Tema per gli storici dell’economia. Quale fu nel secolo presente il saggio di frutto degli investimenti di capitale?
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/03/1937
Tema per gli storici dell’economia. Quale fu nel secolo presente il saggio di frutto degli investimenti di capitale?
«Rivista di storia economica», marzo 1937, pp. 70-76
1. – È quesito relativo alla storia degli investimenti di – capitale il seguente: se ad una certa data furono investite 100 lire, quanto lucrò o quanto perdette il risparmiatore, il quale non abbia mutato investimento?
2. – Se si sceglie, perché coincise forse col punto più basso del ciclo lungo antebellico, come data dell’investimento originario l’1 gennaio 1897, l’investitore di 100 lire in una obbligazione fondiaria 4 per cento netto possiede oggi, 31 dicembre 1936, una obbligazione del valore di circa 85 lire. Al ragguaglio legale di 0,04677 grammi d’oro fino della lira attuale (D. L. 5 ottobre 1936) contro 0,29032258 della lira antebellica (L. 24 aprile 1862), la lira attuale è uguale al 16,109 per cento della lira antica ed inversamente la lira antica è uguale a lire nuove 6,2077; epperciò le 85 lire possedute oggi equivalgono a L. 13,69 del 1897. Il risparmiatore avrebbe dunque perduto l’86,31 per cento del proprio patrimonio. Il coefficiente del 16,109 per cento rende tuttavia correttamente comparabili le lire del 1897 e quelle del 1936? O non si dovrebbe invece paragonare le due unità monetarie tenendo conto della loro potenza d’acquisto rispettiva nei due momenti? La potenza d’acquisto della lira è identica per tutti i risparmiatori? ad esempio, per l’amministratore dell’opera pia e per il medio padre di famiglia? e questi due esauriscono tutti i tipi di possibili investitori? L’obbligazione fondiaria, assunta come più affine all’investimento in terreni, di cui si dirà poi, può considerarsi tipica degli investimenti a reddito fisso?
3. – Se invece assumiamo come data dell’investimento l’1 gennaio 1927, intorno al culmine dell’ondata di prosperità ultima, i risultati, in punto a capitale, sono alquanto diversi. L’investitore, il quale avesse acquistato un’obbligazione fondiaria 4 per cento al prezzo di lire 85 possederebbe ora un titolo dello stesso pregio approssimativo. Qui il confronto a base di peso d’oro sarebbe illegittimo, perché all’1 gennaio 1927 la vecchia lira non era ancora legalmente morta e la nuova non era nata; epperciò bisogna assumere a termine di paragone un altro intermediario, ad es. il dollaro. Le lire si cambiavano allora al corso di 23 lire contro 1 dollaro vecchio ed oggi si cambiano al corso di 19 lire contro 1 dollaro nuovo, il che vuol dire al corso di 32,16 lire contro 1 dollaro vecchio; epperciò le lire d’oggi equivalgono al 71,51 per cento delle lire del 1927; ed inversamente 1 lira del 1927 vale 1,398 lire della fine del 1936. Su questa base le 85 lire d’oggi equivalendo a 60,80 lire del 1927, l’investitore di 85 lire nel 1927 avrebbe perduto lire 24,20, e cioè il 28,49 per cento del capitale investito. Di nuovo sono corrette le basi del calcolo? È legittimo usare i corsi dei cambi come indice di confronto di monete aventi uguale o diverso nome in tempi diversi? Quale altro strumento conviene adottare?
4. – Ancora. Il calcolo compiuto sopra suppone normale la condotta del bonus pater familias possessore di una obbligazione fondiaria, il quale chiama «capitale» la sezione centrale del foglio e «reddito» le cedolette semestrali poste nelle due sezioni laterali. A lui pare ovvio distaccare con le forbici le cedolette, e convertirne il ricavo in consumi. È ragionevole siffatta condotta? Adempie al suo dovere l’amministratore dell’opera pia il quale fa vivere i suoi malati col «reddito»; e non tocca il «capitale» considerato come cosa sacra?
Ovvero il bonus pater familias e l’amministratore dell’opera pia dovrebbero ubbidire all’altra regola di non spendere anno per anno, ossia di non considerare «reddito» se non l’eccedenza oltre il capitale originariamente investito? Non dovrebbe questa essere la condotta del «buon padre di famiglia» e cioè di quel mitico uomo medio il quale viene assunto a campione della condotta ordinaria dell’uomo ugualmente alieno dalla dilapidazione e dall’accumulazione?
