di scoprire e sfruttare nel miglior modo possibile le attitudini proprie di ogni contrada; non nel ridurre tutto il mondo ad un deserto agricolo o pastorale allo scopo di concentrare l’attività di elaborazione delle materie prime in pochi centri manifatturieri. Presto si vedrebbe che questi centri, privi di sbocchi inaridirebbero ed impoverirebbero. Perché i centri, prosperino occorre che il resto del mercato abbia un’alta capacità di acquisto; e questa non si ottiene se gli uomini si dedicano soltanto alla agricoltura ed alla pastorizia. Negli Stati Uniti medesimi, dove lo sviluppo industriale aveva dapprima seguito le indicazioni naturali offerte dalle miniere di carbone e di ferro, dalla vicinanza alle coste marittime ed ai grandi laghi, lo studio più attento delle risorse naturali ha persuaso ad una più larga diffusione dell’attività industriale. La istituzione della Tennessee Valley Authority per lo sfruttamento delle forze idrauliche dei grandi fiumi degli stati centrali, prelude ad uno spostamento dell’industria verso il sud centrale. Le urgenze della guerra hanno fatto sorgere nuove industrie belliche negli stati, prima quasi esclusivamente pastorali e minerari, delle Montagne Rocciose ed è probabile che larghi residui di queste nuove attività rimarranno anche in pace. Come nella Svizzera i singoli cantoni, così negli Stati Uniti i vari stati federati fanno a gara nell’attirare a sé capitali in cerca di impiego e chiedono alle federazioni aiuti atti a promuovere l’utilizzazione delle risorse sinora non abbastanza sfruttate. Non vi è ragione perché lo stesso indirizzo non abbia a prevalere in una Federazione europea e di questo non abbiamo ad avvantaggiarsi massimamente le regioni più arretrate e depresse. Furono scritti in passato libri intitolati Nord e Sud, nei quali si voleva dimostrare la tesi che le regioni meridionali erano state, in Italia, danneggiate, nella ripartizione delle spese pubbliche, a vantaggio delle regioni settentrionali. Proporzionalmente alla loro ricchezza, poiché questa era sovratutto territoriale e visibile, le regioni meridionali pagavano maggiormente delle regioni settentrionali la cui fortuna era mobile ed occultabile al fisco. Laddove, quanto a spese, il Nord si avvantaggiava per la localizzazione dei corpi d’armata verso il confine politico, per i porti militari pure situati nel nord, per le maggiori richieste per le scuole, strade, ponti, ferrovie presentate dagli abitanti del nord in confronto a quelli del sud. I libri valsero a suscitare vive discussioni; fu riformato il sistema tributario ed oggi è probabile, ed è anche giusto, che le proporzioni siano rovesciate e che l’Italia meridionale riceva, tenuto conto delle necessità tecniche proporzionatamente alle imposte pagate, una quota maggiore di quella attribuita all’Italia settentrionale dei vantaggi delle spese pubbliche. È probabile che altrettanto accadrebbe nell’Europa federata; e che il ricavo delle imposte fiscali sarebbe distribuito proporzionatamente di più a favore, ad esempio, della Spagna, della Balcania, della Grecia, dell’Italia meridionale e delle isole, della Polonia, che del Belgio e dell’Olanda, dell’Italia settentrionale, della Francia, della Germania, della Svizzera e dei paesi scandinavi, dove il reddito individuale ed il tenor di vita è più alto.

 

 

3. La distribuzione delle imposte nuove in un’Europa federata necessariamente favorirà le regioni meno ricche. Così pure la distribuzione del credito da parte della Banca centrale europea.

 

Ciò accadrà però, si osserva, grazie a nuove imposte, in aggiunta ed accanto a quelle antiche. Conserveremo, si teme, tutte le antiche imposte pagate ai comuni, alle provincie ed agli stati; ed in aggiunta pagheremo nuove imposte alla Federazione. Cosicché il vantaggio delle spese federali sarà illusorio; ché ce le pagheremo ognuno di noi, di tasca nostra, con nuove imposte federali.

 

 

L’osservazione non è in primo luogo esatta; poiché talune imposte statali saranno necessariamente trasferite alla Federazione, come quelle doganali e le imposte di fabbricazione; e col loro provento si dovrà provvedere alle spese della difesa nazionale, trasferite completamente alla Federazione. Per quel che non sarà coperto dai dazi e dalle accise, la Federazione dovrà istituire certamente nuove imposte. Ma noi possiamo prevedere con sicurezza a quale tipo di imposte ricorrerà la Federazione, osservando su quale base siano imperniati i sistemi tributari dei paesi più ricchi. Si tratterà di una imposta sul reddito complessivo dei contribuenti – persone fisiche, ad aliquota crescente col crescere del reddito. Anche se si partirà dal basso, anche se saranno chiamati a pagare tutti i contribuenti aventi un reddito, ad ipotesi da 100 lire sterline in su, si tratterà pur sempre di reddito di almeno 1500 lire italiane ante 1914 (in Italia prima del 1914 il minimo imponibile per i redditi di lavoro era di 640 lire all’anno), qualcosa come 7500 lire del 1922, come 12.000 del 1938, come 20.000 del 1943, ecc. ecc., ossia qualcosa che all’incirca potrà essere considerato come il reddito sufficiente ad una vita normale della famiglia operaia. La imposta su questi redditi, già superiori al minimo, sarà ad aliquota minima, ad es. del 0,50%; ed andrà via via crescendo sino, ad es., al 10% per i redditi da 10.000 sterline in su (150.000 lire italiane ante 1914). La Federazione dovrà mantenersi moderata nelle sue aliquote perché sullo stesso reddito graveranno inoltre imposte statali, provinciali, comunali e di enti diversi. Siccome in realtà non esiste un’Italia povera ed una Francia ricca; ma vi sono italiani poveri ed italiani ricchi, francesi poveri e francesi ricchi, svizzeri poveri e svizzeri ricchi, non esisterà uno scaglionamento di paesi in relazione al pagamento delle imposte, ma uno scaglionamento di individui italiani, francesi, svizzeri, tedeschi, mescolati insieme e susseguentisi l’un l’altro a seconda dei rispettivi redditi. Così come oggi si fa già nei singoli stati, saranno i contribuenti più ricchi coloro i quali dovranno sopportare il peso proporzionatamente maggiore delle spese pubbliche, e se i contribuenti più ricchi saranno più numerosi nell’Italia del nord che nell’Italia del sud, in Germania, in Francia, in Svizzera, nel Belgio, in Olanda, in Scandinavia piuttostoché nel bacino del Danubio, in Polonia, nei Balcani, in Grecia, in Spagna, nell’Italia meridionale, saranno gli stati della prima categoria quelli sui quali cadrà proporzionatamente il peso massimo delle imposte. Se poi, come è ovvio e ragionevole supporre, la Federazione cercherà di migliorare i servizi pubblici, per quanto ad essa spetta – grandi vie di comunicazione, ferrovie, porti, linee marittime ed aeronautiche – nelle regioni che ne sono più difettose piuttostoché in quelle che ne sono già provvedute, gli stati più poveri della seconda categoria ne profitteranno in maggior misura. Se, grazie, all’unificazione della moneta e della circolazione monetaria, l’Istituto centrale federale eserciterà una influenza notevole sulla distribuzione del credito in un’Europa unificata, sarà altresì ovvio e razionale che le correnti di credito siano da esso dirette dagli stati e dai centri dove si accumula, per la maggior parte del risparmio possibile e dove è meno probabile trovare nuove vie all’investimento dei capitali, verso gli stati più poveri, dove esistono ancora possibilità di investimenti per il grado più basso, a cui è giunto il livello della vita economica. Accadrà in una Europa federata quel che è accaduto nell’Italia unita. Non si sono visti i risparmi ed i capitali disponibili risalire dalla Sardegna, dalla Sicilia, dalla Calabria, dalla Basilicata verso Genova, Torino e Milano; non fosse altro perché quei risparmi erano miseri e diffidenti. Furono invece i capitali del Nord che iniziarono le centrali elettriche, che impiantarono stabilimenti nella zona del porto di Napoli, che intrapresero talune importanti bonifiche agricole. Con ciò non si vuole affermare che il più non sia stato fatto dai meridionali medesimi, rinati a nuova operosità per il risvegliato spirito di emulazione verso quel che altri aveva già fatto. Si vuol soltanto dire che i risparmi affluiscono dai paesi già civilizzati, dove le occasioni di investimento sono forse più facili ed ampie ma meno allettanti, per la maggior concorrenza ed il più diffuso spirito di iniziativa, verso i paesi più arretrati, dove le occasioni di investimento, per la minore disponibilità di risparmio e la minore educazione industriale degli abitanti, sono più promettenti, e non viceversa. L’Italia, tra il 1860 ed il 1890, ha costrutto la sua attrezzatura ferroviaria, stradale, portuale, ha iniziato le prime bonifiche (esempio classico quella ferrarese, arditamente intrapresa da capitali stranieri, precipuamente svizzeri, e chiusa infelicemente come accade quasi sempre ai pionieri, per passare a mani italiane, che ne godettero poi i frutti con una saggia amministrazione, sinché nel dopoguerra le azioni caddero in mano a filibustieri) in parte con risparmi propri; ma in parte con capitali presi a prestito all’estero. Capitali che poi furono restituiti. La Federazione, facilitando al massimo i rapporti finanziari fra stato e stato, accrescendo la sicurezza degli investimenti, garantendo l’osservanza delle leggi con un imparziale tribunale federale, non potrà non giovare grandemente a un tale processo di trasfusione di capitali dagli stati più ricchi a quelli più poveri.

