Opera Omnia Luigi Einaudi

L’ufficio delle premesse teoriche nell’indagine storica; con alcune riflessioni sulle cause della decadenza della Spagna

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/09/1938

L’ufficio delle premesse teoriche nell’indagine storica; con alcune riflessioni sulle cause della decadenza della Spagna

«Rivista di storia economica», settembre 1938, pp. 241-263

 

 

 

Roberto Cessi: Problemi monetari veneziani (fino a tutto il quattordicesimo sec.) Primo Vol. della quarta serie dei “Documenti finanziari della repubblica veneta” editi dalla Commissione per gli Atti delle assemblee costituzionali italiane presso la R. accademia dei lincei. Cedam, Padova, 1937. ottavo pp. centocinquantesime – 196. S. i. p.

 

 

Jean Bouchary: Les marchés des changes de Paris à la fin du dix-huitième Siècle, (1778-1800) avec des graphiques et le relevé des cours. Huitième vol. dei “Mémoires et documents” della Collection des documents inédits sur l’histoire économique de la révolution française. Hartmann, Paris, 1937, ottavo, pp. 175, S. i. p.

 

 

Henry Hauser: Recherches et Documents sur l’histoire des prix en France de 1500 à 1800, publiés par H. H., Les presses modernes, Paris, 1936, quarto, 4 c. s. n., 523 pp. S. i. p.

 

 

Earl J. Hamilton: Money, Prices and Wages in Valencia, Aragon and Navarre, 1351-1500. Vol. 51 degli “Harvard Economic Studies“, Harvard University Press, Cambridge, Mass., U. S. A., 1936. Ottavo, pp. ventottesime – 310. Doll. 4,50.

 

 

Earl J. Hamilton: American Treasure and the Price Revolution in Spain, 1501-1650, Vol. 43 degli “Harvard Economic Studies“. Harvard University Press, Cambridge, Mass., U. S. A., 1934. Ottavo, pp. trentacinquesime – 428. Doll. 4,50.

 

 

1. – I libri che qui si annunciano sono legati dal vicolo del comune oggetto studiato, che è la storia dei prezzi di merci o di servizi o di carta monetata; ma quanto diversi i metodi usati! Cessi ed Hauser hanno sovratutto l’abito mentale filologico – storico; Bouchary si presenta come un tecnico monetarista; laddove Hamilton si interessa principalmente a quel che nei fatti v’ha di tipicamente economico.

 

 

2. – Roberto Cessi intende sovratutto a pubblicare documenti: 192 dal febbraio del 924 all’ottobre del 1399 e tutti rilevantissimi per la storia della moneta veneziana. La silloge fa parte di quei “Documenti finanziari della Repubblica di Venezia” la cui pubblicazione ebbe cominciamento nel 1902 ad iniziativa di Luigi Luzzatti ed a cura di una commissione speciale, di poi fusa con quella per gli atti delle assemblee costituzionali italiane creata in seno alla Accademia dei lincei. Tre volumi sui bilanci (976-1579, 1577-1641, 1736-1755) a cura di Fabio Besta, un volume sui prestiti (tredicesimo – quindicesimo sec.) a cura di Gino Luzzatto, uno sulla regolazione delle entrate e delle spese (tredicesimo-quattordicesimo sec.) e questo sulla moneta, ambi a cura di Roberto Cessi, segnano le tappe della monumentale raccolta, divenuta oramai necessario punto di partenza per ogni indagine ed elaborazione ulteriore.

 

 

L’elogio amplissimo per il rigoroso scrupolo dell’editore dei documenti e per la larghezza delle informazioni illustrative è temperato da un rimpianto. Perché il Cessi non ha apprestato anche le chiavi tecniche per l’intelligenza dei documenti e delle illustrazioni? Troppe volte, mentre, leggendo, forte pungeva la curiosità di conoscere i rapporti precisi fra l’una moneta e l’altra, d’oro e d’argento, della lira a grossi e della lira a piccoli, ho dovuto annotare: hic sunt leones. A differenza di quando si narra di lotte fra nobili e plebei, fra mercanti grossi ed artigiani minuti, non possiamo, in materia di moneta contentarci di pennellate e di scorci; non si può dare come evidente l’effetto di una novità monetaria sulle cose economiche o sociali. Se il lettore non capisce in che cosa con precisione consista quel mutamento, da qual rapporto in grani o grammi fra due o più monete si sia partiti ed a quale altro rapporto si sia arrivati, a lui non è dato di apprezzare le conclusioni che l’autore trae da quel mutamento.