5. – Non pare sia ufficio dello storico scegliere fra i due tipi di condotta; quella di chi, possedendo un titolo da 100 lire nominali acquistato al prezzo di 100 lire, considera reddito le 4 lire delle cedolette, senza preoccuparsi delle vicende del prezzo del titolo e quindi del valore del suo patrimonio e l’altra di chi, nelle stesse condizioni, considera come reddito nelle 4 lire solo l’eccedenza oltre la somma occorrente a mantenere invariato in 100 lire il patrimonio posseduto. Egli si contenta di studiare le vicende delle due condotte. Chiamiamo condotta (A) della separazione del capitale e dei frutti quella, già studiata, di chi non si preoccupa di conservare il capitale originario; e condotta (B) della fusione del capitale e dei frutti quella di chi non considera consumabili i frutti se non quando sia sicuro di avere serbato intatto il capitale.
6. – Il metodo da tenere nella ricerca degli effetti della condotta B pare debba essere il seguente: assumere un capitale investito di lire 100 alla data convenuta e supporre che il pater familias abbia cumulato e reinvestito l’intiero ammontare del ricavo delle cedolette del titolo originario e di quelli successivamente acquistati. Il reinvestimento deve supporsi fatto ai saggi di frutto di volta in volta correnti sul mercato per titoli del tipo considerato.
Ho calcolato che se il reinvestimento dei frutti poté farsi al saggio medio del 4 per cento dall’1 gennaio 1897 al 31 dicembre 1913 ed a quello del 5 per cento dall’1 gennaio 1914 in poi, o, meglio, se per un’obbligazione 4 per cento, poté farsi alla pari nel primo periodo ed all’80 per cento nel secondo, il pater familias si trovò a possedere al 31 dicembre 1936 titoli correnti al prezzo effettivo di circa 470 lire contro le 100 lire dell’1 gennaio 1897 e di lire 190 contro le 100 lire dell’1 gennaio 1927.
Se noi supponiamo, come si fece sopra, che le lire del 1936 valgano il 16,109 per cento di quelle del 1897, e il 71,51 per cento delle lire del 1927, il risultato ultimo dell’investimento è: (primo) 100 lire vecchie investite l’1 gennaio 1897 produssero, coi loro frutti composti, 470 lire nuove il 31 dicembre 1936; ossia;
470 x 16,109 / 100 = 75,70 lire vecchie
Il pater familias non solo non ricavò dall’investimento alcun reddito, ma perdette il 24,30 per cento del cosiddetto capitale investito.
(secondo) 100 lire (né vecchie né nuove) investite l’1 gennaio 1927 produssero, coi loro frutti composti, 190 lire nuove il 31 dicembre 1936;
ossia:
190 x 71,51 / 100 = 135,85 lire vecchie
Il pater familias qui ha conservato il cosidetto capitale investito ed ha ricevuto lire 35,85 in sovrappiù. Se noi distribuiamo scalarmente il sovrappiù di lire 35,85 lungo il decennio di investimento, risulta che questo fu compiuto al saggio annuo di frutto del 3,10 per cento.
Naturalmente, fa d’uopo ripetere qui tutte le riserve fatte sopra intorno alla correttezza dei criteri usati per la comparabilità dei dati; sicché le conclusioni sopra stabilite debbono essere riguardate puramente provvisorie ed ipotetiche.
7. – Quale fu la sorte di coloro che preferirono investimenti diversi da quelli in obbligazioni fondiarie? A misura che l’investimento si allontana da quello ipotecario fondiario preferito dai risparmiatori prudentissimi, le difficoltà crescono; e la casistica si spezzetta e diventa mutabile.
Farò qualche considerazione sul tipo di impiego tuttora più diffuso in Italia: quello terriero; e per tenermi nel campo più vicino a quello degli investitori in obbligazioni fondiarie considererò il caso di coloro i quali hanno acquistato terre allo scopo di investire i proprii risparmi, senza attendere direttamente alla coltivazione manuale dei terreni. Poiché, in questa categoria, i tipi sono numerosissimi, mi limiterò a porre i termini del problema per due di essi.
8. Il primo è quello dell’acquirente di terreni i quali, senza essere di bonifica vera e propria, hanno richiesto trasformazioni tecniche: costruzione e riattamento di case rustiche, strade poderali, impianto di nuovi vigneti od oliveti, creazione di terra coltivabile con arature profonde ecc. ecc. Conosco assai bene il caso di un tale che dal 1897 per un gruppo di poderi e dal 1927 per un altro gruppo investì nelle trasformazioni agrarie l’intero reddito di anno in anno proveniente dai poderi, ed ora chiede a se stesso: qual frutto ho ricavato dal mio investimento?
Se costui fosse riuscito ad operare col successo medio del bonus pater familias, il terreno acquistato l’1 gennaio 1897 al prezzo di Lire 100 e su cui per 10 anni furono reinvestiti i frutti in migliorie, dovrebbe valere il 31 dicembre 1936:
100 lire vecchie più i relativi interessi (reinvestiti ossia non realizzati) al saggio netto composto del 3 per cento, ossia lire 226,20; e in totale lire vecchie 320,20.