 

 

4. La domanda del «cosa produrremo?» se la Federazione avvilirà i prezzi delle cose che prima conveniva produrre nel chiuso mercato statale.

 

Nonostante l’evidenza di queste argomentazioni persistono i dubbi, retaggio naturale di secoli di diffidenza e di lotta, e le incertezze di coloro i quali si sono adagiati in situazioni di fatto esistenti e temono il finimondo se queste dovessero essere mutate. Che cosa faremo noi, chiedono alcuni, se l’unificazione economica del territorio europeo, ci costringerà ad affrontare la concorrenza dei prodotti degli altri stati federati? Che cosa produrremo al luogo del frumento, della carne, del vino, delle vetture automobili, delle macchine, che prima noi producevamo nel territorio italiano e che non potremo più vendere e quindi produrre, di fronte alla concorrenza vittoriosa dei produttori germanici o francesi o svizzeri o cecoslovacchi! Che cosa ne sarà della Fiat la quale dà lavoro ad un terzo, se non alla metà della popolazione torinese? Che cosa della Pirelli, della Montecatini, dell’Ansaldo, dell’Ilva, della Cogne? Che cosa di tant’altre imprese, le quali affermano di vivere solo grazie al possesso assicurato, col mezzo della protezione daziaria, del mercato interno?

 

 

5. L’esperienza dello Zollverein tedesco e della unificazione italiana. Il caso delle vetture automobili. Non esistono fattori insuperabili di maggior costo. Insussistenza dell’argomento delle imposte.

 

Che cosa accadrà? Quel che deve accadere in un paese nel quale si è lasciata facoltà agli industriali, agli agricoltori, ai lavoratori di scegliere le vie le quali ad essi appaiono più remunerative invece di quelle che appaiono tali ad altri. Quando l’Italia fu unificata nel 1860, quando in Germania fu conclusa nel 1833 la Unione doganale (Zollverein), ci furono Cassandre le quali predissero il finimondo: in Piemonte la rovina delle industrie della seta e della lana non più protette contro la concorrenza della più agguerrita industria lombarda, la quale disponeva del grande mercato austriaco; nel napoletano la rovina delle industrie locali, fortemente protette, per la concorrenza di quelle settentrionali. Dopo un non lungo periodo di assestamento, le industrie ritrovarono il loro equilibrio e cominciarono, grazie alla maggiore capacità di assorbimento del mercato nazionale triplicato e quintuplicato per estensione e numero di consumatori, la ascesa la quale condusse nel 1914 il paese a possedere una vigoria economica ed una attitudine di adattamento alle esigenze grandiose della prima guerra mondiale, quale nessuno avrebbe potuto immaginare nel 1860.

 

 

Per quale ragione mai non si dovrebbe continuare a fabbricare vetture automobili ed autocarri in Italia? Il maggior costo, in confronto al costo estero, dei materiali, adoperati nella costruzione, è quantità trascurabile in confronto al costo totale il quale consta essenzialmente di interessi e quote di manutenzione ed ammortamento sugli impianti e sul macchinario, sugli edifici, sul terreno, di mano d’opera e di spese generali. In un mercato ampio come l’europeo, impianti e macchinari possono essere acquistati da una fabbrica italiana alle stesse condizioni come da una fabbrica francese o tedesca od inglese. A meno di supporre che gli ingegneri ed i funzionari, solo perché italiani, siano meno capaci di organizzare il lavoro e gli acquisti e le vendite degli ingegneri e dei funzionari inglesi, tedeschi o francesi; a meno di supporre che gli operai, solo perché italiani, siano meno in grado di maneggiare i loro utensili e di sorvegliare ed utilizzare le macchine dei loro compagni stranieri, quale ragione vi è perché il costo di una vettura o di un carro sia superiore al costo straniero? Le spese generali? Dipenderà dalla abilità dei dirigenti di farle diminuire, approfittando della potestà di vendere, senza ostacoli di dazi, le vetture in un mercato di parecchie centinaia di milioni di compratori, in media meglio provveduti, di mezzi di acquisto, piuttosto che su un mercato di soli quarantacinque milioni di compratori ridotti, dall’alto prezzo, ad invidiare altrui le possibilità di fornirsi del comodo mezzo di trasporto. Le imposte? L’argomento delle forti imposte le quali si debbono pagare in paese in confronto di quelle più basse che si pagano all’estero è messo nel nulla dal fatto che esso si ascolta, identico, in bocca agli industriali di tutti i paesi; dove, senza eccezione, ci si lamenta di trovarsi, per questo riguardo, in condizioni di inferiorità rispetto all’estero. Fosse anche, il che non è, fondato, quale sarebbe la portata dell’argomento? Forse che, aumentando, col dazio, il prezzo delle automobili in Italia, il peso delle imposte in Italia scema? No, anzi cresce. Le imposte, che esistevano prima, restano tali e quali. Il dazio sulle automobili straniere non fa diminuire di un soldo il fabbisogno dello stato. Se questo aveva prima trenta miliardi all’anno di spese da sopportare e di conseguenti imposte da prelevare sui contribuenti, trenta miliardi restano né più né meno. La fabbrica di automobili seguita a pagare le imposte che pagava prima. La sola differenza è che essa riesce, se già non ci riusciva prima, a farsele rimborsare dai compratori d’automobili, grazie al maggior prezzo di vendita che può riscuotere, non avendo più da sopportare la concorrenza estera. Passando sopra a qualche complicazione, tutta la sostanza dell’argomento a favore dei dazi si riduce ad una diversità di opinione intorno al miglior metodo di ripartire le imposte. È meglio che le imposte, delle quali lo stato non può fare a meno, siano pagate (sotto forma di imposte sui fabbricati, di ricchezza mobile, di negoziazione e sui dividendi e interessi delle azioni, di registro e bollo ecc. ecc.) dai fabbricanti di automobili, di seterie, di lanerie, di cotonate, di rayon, di macchine, di navi, dai produttori di frumento, di vino, di bestiame, di formaggi, ovvero dai consumatori acquirenti di tutte queste cose sotto forma di rimborso delle imposte medesime ai produttori attraverso un più alto prezzo delle cose vendute? Poiché le imposte debbono essere pagate, dal dilemma non si esce. Chi è meglio le paghi? Se i fabbricanti di automobili, di frumento, di cotonate, ecc. ecc. sono persuasi della bontà della loro causa si facciano avanti e sostengano la tesi: noi non vogliamo più pagare imposte sul reddito della nostra terra, dei nostri fabbricati e della nostra industria, sui dividendi e interessi distribuiti ad azionisti ed obbligazionisti; e riteniamo giusto che le imposte siano pagate solamente da chi acquista e compera automobili, macchine, vestiti, scarpe, pane, carne e vino.

 

 

Se avranno buone ragioni a sostegno della loro tesi, nessuno rifiuterà di ascoltarli. Non è escluso che l’opinione pubblica in qualche caso li conforti col suo appoggio. Può darsi, ad esempio, che, pur non esentando i fabbricanti di automobili dall’obbligo di pagare imposte sui loro redditi, l’opinione pubblica riconosca unanimemente essere corretta una imposta sui consumatori di automobili per due ragioni; in primo luogo a titolo di rimborso dell’usura particolare che il traffico automobilistico provoca alle strade ordinarie; ed in secondo luogo perché l’uso di una vettura può essere l’indizio di un reddito posseduto dal possessore della automobile, reddito, che può ritenersi opportuno di tassare per mezzo di quell’indizio. Ma, salvo pochi casi ben specificati e ben dimostrati, è difficile che, dinanzi al tribunale dell’opinione pubblica trionfi, se chiaramente e nettamente posta, la tesi che debba toccare al consumatore del pane o delle scarpe o dei vestiti o dell’aratro l’obbligo di pagare la imposta che di solito è fatta gravare sul reddito di coloro i quali hanno contribuito a produrre tutti questi beni. Per farla trionfare, gli industriali e gli agricoltori debbono imbrogliare le carte e lasciare intendere che, con i dazi, si sia inventato un metodo miracoloso per non più pagare le imposte. Sia ben chiaro che i dazi non aboliscono nessuna imposta; e l’unico effetto in proposito è di farle pagare a chi è meno in grado di sopportarle. Ciascun paese, ciascun popolo è chiamato a sopportare le conseguenze di quelle disgrazie od inferiorità che lo affliggono: a cercare di cavarne quel migliore partito che gli è mai possibile. Se la sfortuna volle che esso fosse mal governato e che quindi su di lui cadessero imposte gravose, egli non rimedia alla disgrazia col caricarsi di un’altra imposta, quale è un dazio doganale. Unico rimedio è cangiar governo e stabilirne uno il quale gli faccia pagare imposte poco gravose. Badisi che imposta «poco gravosa» non vuol dire imposta «bassa», perché se un’imposta è alta, ma il governo amministra bene, dà pubblici servizi vantaggiosi, può darsi, anzi è certo, che quell’imposta alta pesa meno di una imposta apparentemente bassa, ma riscossa da un governo prevaricatore.