 

 

Leggendo le pagine così interessanti di Cessi, si ha l’impressione di un’economia continuamente turbata, tra il mille ed il millequattrocento, da crisi e da squilibrii di slancio e di assestamento, dovuti a cause monetarie. Poiché oggi, quando accadono fatti dello stesso tipo, è possibile calcolare le variazioni del rapporto fra l’una e l’altra moneta le quali poterono, forse, dar luogo al turbamento, così ho tentato, anche ricorrendo a scritti di Papadopoli ricordati dal Cessi, di illuminare a me stesso con qualche conteggio le premesse del problema. Purtroppo, ad un certo punto manca sempre un dato essenziale per la soluzione; ed il lettore deve restar contento da una semi – nebbia che gli toglie il gusto della lettura di un testo che egli sente attraentissimo.

 

 

Perché, si può osservare, dovrebbe proprio lo storico dell’economia fornire al lettore curioso gli strumenti di intelligenza dei fatti narrati? Esistono manuali e libri di numismatica, per Venezia quelli di Papadopoli, frutto di lungo amoroso studio. Il lettore cerchi quei volumi ed impari di lì peso e titolo delle varie specie di moneta e faccia per suo conto i calcoli a lui occorrenti.

 

 

Dubito della saviezza del consiglio. Il numismatico ha altri interessi da quelli che assillano l’economista o lo storico. Quando il numismatico ha assodato il peso e il titolo di una moneta, ed ha ripetuto l’accertamento ad ogni variazione monetaria, il suo nobilissimo ed arduo ufficio è adempiuto.

 

 

Cercare il perché e gli effetti di quelle variazioni è compito dello storico e rispettivamente dell’economista. Ma né l’uno né l’altro raggiungono l’evidenza persuasiva se essi non prendono le mosse dalle precise constatazioni del numismatico e su quelle ragionano avendo cura di non fare un passo che non sia spiegabile chiaramente sulla base delle constatazioni prima appurate. Manchi un anello e la catena della spiegazione storico-economica, rotta, resta in aria.

 

 

3. – Gino Luzzatto, collega del Cessi nella cura dei documenti economici veneziani, nell’ampio rendiconto che del volume egli pubblicò, col titolo “L’oro e l’argento nella politica monetaria veneziana dei secoli tredicesimo e quattordicesimo” nella “Rivista storica italiana” (fascicolo terzo del 1937), ha estratto il filo conduttore teorico dalla ricca messe di documenti e dall’ampia narrazione degli accadimenti contenute nell’opera del Cessi. Ridotta al puro schema monetario, la storia della moneta veneziana diventa logica e chiara. Nel 1202, Venezia, accanto al vecchio denaro piccolo d’argento al titolo di 250 millesimi e del peso in fino di grammi 0,0800541 conia un nuovo denaro grosso o “grosso”, più adatto al commercio internazionale, al titolo di 965 millesimi e del peso in fino di grammi 2,1003. Le lire corrispondenti, non coniate, composte dei soliti 20 soldi o 240 denari, pesavano rispettivamente grammi 19,33 e 504,72 di argento fino, e stavano tra loro nel rapporto di 1 a 26,11. Se il rapporto fosse rimasto fisso nel tempo, si sarebbe trattato semplicemente di un sistema alquanto complicato di calcolare i sottomultipli dell’unità monetaria (denaro di grosso), dotato però di perfetta stabilità. Invece, laddove il grosso per quasi due secoli, fino al 1379, rimane invariato nel peso e nel titolo, il piccolo comincia a peggiorare nel 1261, quando il rapporto legale col grosso scende ad 1 a 27, per peggiorare ad 1 a 28 nel 1269 ed a 1 a 32 nel 1282.