Si assume arbitrariamente il saggio del 3 per cento come quello che pare, secondo l’esperienza storica del passato, il meno disadatto per impieghi reputati immuni da rischi come è la terra.
Poiché 1 lira vecchia = 6,2077 lire nuove, il terreno acquistato all’1 gennaio 1897 per 100 lire dovrebbe, se fosse soddisfatta la condizione di dare al proprietario un reddito annuo netto del 3 per cento, valere oggi lire vecchie 326,20×6,21=lire nuove 2025,70
9. – L’indagine storica consiste nel paragonare all’esigenza ipotetica di un valore di lire nuove 2025,70 i valori effettivamente corrente sul mercato. Valgono i terreni di bonifica, nei quali siano stati impiegati in 40 anni capitali equivalenti all’interesse netto composto del 3 per cento sul capitale originario, venti volte il prezzo d’acquisto? Solo accurate indagini potrebbero fornire risposta adeguata. Se si potesse alla indagine storico-statistica sostituire, per un istante e provvisoriamente, l’intuizione personale, direi che il coefficiente 20 debba escludersi senz’altro e che i coefficienti più probabili oscillino fra il 4 ed il 10.
Se nei casi più favorevoli, il reddito netto dei terreni di bonifica può così essere calcolato all’1,18 per cento annuo, nei casi normali, dove il coefficiente di moltiplico dei valori di mercato dei terreni è 6, il risultato dell’opera quarantennale di investimento è la conservazione pura e semplice del capitale originario investito, senza alcun frutto.
10. – Il successo, se può a prima vista apparire meschino, è invece notevole se lo paragoniamo a quello dell’investitore, pure quarantennale, in obbligazioni ipotecarie, il quale non riuscì neppure (vedi sopra par. 6, primo) a conservare il capitale investito, pure rinunciando ugualmente ad ogni frutto.
Vediamo ora il caso dell’investitore decennale: Il terreno acquistato l’1 gennaio 1927 al prezzo di Lire 100 e su cui per 10 anni furono investiti i frutti in migliorie, dovrebbe valere, al 31 dicembre 1936:
100 lire né vecchie né nuove, del 1927, più i relativi interessi perduti al saggio netto composto del 3 per cento, ossia lire 34,40; ed in totale lire 134,40. Poiché 1 lira del 1927 vale 1,40 lire d’oggi, il terreno acquistato l’1 gennaio 1927 dovrebbe valere oggi 134,40×1,40 = lire 188,15 affinché sia soddisfatta la condizione che il proprietario abbia ricavato dall’investimento un reddito annuo netto del 3 per cento.
L’indagine storica, di nuovo, consiste nel paragonare all’esigenza ipotetica di un valore di lire attuali 188,15 i valori effettivamente correnti sul mercato. Senza ripetere il ragionamento fatto dianzi per i terreni acquistati nel 1897, si può dire che se nei confronti col 1897 il coefficiente di moltiplico è 6, quello più probabilmente valido nei confronti col 1927, anno di punta nei valori fondiari, è certamente inferiore all’unità; sicché l’investitore, nonché lucrare il 3 per cento vendendo oggi a 188,15 il terreno acquistato a 100, stenterebbe oggi a venderlo alle stesse 100 lire, dopo averlo bonificato, perdendo, poiché 100 lire d’oggi valgono 71,15 lire del 1927, il 28,49 per cento del capitale.
1. Il secondo tipo considerato di investitore terriero è quello di chi acquistò terreni già perfettamente instrutti di caseggiati, livellamenti, ammendamenti, fossi di scolo, canali di irrigazione, piantagioni ecc. Appunto perciò l’investitore non può supporsi abbia ricavato dall’investimento più del 3 per cento di frutto annuo netto da quote di riparazioni, rinnovazioni, ammortamento, rischi atmosferici, ecc. ecc. Talune zone agrarie della bassa pianura lombarda appartengono a questo tipo.
Non dovendosi tener conto, in questo caso, degli interessi composti, che anno per anno sono, per ipotesi, goduti dal proprietario, il confronto storico deve farsi:
per i terreni acquistati nel 1897 fra le 100 originarie e le 100 moltiplicato 6,21 = 621 lira che il terreno dovrebbe valere oggi per conservare un valore uguale al costo;
per i terreni acquistati nel 1927 fra le 100 d’allora e le 100×1,40=140 che il terreno dovrebbe valere oggi per conservare un valore uguale al costo.
Poiché, in quelle condizioni, è probabile che i terreni a fine 1936 valgano appunto sei volte il prezzo del 1897, ma meno del valore del 1927, così la conclusione è: l’acquirente del 1897 conservò e quello del 1927 perdette parte del capitale investito.