 

 

6. In un mercato ampio, aperto alla concorrenza, gli imprenditori dovranno ingegnarsi. È vantaggioso che così sia.

 

Se gli ingegneri e gli agronomi sono poco periti nel loro mestiere o sono rari o addirittura non ci sono, se non ci sono maestranze, se i capitalisti non osano arrischiare i loro risparmi nelle industrie, il rimedio non consiste nel chiudere le frontiere alle merci estere. A quei malanni non si rimedia dicendo agli ingegneri: non logoratevi il cervello a fabbricare automobili per il popolo che si possano vendere a 200 dollari l’una, suppongasi a 1000 lire ante 1914; ciò è faticoso e logorante e vi farà guadagnare quattrini solo se riuscite a vendere, invece di 20.000 automobili nuove all’anno, almeno 200.000. Il governo stabilirà un dazio alla frontiera, vieterà ai concorrenti esteri di impiantarsi in Italia, salvo col vostro consenso; e così voi potrete sfruttare il mercato interno vendendo le stesse automobili popolari a 400 dollari l’una e contentandovi di venderne solo 20.000. Non fa d’uopo che il governo dica ai contadini: se volete diventare buoni meccanici, non basta fare un qualche tirocinio dal biciclettaio o dal fabbro o dal riparatore del paese, ma occorre che facciate in città qualche più lunga e grama vita di apprendista, che andiate a qualche scuola serale, e che vi rendiate capaci di guadagnarvi il salario decente che spetta ad un operaio che si rispetti. Con un bravo dazio, il fabbricante è sicuro di sé e potrà impiegarvi anche se renderete poco. Paga il consumatore forzato ad acquistare la macchina paesana invece di quella estera. Ai capitalisti timidi il dazio dice: state tranquilli che io vi garantisco un onesto frutto del vostro capitale. Sarà ottenuto alle spalle dei vostri concittadini; ma sarà certo. Così i capitalisti restano timidi; ma chi non risica non rosica e le grandi imprese importano sempre grandi rischi.

 

 

Chi vuole la Federazione europea offre il vero rimedio alla gravità delle imposte, alla timidità dei capitali, all’imperizia delle maestranze ed alla ingordigia degli industriali. La Federazione, abolendo gli eserciti e le marine e le aviazioni «statali», ne diminuisce il costo; ché un esercito solo, sebbene meglio armato e meglio istruito costa, per testa di abitante, meno di quattro o cinque grossi e di una ventina di piccoli eserciti separati, di cui solo un paio agguerriti sul serio, e diminuendo le probabilità di guerra, scema il costo di preparazione alla guerra. Le imposte diventeranno forse ancora più alte d’adesso; ma essendo indirizzate ad opere di pace saranno meno gravose di quelle odierne e, se gli italiani ed i francesi e i tedeschi non più guasti da nazionalismi rabbiosi sapranno darsi buoni governi nazionali, saranno persino feconde ossia non costeranno nulla, perché un servizio non costa nulla quando avvantaggia almeno tanto quanto costa. I capitalisti, non avendo la comodità di sottoscrivere prestiti statali senza limiti per far fronte a spese di guerra o di preparazione alla guerra, dovranno rassegnarsi a ricevere interessi, invece che del 4 o del 5%, solo del 3 e del 2 e forse anche dell’1%, e saranno costretti a cercare impieghi più attraenti, sebbene più rischiosi, nell’industria e nell’agricoltura. Se a coltivare frumento la terra renderà troppo poco e forse nulla, i proprietari dovranno rassegnarsi a restringere le superfici coltivate a cereali ai terreni più adatti, dove sarà possibile produrre frumento a prezzi di concorrenza, supponiamo 4 o 5 dollari attuali al quintale equivalenti all’ingrosso a 12/15 lire ante 1914. Non si produrranno forse più 80 milioni di quintali all’anno, ma se ne produrranno sempre molti; ché i contadini i quali vivono sul proprio ed i mezzadri ed i fittuari vorranno sempre produrre in casa, per una vecchia abitudine difficile a smettere, il pane che mangiano; e vi saranno sempre agricoltori, i quali, fatti i conti, riscontrando che in un’Europa unificata, potranno procurarsi concimi chimici, aratri, aratrici, mietitrici, trebbiatrici, petrolio a prezzi di concorrenza, non gravati da dazi, la coltivazione del frumento non sarà del tutto da disprezzarsi, e che, con una buona rotazione, con arature profonde e concimazione adeguata, sarà possibile cavar dal fondo quei 20/40 quintali secondo le stagioni e le esposizioni ed il clima ed i terreni, i quali, anche a 12/15 lire ante 1914, daranno un reddito netto relativamente remunerativo. Che se qualche terreno non converrà assolutamente coltivarlo a grano, e se si tratterà non di qualche ettaro, ma anche di forse 2 sui 5 milioni di ettari coltivati a frumento in Italia, non perciò cascherà il mondo. In molti casi il proprietario agricoltore avrà fatto i suoi conti e, non più sostenuto dalla protezione doganale e dai conseguenti prezzi alti, avrà ripetuto il motto di un grande agricoltore del mezzogiorno, uno dei maggiori agronomi dell’epoca immediatamente susseguente al Risorgimento, il senatore De Vincenzi: «nel mezzogiorno coltivare frumento è come giocare a primiera». L’agricoltore semina ed il vento che viene dall’Africa si porta via la messe prossima a maturazione. Se vorrà salvarsi occorrerà si ingegni. Acquisterà trattrici e metterà sossopra il terreno, cercando di immagazzinare negli strati profondi quella poca acqua venuta dal cielo e rullando con altre macchine il terreno superficiale per non lasciarla evaporare. O trivellerà il fondo per captare le correnti d’acqua sotterranee cercando di congiungere insieme acqua e sole, che sono gli agenti più fecondi della produzione agraria nei climi mediterranei. Innalzerà barriere di piante ai limiti dei campi contro l’imperversare dei venti. Alleerà la sulla ed altre foraggiere ai cereali e arricchirà di humus la terra, intraprenderà culture industriali di ortaggi, se avrà potuto provvedersi di acqua; o ricorrerà alla vite, all’olivo, al mandorlo, ecc. ecc. se la sua terra è pertinacemente asciutta. Si adatterà a non avere redditi per anni e forse per decenni lavorando per i figli e per i nipoti. Se non vorrà o non potrà far nulla di ciò, perché gli faranno difetto la perizia, la volontà tenace ed il credito – ma il credito va sempre a chi ha perizia e volontà – neppure in tal caso cascherà il mondo. Basterà che egli se ne vada fuori dei piedi e cessi di disturbare il prossimo seguitando a ripetere al caffè o al circolo la solita solfa: cosa dobbiamo coltivare al luogo del frumento se ci levano il dazio? Andarsene con i suoi piagnistei e con i suoi debiti ipotecari improduttivi e lasciare il luogo a chi non si quereli e non chieda l’elemosina a nessuno.

 

 

Se altro risultato l’abolizione del dazio sul frumento e sulle altre derrate agrarie, compreso il vino, l’olio, le frutta, il bestiame non dovesse avere sarebbe già questo un grande risultato: di sbarazzarci dei proprietari neghittosi, dei latifondisti i quali vivono in città, della gente che affitta le terre ad intermediari e si interessa solo a riscuotere fitti. Tanto meglio se quei terreni non renderanno più nulla e, gravati di imposta invariabile, dovranno essere venduti a prezzo eguale ad una metà, ad una terza o ad una quarta parte dei prezzi toccati in regime di protezione. Qualche altro le comprerà. I compratori saranno di due specie. Capitalisti cittadini, disposti ad investire capitali in migliorie, in costruzione di strade e di case, in arature profonde, in complementi di bonifiche, in opere secondarie di irrigazione, – le opere grosse di bonifica di irrigazione e di rimboschimento non possono che essere l’opera di consorzi pubblici – in piantagioni. Sarà la minor parte come superficie e saranno, come sempre accadde in Italia, di esempio e di sprone agli altri. Gli altri compratori saranno i contadini, i quali con il loro lavoro sapranno coltivare il frumento con vantaggio dove i vecchi proprietari non riuscivano; ed a poco a poco inizieranno, forse un po’ in disordine e senza un piano, tante altre coltivazioni alle quali i signori che al caffè discutevano del dovere del governo di proteggere l’agricoltura nazionale non avevano mai pensato. Questi contadini converrà che lo stato, libero dalle cure della guerra, grazie alla Federazione europea, li aiuti, aprendo esso le strade, promuovendo la costruzione delle case e incoraggiando con sussidi quei complementi di opere di bonifiche e di irrigazione alle quali il capitalista cittadino provvederà poi da sé. Lo stato nazionale provvederà a costruire nei centri naturali, dove già non esistano, case e per l’acquisto di concimi, sementi, attrezzi, affidati a consorzi liberamente costituiti dagli stessi contadini od affittati a volenterosi negozianti, i quali volessero tentare la fortuna nelle campagne. Ed accanto alla scuola, vi sarà il podere sperimentale, con l’agronomo del villaggio pronto a recarsi dappertutto a dar consigli gratuiti e rassegnato a non vedersi ascoltato, se i suoi consigli saranno imparaticci libreschi e non frutto di esperienza illuminata dal sapere.