 

 

Poiché la degradazione dei piccoli, usati sovratutto nelle contrattazioni interne, dava luogo ad arricchimenti dei debitori a danno dei creditori, si provvide ad adottare una lira immaginaria, non coniata, il cui denaro mantiene l’antico rapporto di 1 a 26,11 col grosso e serve perciò meglio a fissare le obbligazioni a scadenza futura. È il solito processo, osservato in altri paesi, grazie al quale una moneta, che nella realtà del conio effettivo a poco a poco sempre più degrada, si conserva invariata in peso e in titolo nella immaginazione dei contraenti.

 

 

Sinora però il sistema poteva essere considerato stabile. Imperniato sul monometallismo argento, con una unità monetaria, grosso d’argento e lira immaginaria aventi un titolo ed un peso costanti, non importava troppo che il piccolo, moneta divisionaria, di volta in volta venisse legato all’unità fondamentale con un rapporto variabilmente fissato dal legislatore. Accade altrettanto oggi, senza inconvenienti, per le monete d’argento, di nikel e di rame. Ma la coniazione, avvenuta nel 1284, del ducato d’oro, del peso di grammi 3.559 al titolo di 24 carati, introduce un elemento di instabilità.

 

 

L’ostinazione dell’autorità monetaria nel mantenere il rapporto legale tra le due monete ducato d’oro e grosso d’argento dapprima ad 1 a 11, quando nel 1311 il rapporto commerciale fra i due metalli era salito ad 1 a 13, e poi, a partire dal 1328, ad 1 a 14 e un sesto produsse gli effetti teoricamente inevitabili: la fuga alternata dalla circolazione di quella tra le due monete, il cui metallo era nel commercio apprezzato di più che nella stima legale. Maggior consiglio ed ufficiali di zecca naturalmente ricercano altrove le cause del fatto che spiace alle autorità, crea malcontento nel popolo e provoca crisi dannose. In verità, il danno era dovuto all’errore bimetallistico, dal quale i dirigenti erano fatti persuasi di potere contemporaneamente mantenere in circolazione due monete ad un rapporto legale diverso da quello corrente nel commercio. Poiché il proposito era assurdo, vano è cercare cause diverse della instabilità monetaria e delle dannose conseguenze economiche e sociali che ne dovevano essere e ne furono la conseguenza. Quando gli storici narrano le vicende della instabilità e dei danni, fanno bene a discorrere, sulle tracce dei verbali dei consigli supremi e delle querimonie dei cronisti, di speculazioni, di lotte fra oriente ed occidente, fra bizantini genovesi e veneziani, di conquista di mercati, di prestigio monetario; ma, farebbero meglio a dichiarare apertamente, come in sostanza fa il Luzzatto, correggendo il Cessi, che questi sono gli aggeggi psicologici e drammatici della storia, le credenze, Pareto direbbe le “derivazioni”, con cui gli attori di un tempo ed i narratori di oggi girano attorno al punto fondamentale: gli errori di economia monetaria o di qualunque altra economia sono errori e non durano bisogna pagarne lo scotto. Nelle cose monetarie lo scotto dell’ignoranza, dell’errore voluto e di quello imposto dal cosidetto color del tempo, si paga immediatamente; nelle altre cose economiche talvolta si paga a distanza di decenni o di secoli; ma si paga sempre.

 

 

4. – La memoria di Bouchary è chiaro modello del modo di scrivere storia monetaria nuda, senza aggeggi di ornamenti extravaganti. Il fatto studiato, variazioni del corso in moneta estera dell’unità monetaria francese dal 1778 al 1800, è grandemente più semplice e più noto di quello perseguito con tanta dovizia di documentazione e di dottrina dal Cessi; ma il meccanismo delle variazioni sarebbe ciononostante rimasto avvolto in densa nebbia se il Bouchary non avesse premesso alla indagine storica un 28 pagine di introduzione tecnica. Nulla di sublime; anzi nozioni terra terra, di quelle che un tempo erano il pane quotidiano degli agenti di cambio specializzati in divise estere ed ora sono riservate, con grosse mutazioni di sostanza, ai funzionari dell’Istituto dei cambi o del ministero delle valute. Ma, se giudico dallo sforzo di attenzione che ogni volta debbo fare quando mi tocca di rendermi contezza precisa di un mutamento relativo tra i corsi di più di due monete, il Bouchary non ha durato piccola fatica a dar conto prima a se stesso e poi, concisamente e chiaramente, agli altri del meccanismo dei cambi esteri innanzi e durante la rivoluzione francese.