12. – Le conclusioni hanno valore puramente ipotetico, essendo state raggiunte sulla base di dati posti a scopo di calcolo coll’unico intento di indicare il metodo da tenersi da chi volesse condurre una indagine storica seria in proposito. Se però i dati furono scelti in base ad intuizioni approssimative, le conclusioni ottenute sillogizzando su di essi hanno il conforto della razionalità. Non è chiaro a priori che l’investitore in redditi fissi (obbligazioni fondiarie) deve perdere più o meno, talvolta i soli interessi e talaltra anche parte del capitale, nelle fasi svalutative del ciclo economico e lucrare nelle fasi rivalutative; laddove il contrario accade per l’investitore in redditi variabili (terre)?
13. – Come accade che, nei casi ipotetici sopra illustrati, non hanno luogo i lucri o questi sono assai meno frequenti e rilevanti delle perdite; e nel caso più favorevole l’investitore in terreni riuscì a malapena a tenersi a galla conservando il capitale investito e lucrando nel frattempo il reddito del 3 per cento?
Può darsi che il risultato sia dovuto alla scelta accidentale dei tipi studiati; ed è probabile che l’estensione, anche ipotetica, della ricerca ad altri tipi avrebbe condotto a risultati diversi. Per taluni investitori in case ed in valori azionari, il frutto netto può darsi sia stato superiore al 3 per cento ed i valori capitali siano cresciuti oltre i coefficienti 6 ed 1,40, in confronto rispettivamente al 1897 ed al 1927. Acquista importanza, coll’estendersi della ricerca, la difficoltà massima incontrata dagli storici dei valori fondiari e mobiliari: come scegliere i casi da studiare? Coll’occhio del 1897 o con quello del 1936? Oggi noi siamo istintivamente portati a fermare la nostra attenzione sui casi sopravvissuti. Ma esistono o dovrebbero costruirsi tabelle di mortalità e di sopravvivenza di poderi agricoli, di terre, di imprese industriali, di azioni, di titoli pubblici. L’obbligazione o cartella fondiaria acquistata nel 1897 fu nel quarantennio ripetutamente oggetto di transazioni; ed i risultati dell’investimento furono certi differentissimi per i successivi investitori.
14. – Nel medesimo tempo vedemmo due terrieri investire l’uno in terreni da bonificare e l’altro in terreni perfettamente istrutti, conservare amendue il capitale investito, ma l’uno godere un frutto del tre per cento ad anno e l’altro godere unicamente la contemplazione della bonifica eseguita. Assurdità evidente per chi ragioni partendo dalla considerazione inoppugnabile della tendenza dei saggi di frutto dei capitali nuovamente investiti ad uguagliarsi nello stesso luogo e tempo; ma fatto certissimo per chi sappia che il mondo è bello perché è vario e che fra le tante varietà curiose di uomini ci sono anche, e sono spesso più interessanti dei savi, i matti i quali provano più gusto nella contemplazione che nel frutto. Per essi quella contemplazione vuol dire orgoglio dell’opera compiuta, ricordi di ostacoli superati, soddisfazione dell’istinto creativo e non la baratterebbero a nessun patto né col tre né col sei per cento. Purtroppo essi devono mascherare questo reddito psichico di contemplazione, poiché, se lo lasciassero trasparire, non troverebbero credenza e tutti sarebbero persuasi che essi dai «colti» fatti diventar «pingui» a furia di rinunce traggono ricchezze mai più viste.
15. Si rassicurino perciò gli storici : le ricerche fastidiose e precise sui prezzi e sui redditi alle quali li invito non richieggono soltanto maneggio di saggi di interesse, uso di prontuari di conti fatti, scelta fra ipotesi diversamente plausibili di coefficienti di riduzione ad unità di monete uguali di nome e variabili di fatto. Queste sono le premesse defatiganti ed irte di interrogativi del discorso storico. Senza di esse la pur nobile fatica del trascrivere dati e notizie non soddisfa, perché dati e notizie per sé non hanno alcun significato. Ma attraverso alle premesse i fatti si illuminano; sotto ai risultati contabilmente diversi, di cui la teoria economica beffardamente dimostra la contraddizione logica, si vedono alfine gli uomini; i pazzi che creano ed i savi che ruminano. Non si illudano gli storici di poter fare a meno di quella preliminare fatica. C’è una nemesi vendicatrice contro gli scansafatiche e si chiama «brevità della vita probabile delle marionette scientifiche» da essi inventate. È certo più comodo inventare interpretazioni della storia; e spiegare l’economia col diritto penale e questo con l’economia; interpretare Cristo con il paesaggio della Palestina e le crociate con la mancanza dell’oro nell’Europa medievale. Ma son marionette su cui la generazione ventura sputerà sopra.
Laddove i frutti sudati della fatica «ragionata» dureranno.