 

 

Non è così, o suppergiù così, che in tanta parte della Liguria, dove fu possibile, i sassi furono trasformati in giardini di fiori? Se quei liguri avessero seguitato a chiedere agli uomini politici e agli economisti: cosa faremo adesso che il frumento ci arriva da tutte le parti del mondo, e nonostante il dazio, si vende a prezzi che sono la metà od il terzo del costo a cui noi lo produciamo sui quattro palmi di terra che a furia di muretti e di gerle abbiamo accumulata sui greppi dei nostri colli? Che cosa faremo, oggi che gli olivi invecchiano e le olive son scadute di prezzo, sicché non franca neppure la spesa di abbacchiarle e di raccoglierle? Che cosa faremo noi che, con reddito zero, dobbiamo pagare imposte e sovraimposte fondiarie sproporzionate? Poiché nessuno rispondeva, ché non è mestiere né dei politici né degli economisti rispondere a siffatte domande, qualcuno ha cominciato a dar l’esempio; e su quei greppi e in quelle brevi piane ha costruito cisterne e ha ampliato quelle vecchie; ha, con spese diaboliche, raccolto a goccia a goccia l’acqua piovana; ha costrutto, per poterla centellinare, canaletti in cemento o in piombo ed ha coltivato ortaggi e fiori. Sono venute su primizie, che il pioniere ha cominciato a vendere a Savona e a Genova, eppoi, estendendosi il mercato, a Torino ed a Milano. Dopo di lui sono venuti altri, molti altri, la più parte proprietari non di un ettaro, che è già una specie di latifondo, ma di mezzo ettaro, di un quarto di ettaro, di mille metri quadrati e meno; ed i fiori della Liguria sono giunti a Nizza, a Parigi, a Londra, a Berlino, a Stoccolma; e sarebbero seguitati ad andare, in sempre e più belle e nuove varietà, iniziate da qualcuno ed imitate dagli altri, se la guerra non avesse rovinato anche questa iniziativa. La Federazione europea, la quale vuole togliere le cause della guerra in Europa, farà rifiorire questa industria e provocherà il fiorire di tante altre industrie agricole, dal vino all’olio, dalle pesche alle pere, dagli ortaggi agli agrumi.

 

 

7. L’autarcia, lo spezzettamento dei mercati non producono materie prime, carboni e capitali. L’esempio svizzero. La scoperta di vendere ad alto prezzo beni di qualità fina.

 

Ai soliti piagnoni i quali chiedono: come faremo senza materie prime, senza carbone, senza denari a ricostruire l’Italia dopo la guerra distruttrice? rispondiamo: le grosse spese militari, i dazi doganali, l’autarcia, ci hanno forse dato in passato materie prime, carbone e quattrini? Non c’erano, quando i dazi erano moderati e non esisteva l’autarcia[1]; ma dazi ed autarcia non ci diedero le miniere di ferro e di carbone, i pozzi di petrolio che non avevamo, le piantagioni di cotone e di gomma elastica, a cui i nostri terreni non sono adatti e le greggi di pecore alle quali mancano i pascoli, da noi trasformati a culture più redditizie. Eppure, se confrontiamo il 1914 col 1860 l’Italia aveva progredito parecchio e teneva un luogo non ultimo nello arringo delle nazioni produttrici. Perché dubitare che in un mercato più ampio, in un clima politico più libero e sicuro, non si sappia progredire almeno come si fece quando eravamo soli? Perché ritenerci da meno della Svizzera, la quale senza carbone e senza ferro, senza piombo e senza stagno, senza rame e senza zinco, senza cotone e senza gelsi da seta, senza cacao e senza agrumi, senza petrolio e senza gomma elastica, non solo conserva la tradizionale industria alberghiera, non solo mantiene il primo posto nell’industria orologiaia, ma vende in tutto il mondo macchine elettriche, motori, autocarri a prezzi di affezione, cioccolata e conserve di frutta ed alimentari? Li vende perché si è specializzata in prodotti fini ed ha fatto la scoperta ovvia e nello stesso tempo geniale che a vendere roba buona ad alto prezzo, si trova sempre, in un mondo il quale va elevandosi in benessere materiale, qualcuno pronto ad acquistarla. Questa è la nostra via; e non giova rimuginare sui benefici che si possono ottenere seguitando a produrre, all’ombra dell’autarcia economica e dell’isolamento politico quel che tutti son buoni a produrre, le merci ordinarie, come il frumento che è meglio lasciar coltivare dove la terra val poco, perché non esistono altri usi alternativi, o tessuti ordinari, che è preferibile lasciar filare e tessere agli indiani ed ai giapponesi che dicesi per ora si contentino, per vivere, di un piatto di riso cotto nell’acqua e infilato in bocca con le bacchettine.

 

 

CAPITOLO IV

DI ALCUNI ERRORI E TIMORI VOLGARI IN MATERIA ECONOMICA

 

1. L’uso nelle discussioni economiche di parole trasportate dal proprio ad altro significato.

 

Per ora nessuno propone di includere cinesi, giapponesi ed indiani nella costituenda Federazione europea; epperciò questa potrà, se lo riterrà opportuno, difendersi, circondandosi di una barriera doganale bastevolmente alta, contro l’importazione delle merci a buon mercato prodotte dalle genti divoratrici di riso; ma non è fuor di luogo chiarire quanto siano infondate le preoccupazioni di coloro i quali temono, dalla costituzione di un grande mercato europeo, entro il quale uomini e merci possano liberamente muoversi, danni senza numero per il loro paese. Questi danni sono convenientemente descritti in maniera pittoresca con frasi del seguente tipo: – il paese sarà «inondato» da merci estere a buon mercato; – ci sarà una «invasione» di merci a basso prezzo, contro la quale i produttori nazionali saranno impotenti a resistere; – in breve ora, dinnanzi alla strapotenza dei concorrenti esteri agguerriti, forniti di capitali a buon mercato, la capacità di acquisto del paese sarà esaurita. Esaurite le poche scorte d’oro, incapace a vendere all’estero le proprie merci a prezzi abbastanza bassi, con che mezzi il paese acquisterà ancora il necessario per alimentarsi e vivere? Gli stranieri si precipiteranno come cavallette sul paese, e acquisteranno, a vil prezzo, le nostre terre, le nostre case e le nostre fabbriche, sin che alla fine i nazionali siano ridotti allo stato di salariati proletari, al soldo del forestiero; – ovvero, se vorremmo mantenerci indipendenti, mancherà il lavoro, i fumaioli saranno lasciati spegnere, le maestranze dovranno emigrare in cerca di un pane; e il paese ritornerà allo stato della pastorizia e della caccia. Rimarranno nelle città guide per istruire e mendicanti per divertire i forestieri, amanti di antichità, di musei e di rovine.

 

 

Il quadro è terrificante; ma deriva gran parte del suo valore dall’uso di figure rettoriche le quali non hanno niente a che vedere con la sostanza del problema. Le parole «inondazione», «invasione», «guerra economica», «conquista» sono importate da fatti che appartengono ad un mondo tutto diverso da quello degli scambi economici, dei quali unicamente si tratta. Un terreno è «inondato» dall’acqua straripante dai fiumi e torrenti, quando l’acqua, coprendolo di sabbia e di sassi, distruggendo raccolti, colmando canali, guastando strade e piantagioni, ne riduce per anni ed anni la produttività ed è causa di sforzo grande per ricondurlo alla fertilità antica. In che modo possiamo assimilare a tal fatto indubbiamente dannoso l’importazione a basso prezzo di prodotti esteri? Importazione di frumento a 15 lire ante 1914 al ql., invece che a 25 od a 30, per sé significa soltanto «messa a disposizione di uomini di una massa maggiore di frumento». Anche se l’inondazione di frumento giungesse sino al punto, che è assurdo, di consentirci di entrare gratuitamente in possesso del frumento necessario ai nostri bisogni, il fatto in sé non potrebbe da nessuno essere considerato dannoso. Eliminata la necessità di fare lo sforzo necessario a procurarci il frumento, noi potremmo dedicare tutta l’opera nostra resa così disponibile a far qualcosa altro; per esempio, a fabbricare, perdendo all’uopo solo una parte del tempo reso libero dal regalo che qualcuno ci farebbe della materia prima, pane così ben fatto, di forme ed aspetti così diversi ed attraenti, paste alimentari così ben confezionate ed a prezzi così bassi da essere accessibili a tutte le borse e così gradite al palato da crescere l’appetito e la salute dei felici consumatori. Questo, e nient’altro, vuol dire per se stessa «l’inondazione» delle merci estere.

 

 

Parimenti, «l’invasione» delle medesime merci non è connessa col clangore delle trombe, con il fischio delle palle, il tuonare dei cannoni, l’urlo delle bombe cadenti dall’alto, il fumo ed il terrore degli incendi, con cui nella immaginazione degli uomini è connessa l’invasione nemica vera e propria. L’invasione delle merci estere è per sé medesima connessa con l’idea di offerte attraenti al prezzo 5 di merci che noi eravamo abituati ad acquistare al prezzo 6 od 8 o 10, di merci più solide o nuove al posto di altre di scarsa durata e di forma antiquata, di cataloghi ben redatti, i quali ci offrono piantine straniere di rose novità al prezzo di 1 lira l’una al luogo di piantine nazionali al prezzo di lire 2, di commessi i quali ci assicurano che quella stoffa è pura lana forestiera, laddove quella nazionale è mista di cotone e di rayon. Se le allegazioni sono vere, quella è per fermo una invasione sui generis, dalla quale non ci sentiamo danneggiati, una invasione la quale per sé cresce la comodità della nostra vita. In fondo in fondo noi ci augureremo che così gentile invasione giungesse sino al punto di riempirci la casa di ogni ben di Dio mangereccio, di mobili eleganti, di ninnoli graziosi, di scarpe e di vestiti, durevoli e gradevoli all’occhio.