 

 

Quelle ventotto pagine di definizioni sicure sul certo e l’incerto, sul pari, sulle varie specie di moneta, reale, di conto, di cambio, di banca, sui cambi diretti e indiretti, sugli usi dei cambi su diverse piazze, sulle rimesse indirette e continuate e sugli arbitraggi, valgono tant’oro quanto pesano, esercizi compresi – sono invero, di giunta, offerti opportuni esercizi sui problemi di cambio in allora – per la intelligenza del testo storico seguente. Il lettore, il quale non capirebbe verbo dalle cifre contenute nelle tabelle delle variazioni monetarie, è messo, quando abbia letto l’introduzione, in grado di seguire, con gusto e con frutto, la narrazione storica. La quale non dice in fondo gran che di nuovo intorno ad un fatto conosciutissimo come è la storia della moneta cartacea francese nel tempo della rivoluzione, Aver però sostituito alle nozioni incerte, ai dati frammentari, alle narrazioni fatte a braccia, l’accertamento preciso dei corsi dei cambi anno per anno fino al 1788, giorno per giorno dal 1789 alla fine del quarto anno e poi di nuovo anno per anno per gli anni dal quinto all’ottavo, per lo più su sette ed almeno su tre piazze estere, non è davvero piccolo merito.

 

 

5. – Ci passano dinnanzi agli occhi fatti che ingenuamente si supponevano proprii dei tempi nostri. Qualche anno fa, quando taluni stati europei ricorrevano al mercato di New York per ottenere capitali a mutuo al 7 od all’8 per cento, si facevano commenti sul giro vizioso compiuto da quei danari, che erano d’origine europea, recati negli Stati Uniti da risparmiatori paurosi dei proprii governi e lì depositati al 2 o al 3 per cento, affinché gli americani più azzardosi potessero lucrare grossa provvigione reimportandoli in Europa. Non si sa chi dei due, se gli europei o gli americani, avesse più torto. Certo è che, innanzi alla rivoluzione, i banchieri genovesi avevano inventato astuzia più leggiadra; ché, in combutta con essi, tiravano lettere di cambio sui loro corrispondenti parigini, le quali, accettate da costoro, erano scontate e di volta in volta presentate al rinnovo, presso la Caisse d’escompte al 4 per cento; ed il ricavo dello sconto era dato a mutuo al governo francese all’interesse dell’8 per cento; il guadagno fatto sulle spalle del risparmiatore e dello stato francesi andando fraternamente ripartito fra i due soci.

 

 

6. – La psicologia umana eternamente uguale a se stessa è illuminata talora da qualche rapido lampo. Il 13 germinale anno terzo (2 aprile 1795) Bacher, primo segretario interprete dell’ambasciata francese in Svizzera inveisce in una lettera al comitato di salute pubblica contro “gli agenti di Pitt, i quali son prodighi di oro per far ribassare gli assegnati e far perdere ad essi ogni valore, laddove il banchiere corrispondente del governo francese non sembra autorizzato ad applicare i provvedimenti che sarebbero bastevoli a controbattere siffatte indegne manovre”.

 

 

Nella stessa lettera, lo stesso segretario, aveva tuttavia registrato il fatto che “ogni settimana giungono a Basilea i fornitori dell’esercito del Reno carichi di balle di assegnati ancora munite dei sigilli di piombo del tesoro francese per venderli ad ogni prezzo” (p. 83).