 

 

2. L’importazione di merci estere ci priva dei mezzi di acquistarle?

 

Se qualche dubbio rimane in noi dinnanzi ad inondazioni ed invasioni di indole così peculiare, esso deriva da una preoccupazione: di non avere i mezzi di provocare inondazione ed invasione, di essere ridotti allo stato del Re Mida che moriva di fame perché tutto quel che toccava si convertiva in oro. Al contrario, noi non potremmo, per mancanza di mezzi, toccar nulla delle belle cose straniere, le quali ci inonderebbero, ci invaderebbero, ci assalirebbero da ogni parte. Non potremmo nulla toccare perché le merci stesse straniere ci avrebbero privato dei mezzi di acquistarle.

 

 

Come ciò possa accadere, si tenta di spiegare nella seguente maniera: il consumatore nazionale, provveduto di una data somma di denaro, andando sul mercato segue la regola della miglior sua convenienza; e se la merce straniera, di uguale qualità gli è offerta a prezzo minore, sceglie questa. I produttori nazionali sarebbero nella impossibilità di vendere e quindi di produrre. E poiché nessun consumatore è tale, nessuno è provveduto di denaro, se non ha prima venduto qualcosa – il suo lavoro, i servigi della sua casa, del suo terreno, della sua industria – se nessuno ha potuto vendere niente per la concorrenza al ribasso della merce estera, nessuno è provveduto di denaro e nessuno può acquistare le merci estere delle quali benevolmente i produttori stranieri ci vorrebbero inondare, o con le quali essi vorrebbero invadere le nostre case. La inondazione o la invasione producono così l’effetto terrificante di inaridire i nostri campi, di spegnere i nostri fumaioli pure restandosene nell’alveo dei fiumi o non valicando i sacri limiti della patria. Basta, in questo genere particolarissimo di operazioni belliche, la pura minaccia per produrre l’effetto voluto dal nemico.

 

 

3. Insussistenza di siffatta condotta economica. La divisione del lavoro. Producendo un bene, gli uomini in realtà mirano ad un altro o ad altri beni. Lo scambio incrociato con tre o più permutanti. Le cose prodotte misurano il costo, le cose acquistate il compenso della fatica della produzione.

 

In verità non si comprende quale vantaggio possa il nemico ripromettersi da una siffatta condotta della guerra economica. Vuole o non vuole l’avversario – seguitiamo per il momento ad usare la barocca terminologia usata per indicare la persona di chi ci offre «senza costringerci ad accettare», una merce a noi presumibilmente gradita ad un prezzo minore di quello preteso da altri – vuole o non vuole venderci la sua merce? Se sì, quale interesse ha a privarci del mezzo di acquisto? Per lui la vendita non ha lo scopo di procurarsi denaro. In ogni caso non ha lo scopo di procurarsi la nostra moneta nazionale, che oggi in ogni paese consiste di biglietti, pezzi di carta stampata con su certe parole e certi ghirigori, i quali non hanno corso se non nel paese d’origine. Lo scopo, al più, è quello di procacciarsi moneta universale, avente corso dappertutto, ossia moneta d’oro. Ma l’esperienza, ovvia costante e generalissima, ci dice che neppure questo è il fine vero dello scambio. Gli uomini quando hanno ricevuto oro, moneta universale, non trovano ad essa nessun uso diretto. A meno di essere avari, assorti nella contemplazione e nel palpeggio delle monete d’oro, ognuno si affretta a cambiare l’oro in merci, in derrate, in servigi (fitti di casa, rappresentazioni teatrali, viaggi, servigi personali di domestici, di parrucchieri, di manicuri ecc. ecc.). Se, per il momento, l’uomo non ha desideri abbastanza intensi da indursi a separarsi dalla moneta, la deposita in banca, riservandosi di ritirarla più o meno presto, quando vorrà convertirla in merci o servigi; e la banca la dà a mutuo a chi se ne serve per comprare merci o servigi (materie prime e mano d’opera per l’esercizio dell’industria sua) salvo a restituirla quando avrà rivenduto il prodotto delle sue operazioni in industriali. In ogni caso il produttore produce merci e le vende non per procurarsi denaro, il quale non ha per lui nessuna utilità diretta, bensì, per mezzo del denaro, per acquistare le merci ed i servigi dei quali ha bisogno. L’avvocato dà pareri, in parte per il gusto di esporre la propria opinione su argomenti che lo interessano; ma, al punto di vista economico, dà pareri allo scopo di procurarsi vestiti, alimenti, casa, riscaldamento per sé e per la famiglia. L’artigiano intarsia, sì, con diligenza lo stipo, ordinatogli dal cliente, perché a lui piace il lavoro ben fatto; ma lo scopo del suo lavoro non è di fabbricare e possedere stipi intarsiati; ma, col mezzo di questi provvedere sé e la famiglia di alimenti, scarpe, vestiti, casa, medicine e via dicendo. Lo scopo della sua produzione non sono le cose da lui prodotte; sono quelle da lui desiderate ed acquistate.

 

 

L’avvocato e lo stipettaio hanno riflettuto che se volessero da sé produrre le scarpe, i vestiti, gli alimenti, l’appartamento di cui hanno bisogno, non verrebbero probabilmente a capo di nulla; e, volendo far tutto da sé, si ridurrebbero a vivere, come i selvaggi o come Robinson Crosuè, in grotte od in capanne di frasche, miseramente ed in continuo affanno di morire di fame o di freddo; ed hanno concluso che il partito migliore era quello di fabbricare solo pareri e solo stipi. Essi si sono specializzati in questa bisogna e vi hanno raggiunto un grado più o meno alto di eccellenza. Così hanno fatto tutti gli altri uomini; e così è nata quella la quale si chiama divisione del lavoro. La quale non conosce confini di stati o di province o di comuni. Se non esistessero dazi e confini e passaporti, tutto il mondo sarebbe un paese solo; e tutti gli uomini si scambierebbero i loro prodotti l’un l’altro. A nessuno verrebbe in mente di parlare di inondazioni di stipi in casa dell’avvocato e di pareri in casa dello stipettaio; perché tutti comprenderebbero che l’avvocato ricorre allo stipettaio soltanto quando desidera uno stipo e che lo stipettaio ricorre all’avvocato soltanto quando sa di avere vantaggio ad ascoltarne il parere. Non occorre, perché lo stipettaio possa vendere lo stipo all’avvocato, che egli attenda il momento, che potrebbe non giungere mai, di aver bisogno dei suoi pareri. A questo mondo, basta che ci sia sempre qualcuno bisognoso di pareri d’avvocato, per es. il sarto a cagione di un cliente litigioso. Il sarto chiede e paga il parere dell’avvocato; questi, colla moneta ricevuta acquista lo stipo; e lo stipettaio a sua volta si fa fare il vestito dal sarto. Così il sarto ha avuto il parere, che era il bene da lui desiderato, l’avvocato possiede e gode lo stipo e lo stipettaio veste panni. Estendiamo, a 100, a 1000, ad 1 milione, a 100 milioni di persone l’esempio ora fatto per tre persone e, salvo la complicazione, nulla sarà cambiato al quadro. In regime di divisione del lavoro, ognuno produce non per sé, ma per gli altri; ed ognuno considera il costo della merce da lui acquistata in ragione del costo, della fatica sopportata nel produrre la merce da lui data in cambio. Per l’avvocato il costo dello stipo non è dato dal numero delle lire da lui pagate per acquistarlo, ma dalla fatica durata, dal tempo consumato nel pensare e nell’elaborare il parere da lui dato al sarto. Le lire sono numeri astratti, che per sé non significano nulla. Quel che conta è la fatica, l’energia mentale spesa nel produrre il parere. Si potrebbe anche dire che per l’avvocato il costo dello stipo è dato dal sacrificio sofferto nel rinunciare a quell’altro bene, ad es. un grande trattato giuridico, a cui egli ha preferito lo stipo. Mentalmente, lo stipettaio reputerà caro od a buon mercato l’abito nuovo paragonandolo al numero di giorni consumati ed all’abilità impiegata nel fabbricare lo stipo. Se egli, vendendo lo stipo, riesce a procurarsi un vestito, un paio di scarpe ed un cappello, riterrà di avere avuto tutta questa roba a buone condizioni; se solo il vestito, si lagnerà che il lavoro dello stipettaio è male remunerato. E così per il sarto.

 

 

4. Gli scambi hanno luogo fra persone e non fra stati.

 

Le merci ed i servigi si pagano con le merci ed i servigi; ed il denaro serve solo per facilitare gli scambi. Se l’avvocato e lo stipettaio si trovassero uno di fronte all’altro, non avverrebbe alcuno scambio; ché l’avvocato desidera bensì lo stipo, ma lo stipettaio non sa cosa farsene dei pareri dell’avvocato. Per fortuna c’è il sarto, il quale ha litigato con il suo cliente, ed ha urgenza del parere dell’avvocato; mentre lo stipettaio è disposto a farsi fare il vestito dal sarto; e così tutte le cose si accomodano.

 

 

Si accomoderebbero anche fra sarti, stipettai ed avvocati o meglio fra fabbricanti di panni inglesi, segherie produttrici di assi per mobili della Scandinavia e fioristi della riviera ligure; se i singoli stati non costituissero unità territoriali separate e non venisse in mente l’idea balzana che gli scambi, invece di verificarsi fra fabbricanti i panni inglesi i quali hanno bisogno di mobili fabbricati con assi scandinavi, segherie scandinave, i cui proprietari vogliono rallegrare la loro merce con fiori freschi recisi liguri, e fioristi liguri i quali vogliono vestire panni inglesi, si verificano invece fra Inghilterra, Svezia ed Italia. Ed allora, invece di concepire i tre scambiatori come tre brave persone le quali, dopo avere un po’ litigato sul prezzo, si mettono d’accordo per effettuare lo scambio tripartito conveniente a tutti e tre, si guarda a tre stati, a tre paesi, a tre nazioni le quali, ringhiando l’una contro l’altra, si «inondano», si «invadono» reciprocamente con merci destinate a mandare in rovina il nemico, l’avversario intento a distruggere l’industria nazionale.

 

 

5. Anche il produttore peggio situato può combinare la produzione in guisa da avere qualcosa da vendere.

 

Nove decimi delle contese fra stato e stato derivano da finzioni e trasposizioni verbali di questo genere; ma questa è certamente la più balzana fra le figure retoriche adoperate nel linguaggio volgare e politico per rappresentare tragicamente un fatto elementare della vita quotidiana; gli scambi avvengono a causa della divisione del lavoro introdottasi tra gli uomini per accrescere la massa di ricchezza prodotta da tutti e per accrescere quindi la massa di beni che ognuno può procacciarsi vendendo agli altri le cose da lui stesso prodotte in maggiore abbondanza, grazie alla specializzazione del lavoro. Non vi è uomo, per quanto inabile e scarsamente fornito di capitali, il quale qualcosa non sia in grado di produrre. Anche l’agricoltore italiano il quale sia ridotto a coltivare un terreno ingratissimo, qualcosa è in grado di produrre. Egli può scegliere due vie: o coltivare in quel terreno tutte le derrate di cui ha bisogno; frumento, granoturco, erba per le pecore, bosco per trarne legna da riscaldamento, viti per il vino, olivi per l’olio, ortaggi per il desco famigliare. Egli spera in questo modo di non aver bisogno di acquistare nulla, ché il poderetto gli fornisce tutto ciò di cui ha bisogno. Nel forno famigliare cuocerà egli stesso il pane; la donna sua gli filerà e tesserà la lana delle pecore; nel frantoio e nella cantina produrrà olio e vino; ortaggi e frutta basteranno alla parca mensa. Oppure egli, osservando che nel pascolo l’erba viene grama, le viti non prosperano e le pannocchie di granoturco riescono stente, si ridurrà a coltivare, oltre l’orto di casa, frumento alternato con culture erbacee miglioratrici ed a curare bene e rinnovare gli olivi esistenti sul fondo. In verità, egli non ha la libertà di scelta fra le due vie; ché in ogni caso ha bisogno di vendere qualcosa per procacciarsi i beni ed i servizi, che assolutamente non può produrre da sé: le scarpe, i vestiti, il petrolio o l’acetilene o la luce elettrica per la illuminazione, i servigi pubblici (imposte), i libri scolastici per i ragazzi, le medicine ecc. Il contadino fa il conto, pressapoco, quale sia l’ammontare complessivo che egli deve spendere in denaro per procacciarsi le cose di cui ha bisogno e che non può cavare dal podere, supponiamo 3.000 lire; e, fatte le sue esperienze, si appiglia a quella combinazione di culture ed a quel reparto della superficie di terreno del suo podere che gli dà, oltre alle derrate da lui direttamente consumate, la possibilità di procurarsi, con il minimo di fatica, le 3.000 lire a lui necessarie. Fra le tante combinazioni di frumento, erbe foraggere (il che vuol dire bestiame grosso o minuto da vendere, latticini, formaggi) ed ulivi una ve ne sarà che gli dà il desiderato risultato. Se la sua terra è povera, forse non riuscirà a cavarne le 3.000 lire per gli acquisti in denaro; ed in tal caso egli un po’ rinuncerà a consumare una quota ulteriore dei suoi prodotti ed un po’ ridurrà le spese fatte fuor del podere, ad esempio, da 3.000 a 2.500 lire.

 

 

La sterilità della sua terra non gli impedisce di vendere; riduce solo la massa dei beni che egli può offrire in vendita e quella dei beni che egli può comprare. Se un dazio aumenterà il prezzo del suo grano, non perciò cresce la quantità di grano che, con identica fatica, egli si procura; cresce solo la quantità dei beni che egli si può procurare. Egli sta meglio; ma sta peggio il consumatore del grano, suo connazionale, il quale sarà costretto ad acquistare il pane a più alto prezzo ed avrà, ad ugual fatica, una massa di beni minore a sua disposizione. Potrà darsi e sarà in media anche probabile, che quel consumatore di pane stenti la vita ancor più del contadino produttore del pane. Ad ogni modo, non è vero che la mancanza del dazio protettivo per il grano costringa ad abbandonare i terreni a grano. Costringe a variare le culture per produrre il sovrappiù necessario alla vita e che il contadino non può produrre da sé. Seppoi un terreno è veramente tanto sterile che il contadino, stentando e logorandosi, non riesce a cavarne il necessario ad una vita miserabile, forseché sarà un male se quel fondo ritornerà a pascolo od a bosco e se il contadino, rimasto disoccupato, andrà in città a fare un mestiere che gli dia qualcosa di più di quel che gli offre la terra grama? L’abbandono della montagna, attorno a cui si sparge tanto inchiostro, è un fatto economicamente logico. Invece di consumare 10 o 20 giorni di lavoro a produrre un quintale di segale su un terreno impervio, il montanaro preferisce lavorare 5 soli giorni in fabbrica, lucrando così la somma occorrente per acquistare un quintale di buon frumento. C’è sugo a indurre col dazio il montanaro a seguitare nella coltura della segale con gran fatica, quando con minor fatica e col solo abbandono della terra a segale in montagna, egli si procura egualmente il buon pane? Lo scopo dell’attività umana non è quello di faticare a coltivare terre in luoghi ingrati; ma di far vivere gli uomini in condizioni degne. Se gli uomini ritengono di potersi procacciare i mezzi di vita altrimenti che col coltivar terreni sulla cima del monte Bianco, sarebbe assurdo rendere conveniente ad essi faticar molto per ottenere poco. Anche se questo poco sarà venduto ad alto prezzo, gli uomini potranno nel loro complesso consumar poco e dovranno vivere malamente.

 

 

6. L’errore di rallegrarsi della diminuzione delle importazioni e dell’aumento delle esportazioni. È vero, a parità di altre condizioni, il contrario. Le esportazioni sono il costo, la fatica; le importazioni sono il compenso, lo scopo della fatica durata nel lavorare.

 

Posti così, nella loro nudità, i fatti, è evidente essere errata la concezione che comunemente si espone nel parlare e nello scrivere quotidiano, delle importazioni e delle esportazioni. Per lo più, giornalisti ed uomini politici si rallegrano quando possono annunciare che le importazioni dall’estero sono diminuite e le esportazioni verso l’estero sono aumentate, sia in volume che in denaro. Sembra che il paese arricchisca perché incassa molto e spende poco. Può darsi che ci sia del vero nell’opinione così esposta; se ad esempio ciò vuol dire che noi esportando un miliardo di più di quanto non abbiamo importato, abbiamo esportato macchine locomotive, rotaie, ecc. ed abbiamo così fatto investimenti di capitale all’estero, senza subito ottenere il pagamento. Lo otterremo poi, si spera con utile, ricevendo negli anni futuri interessi, dividendi e quote di ammortamento. Può anche darsi che, esportando un miliardo di più dell’importato, abbiamo rimborsato un debito vecchio, liberandoci dell’onere di pagare in avvenire i relativi interessi. Possono darsi altre ipotesi ancora, le quali spiegano razionalmente il fatto. Ma, parlando in generale, che cosa vuol dire importare? Evidentemente, ricevere merci e derrate che noi desideriamo e che godremo; le quali ci serviranno a soddisfare nostri diretti bisogni od a fare impianti industriali o migliorie agricole fruttifere in avvenire. Cosa vuol dire esportare? Altrettanto evidente, dare merci e derrate che a noi costano fatica, privarcene, rinunciare a farne uso. Le esportazioni sono il sacrificio, il costo da noi sostenuto; le importazioni sono il vantaggio, il bene da noi desiderato. Razionalmente discorrendo, i nazionali di qualunque paese hanno interesse a ridurre al più possibile le esportazioni ad aumentare il più possibile le importazioni. Le esportazioni sono il costo, che noi vorremmo minimo, delle importazioni che noi vorremmo massime. Se noi discorressimo, cosa che è fuor di luogo, in termini morali, dovremmo dire che le esportazioni sono il male e le importazioni sono il bene. Nella vita privata quando di solito ragioniamo bene, tutti desideriamo esportare poco, ossia dare pochi pareri d’avvocato, pochi stipi o vestiti ed importare in cambio assai, ossia l’avvocato uno stipo preziosamente intarsiato, il sarto un parere ben elaborato, che gli faccia vincere la causa col cliente, e lo stipettaio un vestito di lana pura ben confezionato. Poiché tutti desideriamo la stessa cosa: esportare molto ed importare assai, i desideri non possono per nessuno essere pienamente soddisfatti. Il mercato deciderà quali siano le ragioni di scambio, ossia il prezzo dei pareri degli avvocati, degli stipi più o meno bene intarsiati o dei vestiti di lana pura o mista. Resta il fatto che nessuno, né individuo, né quella accolta di individui che è detta stato, corre il pericolo, che sarebbe augurabile, di restare soffocato dalla inondazione delle merci. Ognuno compra, ai prezzi del mercato, solo quella quantità di beni e servigi che uguaglia quella che può dare in cambio e nessuno, a meno che egli sia un mendicante od un lestofante, gli darà mai nulla in cambio di niente.