 

 

Sismondi aveva già bollato l’ipocrita faccia tosta dei terroristi i quali mandavano alla ghigliottina l’untorello speculatore accusato in Parigi di aggiotaggio sugli assegnati, quando invece questi erano ribassati a Londra, prima e in misura maggiore che a Parigi, a causa delle svendite che gli agenti del comitato di salute pubblica facevano sulla piazza di Londra di assegnati ancora umidi. Oggi si denunciano di nuovo a Parigi le colpe degli speculatori sul franco, per distogliere l’attenzione del pubblico dall’istituto di emissione unico responsabile, lì come in ogni luogo e tempo, del ribasso, insieme con chi lo obbliga ad emettere masse di biglietti non confacenti al mantenimento del corso legale o voluto della moneta. Se il malgoverno fa precipitare a zero gli assegnati, le vittorie di Bonaparte e la speranza della restaurazione dell’ordine all’interno – per ora c’è solo la speranza che fruttificherà quattr’anni dopo – mutano d’un tratto la scena:

 

 

“Il soffio più tenue di fiducia” – esclama Barbé – Marbois l’8 messidoro dell’anno quarto – “fa uscir dalla terra le specie metalliche che vi erano nascoste…. Nonostante le leggi di persecuzione contro l’oro e in difesa della carta moneta il numerario metallico esce d’ogni parte alla luce” (p. 88).

 

 

Quando la moneta cattiva non val più nulla, quella buona, non appena si speri nell’avvento di un governo ragionevole, spontaneamente ne piglia il luogo.

 

 

7. – Il volume dell’Hauser è il frutto di un’iniziativa promossa dall’International Scientific Committee on Price grazie all’aiuto finanziario della Fondazione Rockefeller, e sotto la direzione di Sir William Beveridge in Inghilterra, del professor Edwin Gay della Harvard University negli Stati Uniti e del professor Henri Hauser in Francia. L’Hauser riassume in pochi tratti le ragioni per le quali la più parte delle opere di storia dei prezzi deve essere pigliata con le molle e guardata bene di sotto, di sopra e da tutti i lati innanzi di azzardarsi a farne uso. I delitti statistici – così li chiama Beveridge – in materia di prezzi derivano dalle seguenti principali ovvie ragioni:

 

 