 

 

7. Bassi salari dei paesi poveri ed alti salari dei paesi ricchi. Insussistenza dei reciproci timori; e spinta verso l’alto in virtù della vicendevole concorrenza.

 

Una volta che ci si sia ben messi in mente che i beni ed i servigi si scambiano esclusivamente con beni e servigi, verrà meno la preoccupazione che, a sentir parlare di federalismo europeo, è messa innanzi da parti opposte; dai danesi, i quali pagando ai loro casari alti salari per la confezione del burro e del formaggio venduto in Inghilterra, temono la concorrenza del burro e del formaggio della Lombardia, dove i salari monetari sono uguali alla metà di quelli correnti in Danimarca, o, peggio, dei prodotti degli Abruzzi e delle Calabrie dove forse non arrivano alla quarta parte; e nel tempo stesso dai lombardi e dagli abruzzesi i quali temono, quando tutto il mercato europeo fosse unificato, di non potere resistere alla concorrenza, nonostante i bassi salari da essi pagati, dell’industria casearia danese, fornita di impianti, di meccanismi, di frigoriferi tanto più perfezionati e di mezzi di comunicazione tanto più rapidi.

 

 

Intanto si rifletta che formaggi lombardi e caciocavalli abruzzesi coesistono in Italia; e sinora non si sono distrutti a vicenda, nonostante i bassi salari, la primitività dei mezzi produttivi e le abitudini randagie di transumanza degli abruzzesi, ed i più alti salari, la sedentarietà nelle stalle e gli impianti più perfezionati dei lombardi. Se gli abruzzesi sono più sobri ed i lombardi più esigenti, c’è però una punto di incontro nel prezzo dei prodotti rispettivi, i quali, a parità di bontà e di altre qualità di sapore e di profumo variamente apprezzate dai diversi consumatori, debbono avere un prezzo identico sullo stesso mercato e nello stesso momento. Se a parità di prezzo di vendita del prodotto, il casaro lombardo riceve venti lire al giorno di salario ed il pastore abruzzese solo dieci lire, ciò vuol dire che si è formato un equilibrio per cui le due industrie possono coesistere nonostante la diversità dei salari. Dobbiamo anche qui rovesciare la proposizione solita: non già i salari determinano il prezzo, ma il prezzo determina i salari. Sul mercato italiano unificato, con molti attriti e molte deviazioni dovute alle peculiarità dei formaggi prodotti, dei gusti delle diverse regioni, dei costi dei trasporti, si forma dall’incontro delle quantità offerte e domandate di formaggio un prezzo dello stracchino lombardo e del caciocavallo abruzzese. Da quel prezzo dipende il ricavo dell’impresa casearia nelle due regioni. Se il salario è di 20 lire al giorno in Lombardia e di 10 lire ai giorno negli Abruzzi, ciò vuol dire che l’impresa casearia è organizzata in tal maniera nelle due regioni, la qualità e la produttività dei prati e dei pascoli è tale, le razze del bestiame lattifero e la offerta e la domanda di mano d’opera sono rispettivamente siffatte che dal ricavo della impresa l’imprenditore è messo in grado ed è costretto dalla concorrenza degli altri imprenditori a pagare venti lire al casaro lombardo e solo dieci lire al pastore abruzzese. Col tempo, tutte queste condizioni potranno mutare; anzi sono già mutate. La transumanza, ossia l’emigrazione delle pecore dalle montagne abruzzesi alle piane della campagna romana durante l’inverno ed il ritorno alla montagna nell’estate, si è attenuata col progredire dell’agricoltura stabile nella campagna romana. Oggi, maggior copia di latticini si produce in loco nelle grandi imprese della campagna, con mezzi tecnici perfezionati ed a cosidetto alto costo, ossia pagando alti salari non dissimili da quelli usati in Lombardia; ma l’alto costo è la conseguenza, non la causa, dell’alto prezzo a cui i nuovi latticini di qualità si vendono sulla piazza di Roma. Si sono trasformati i prodotti; e per trasformarli si è dovuto organizzare l’industria su basi tecniche moderne. Il pastore abruzzese il quale si contentava di dieci lire al giorno, perché la sua produttività era quella che era e correlativamente le sue esigenze di cibo, vestito e casa erano quelle che erano, si è trasformato in operaio specializzato, di cui il numero, la produttività, le esigenze sono diverse, ed a queste differenti condizioni del mercato del lavoro corrispondono salari di venti lire al giorno; e questi salari maggiori, possono essere pagati perché il latte è venduto in condizioni ed a prezzi diversi da quelli propri del caciocavallo abruzzese. Se la trasformazione tecnica ed economica della industria continuerà, accadrà probabilmente che non si sentirà più parlare di pastori abruzzesi pagati a dieci lire al giorno, di transumanza delle pecore e siffatte tradizioni antiche. Ma il latte pastorizzato ad alto prezzo non avrà ucciso il caciocavallo pecorino; né gli alti salari avranno eliminati i bassi salari o viceversa. Nessuno sarà morto; ma si sarà, anzi si è già operata una trasformazione nel tipo dell’industria casearia per la quale, col progredire della tecnica produttiva, quei lavoratori, i quali prima dovevano contentarsi di partecipare al magro banchetto di una industria a bassa produttività per unità di lavoro impiegata, oggi ed in avvenire potranno partecipare al prodotto crescente di una industria progredita. Che se l’industria danese è già oggi ad un livello più alto di produttività di quella lombarda ed i suoi casari possono perciò godere di salari, ad esempio, di 40 lire al giorno, né essi avranno a temere della concorrenza dei produttori lombardi od abruzzesi, né questi di quella dei danesi. Costoro pagano salari alti perché hanno saputo organizzare tecnicamente la produzione del latte in maniera più complessa, specializzandosi nella produzione del burro per il mercato inglese; epperciò rinunciando da un lato alla elaborazione del latte nelle singole aziende rurali e dall’altro all’alimentazione del bestiame lattifero col solo o col prevalente prodotto del podere.

 

 

L’industria si è specializzata e diversificata. Importatori e produttori di mangimi specialmente destinati alle vacche da latte forniscono agli agricoltori una quota notevole degli alimenti necessari alla stalla; sicché quelli prodotti dal podere diventano quasi parte secondaria o subiscono essi stessi una trasformazione preventiva, aiutata da sostanze importate dal di fuori ed utili a conservare sapidità e freschezza. Né l’agricoltore elabora il latte; il quale invece due volte al giorno è trasportato, grazie ad una particolare organizzazione cooperativa di trasporto, a latterie pure cooperative, dove, coi mezzi tecnici più moderni, dal latte si ottengono i diversi prodotti ai costi minimi; ed i residui sono restituiti alle fattorie medesime per l’alimentazione del bestiame, specie porcino, laddove il burro, controllato e stampigliato ed impaccato, è spedito in Inghilterra da imprese di trasporti marittimi, pure essi facenti parte della organizzazione cooperativa danese. I salari alti pagati ai contadini ed agli operai specializzati, i quali contribuiscono al prodotto ultimo non debbono essere considerati come un costo dell’impresa, ma invece come il frutto della organizzazione diversa e più produttiva che in quel paese si è saputo instaurare. Il basso salario del pastore abruzzese non può fare concorrenza all’alto salario del casaro danese; perché a raggiungere l’intento della concorrenza, quel salario, rimasto invariato, dovrebbe incastrarsi in una organizzazione simile a quella danese; ma in tal caso il casaro abruzzese non sarebbe più tale e, diventato operaio specializzato pretenderebbe ed otterrebbe, data la sua diversa e maggiore produttività salari uguali a quelli danesi. Né i salari alti della Danimarca fanno concorrenza a quelli più bassi abruzzesi; perché ad ottenere l’effetto di porre eventualmente lo stesso prodotto (burro) sul medesimo mercato (inglese) a prezzo minore di quello possibile per l’industria casearia abruzzese fu d’uopo che quella danese si attrezzasse in modo compiutamente diversa; sicché il prezzo eventualmente più basso del burro e il risultato non dei soli alti salari, ma della divisione del lavoro fra importatori e produttori di mangimi specializzati, agricoltori produttori di latte, cooperative di ritiro del latte nelle fattorie, e di una trasformazione nelle latterie, imprese di trasporto per mare, imprese di distribuzione nei centri di consumo. Se l’industria danese volesse anche conquistare il mercato italiano, dovrebbe attrezzarsi all’uopo, sopportare costi di trasporto e di vendita probabilmente più alti. Alla lunga l’esempio delle imprese meglio organizzate reagisce su quelle antiquate; ma il processo non è rapido e lascia tempo agli adattamenti necessari per spingere in alto la produttività ed i salari dei luoghi più arretrati. Una Federazione economica europea, rendendo i mercati nazionali intercomunicanti tra di loro, accelera il processo, con vantaggio particolarmente dei paesi a bassi salari, obbligati dalla concorrenza a perfezionare i loro sistemi produttivi ed a mettersi in grado di rimunerare più largamente le diverse categorie dei propri collaboratori.

 

 

CAPITOLO V

FEDERALISMO E VALORI SPIRITUALI

 

Gli avversari del federalismo muovono un’accusa finale contro di esso. Partendo dalla premessa che i valori spirituali, che il fervore degli studi scientifici, che l’intensità della vita letteraria artistica musicale, che la cultura politica debbano avere come fondamento un grande rigoglio economico, affermano che in un’Europa federata scompariranno le culture nazionali od almeno queste inaridiranno, accentrandosi ogni movimento culturale nei luoghi dove sarà concentrato il movimento economico.

 

 

Innanzitutto, osserviamo nuovamente che Federazione europea è sinonimo di divisione del lavoro e non di accentramento economico. Può darsi che talune industrie, come quella siderurgica, si concentrino nei luoghi più vicini alle miniere di ferro ed alle miniere di carbone. Ma i luoghi così designati dalla natura non sono uno solo e non si trovano in un solo paese. D’altro canto, località sprovviste di carbone e di ferro, come il litorale ligure, possono essere accessibili alle materie prime per la facilità dei trasporti marittimi e, perciò solo, essere in grado di produrre a buon mercato. Lo sviluppo delle industrie di macchinario elettrico e dell’orologeria in Svizzera dimostra che quel che conta per la attitudine a progredire economicamente è sovratutto la capacità degli uomini ed organizzare le imprese al punto di vista della perfezione tecnica ed a quello vendita.

 

 

Nella storia, gli esempi più illustri di prosperità economica, non sono legati ad una specializzazione imposta dai luoghi, ma alla capacità di saper lavorare bene in luoghi talvolta sprovvisti dalla natura di fertilità naturale, di abbondanza di miniere, di retroterra ampio: Venezia, Genova, Firenze, le città olandesi sorte in mezzo alle acque, le città anseatiche, Trieste e Londra. Il fatto veramente importante della prosperità economica è l’uomo. In un’Europa unificata, la attività economica, sarà il frutto della capacità degli uomini a sapere sfruttare le meravigliose occasioni offerte da un mercato amplissimo, nel quale la domanda prenderà aspetti tanto ricchi e varii da stimolare al massimo l’ingegno degli eletti chiamati a dirigere imprese. Nulla ci dice che la percentuale degli organizzatori economici sia minore in un paese che in un altro; e che la emulazione di essi debba assumere l’aspetto di una corsa di tutti verso pochi luoghi che nessuna Provvidenza ha designato al privilegio del monopolio economico.

 

 

La esperienza dei paesi federati esistenti non ci fornisce alcun indizio di un siffatto concentramento: né nella Svizzera l’industria si è concentrata nel cantone dove risiede la città capitale; ma fatta ragionevole parte alle occasioni diverse presentate dalle montagne, dai fiumi e dai laghi, si può dire che lo sviluppo sia in diversa maniera equamente distribuito su tutto il territorio della Confederazione. Negli Stati Uniti d’America, la vita economica non è concentrata nella Empire city di New York; ma la Nuova Inghilterra, gli stati della costa atlantica, le città centrali dei grandi laghi, i centri carboniferi come Pittsburgh, le città della costa del Pacifico ed ora anche le regioni delle montagne rocciose (Far West) e quelle della costa del golfo del Messico partecipano vivamente allo sviluppo economico. Dovunque esiste la possibilità di un profitto, ivi accorrono i capitali; e poiché le possibilità di profitti sono date dalla terra, dal clima, dalle miniere, dalle acque, soltanto i nudi deserti o le alte montagne sfuggono alla legge della progressiva utilizzazione; ed anzi anche i deserti e le montagne, col diffondersi della ricchezza e delle possibilità di ozio risanatore, offrono lo strumento all’esercizio di una delle industrie, quella turistica, destinata col tempo ad assumere uno sviluppo sempre più grandioso. La guerra, e non la pace, favorisce concentramenti artificiali ed i monopoli. La Federazione, garantendo la pace, dà modo ad ogni regione o meglio ai suoi abitanti di far valere al massimo le proprie attitudini.

 

 

Non vi è traccia, nelle federazioni esistenti, di alcuna tendenza a concentrare la vita intellettuale e spirituale in alcune poche località disertando le altre. L’esempio della Svizzera insegna di nuovo. Sebbene la costituzione del 1874 lo consenta, la Confederazione non ha fondato, accanto al Politecnico di Zurigo, nessuna Università federale; e non vi è alcuna probabilità lo faccia, dinnanzi alla gelosa cura con la quale i Cantoni difendono e fomentano le proprie università, dalla più antica dalla vita semimillenaria di Basilea, attraverso quelle di Ginevra, Losanna, Berna, Zurigo, Neuchâtel, all’ultima di Friburgo. Gareggiano fra di loro i centri culturali ed editoriali di Ginevra, di Zurigo, di Basilea, di Losanna; e neppur centri minori, come quello del Canton Ticino, difettano di una simpatica attività letteraria ed artistica. Non vi è una città la quale imponga alle altre i proprii giornali; e diarii pubblicati a Ginevra, a Losanna, a Zurigo ed a Basilea hanno sempre avuto fama ed autorità internazionali, nonostante il limitato numero di lettori ai quali si indirizzano.

 

 

Negli Stati Uniti si osserva il medesimo fenomeno. New York non è il centro della vita culturale americana. Ai giornali ed agli editori di New York fanno concorrenza, spesso vittoriosa, giornali ed editori di Washington, Filadelfia, Boston, Chicago e San Francisco. Talune delle riviste settimanali di maggior diffusione, come la Saturday Evening Post e Life non vedono la luce nella capitale commerciale del nuovo mondo. Università di gran fama sorsero fuori di New York: a Cambridge Mass (Harvard) a New Haven (Yale), a Princeton (Princeton Un.), od in città solo in seguito diventate gigantesche, come la Chicago University. La università di California non sorse a S. Francisco, ma in una piccola cittadina del golfo; e la Stanford University fu eretta in rasa campagna. I singoli stati e gli uomini del luogo hanno l’orgoglio di fondare e far prosperare una università propria in concorrenza con quelle degli stati e delle altre città.

 

 

Il che non accade per accidente. Federazione invero è il contrario di assoggettamento dei varii stati e delle varie regioni ad un unico centro. Il pericolo del concentramento della cultura in un solo luogo si ha negli stati altamente accentrati, come la Francia (Parigi), la Germania (Berlino), la Spagna (Madrid), dove la vita fluisce da un solo centro politico verso la periferia, dall’alto al basso. Ma Federazione vuol dire invece liberazione degli stati dalle funzioni accentratrici: difesa nazionale, moneta e comunicazioni. La funzione di difesa e di offesa contro il nemico richiede il massimo di concentrazione di comando in un solo luogo e di ubbidienza delle varie parti dell’organismo nazionale. Sono le funzioni economiche del governo della moneta, delle poste, telegrafi e telefoni, delle ferrovie, della navigazione aerea e simili che richiedono unicità di direttive. Liberiamo gli stati da questi compiti accentratori, affidandoli a corpi tecnici federali, quanto più è possibile privi di splendore esteriore; facciamo sì che siano adempiuti da tecnici militari ed economici; e noi avremo non scemata ma accresciuta l’importanza morale e spirituale dei singoli stati, ai quali continuerà a spettare il governo delle cose che sono veramente importanti per gli uomini: la giustizia, la sicurezza, l’educazione, i rapporti di famiglia, la tutela dei deboli, le assicurazioni sociali, la lotta contro la indigenza, le bonifiche, i rimboschimenti. La Federazione ha bensì un fondamento economico. Essa è il risultato necessario delle moderne condizioni di vita le quali hanno unificato il mondo al punto di vista economico, trasformandolo in un unico mercato. Spiritualmente, essa mira però alla meta opposta; che è quella di liberare l’uomo dalla necessità di difendere a mano armata il proprio piccolo territorio contro i pericoli di aggressioni nemiche ed a lui, così liberato, consente di aspirare a prendere parte, utilizzando al massimo le risorse del proprio piccolo territorio, alla vita universale. Liberazione dalla materia e non asservimento ad essa: questa è la ragion d’essere della Federazione; epperciò anche è sua ragion d’essere non la mortificazione ma la esaltazione dello spirito.

 

 



[1] Seguito a scrivere autarcia e non autarchia; perché, come ha dimostrato, primo in Italia, il Brondi in una vecchia nota presentata all’Accademia delle scienze di Torino, lo scrivere autarchia è uno sproposito, quella parola riferendosi esclusivamente alla sovranità politica, laddove la parola greca la quale significa autosufficienza economica è precisamente autarcia.

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