  • 1) gli indagatori trascurano troppo spesso le variazioni dell’unità di misura di lunghezza, di superficie, di volume o di peso a seconda dei tempi, dei luoghi e delle derrate. Che cosa sono la libbra, il rubbo, l’oncia, la pinta, il boccale, la giornata, la biolca ecc. ecc.? Paiono domande semplici. Eppure, sinché decine di studiosi modesti scrupolosi infaticabili non abbiano trascorso anni ad appurare con precisione cotali fatti semplici, le indagini sui prezzi non hanno valore. Prima di fare storia dei prezzi, fa d’uopo costruire una soddisfacente “metrologia”. Fatica ingrata, piena di trabocchetti insidiosi. Una unità di misura pare, in un dato paese, invariata per secoli. Non è così. A poco a poco, per la prevalenza di un mercato sull’altro, l’emina od il sacco della città A ha ceduto il luogo all’emina od al sacco di B. Non esiste il decreto od editto od ordinanza che abbia sancito il mutamento. Capitò che prima tutti usavano il sacco A; e poi accadde che un secolo dopo tutti usassero il sacco B, diverso dal primo. Il raccoglitore di prezzi, il quale non se ne sia accorto, va a finir male. Se l’unità “sacco” muta, tuttavia, in generale, lentamente, bisogna però ad ogni volta star attenti se il sacco sia pieno o raso, se sia il sacco di chi dà a prestito il frumento o di chi lo restituisce, se la consuetudine consenta o proibisca di dare il colpo atto a far assestare i grani l’uno sull’altro. Entro certi limiti di tempo, di luogo e di usanze, possiamo però fare assegnamento su una certa costanza.
  • 2) Non così per l’unità monetaria. Qui è, come osservai sopra a proposito del libro del Cessi, l’imbroglio massimo. Sinché non si siano costruite per l’Italia tabelle delle variazioni del peso e del titolo delle varie specie di monete effettive e di conto, nobili o di biglione, sinché non si conoscano i corsi legali ed i corsi effettivi delle monete medesime, potremo dire di avere una notizia qualunque di che cosa siano i prezzi? Se i francesi possono valersi dei risultati delle fatiche eroiche dei de Wailly e dei Dieudonne`, purtroppo noi italiani, a causa della mancanza di una fonte unica o principale delle leggi, stiamo assai peggio. Troppo lavoro preliminare è ancora da fare prima di potere azzardare una conclusione.
  • 3) Spesso è incerta la qualità del bene misurato, assai più incerta di quanto non sia oggi. Sui grandi mercati attuali, i prezzi si riferiscono a qualità definite di frumento, di granoturco, di lana, di cotone. A quali qualità si riferiscono i prezzi notati in contratti, in mercuriali, in ordinanze di tempi scorsi? Di qual sorta di vino o di birra o di sidro si tratta? Carne di bue o di vitello allevato per l’ingrassamento o carne di bue o di vacca magri assettati per la fatica quotidiana? Se si tratta di prezzi di case o di canoni di affitto, parlasi di castelli e palazzi gentilizi, di casa di abitazione per mercanti facoltosi, di casetta per artigiani o di topaia per povera gente? Merci e derrate di uso quotidiano ovvero velluti sete e pizzi di lusso, droghe del paese o spezierie d’oriente? Se si voglia misurare la spesa del viaggiare, occorre saper prima se il documento discorra della spesa del passar la notte all’albergo ovvero del ricompensare l’ospitalità del monastero.
  • 4) I prezzi raccolti sono riferiti ad una certa data. Come raggrupparli? Entro i limiti dell’anno? Che cosa vuol però dire “anno”? Anno solare od anno agricolo? All’11 novembre quando la terra si addormenta od in luglio quando i primi raccolti entrano sul mercato? Ma i novembre ed i lugli si chiamano con altri nomi di mese in altre regioni agricole o per derrate agrarie diverse da quelle fondamentali del paese. La scelta di un tempo piuttostoché di un altro per la determinazione dell’anno può modificare notevolmente le medie annue e sovratutto le congetture rispetto alle cause delle variazioni dei prezzi da un anno all’altro.
  • 5) Che cosa significano le cifre di salari, paghe, stipendi ed onorari che si leggono nei documenti? Oggi il salario in denaro è per lo più la sola remunerazione del lavoratore. A mano a mano che si risale indietro la quota denaro scema d’importanza e cresce la quota pagata in natura. Quando nelle grandi cucine dei castelli medioevali uomini d’arme, servi di campagna e famigli domestici mangiavano alla stessa tavola del signore, ed erano da lui alloggiati e vestiti, come ricostruire il salario totale?
  • 6) Come ricostruire, più in generale, serie continue di prezzi, quando i beni desiderati dagli uomini mutano da epoca ad epoca? Corazze, scudi, lancie, freccie, fucili, pistole, zucchero, caffè, tabacco, giornali, spettacoli cinematografici: ecco beni che o non si conoscono più oggi o non si conoscevano prima. Quale è dunque il significato relativo, la comparabilità dei prezzi di beni che, nel gusto degli uomini, si sono succeduti nel tempo?
  • 7) Talvolta non si sa se sia mutata solo la qualità o anche la sostanza del bene. Non solo c’e` campo e campo, prato e prato, vigna e vigna; la nozione medesima che il contadino d’oggi ha di un campo può essere in tutto diversa dalla nozione che ne aveva due o tre secoli or sono. Allora era forse definito buono il seminativo con strato superficiale sottile, ma sciolto leggero sfruttabile con aratri grossolani, che oggi parrebbe di ultima classe. Invece, il terreno profondo compatto acquitrinoso, che un tempo sembrava incoltivabile, può oggi essere fra tutti il più apprezzato. Quale è il criterio per paragonare terreni buoni e terreni cattivi in tempi diversi?
  • 8) Da quali documenti sono tratti i prezzi delle merci? La fonte più accessibile, a serie continue, è quella delle mercuriali ufficiali, stabilite a date fisse dalle autorità; spesso con minuzia di particolari, per dare a contraenti, a fornai, a mugnai, a negozianti, a fittavoli, a proprietari una base per liquidare i contratti in corso, pagare canoni, definire controversie. Si può costruire su tale base? “Voire, eut dit Rabelais“. “Secondo”, risponderebbe l’uomo del mercato. “Secondo” è la parola più sapiente che io conosca per esprimere la divergenza fra la realtà concreta e le verità di prima approssimazione. Si paragonino i corsi del frumento quali risultano per gli anni dal 1742 al 1749 dai prezzi fatti al sabato sul mercato di Angers e registrati immediatamente da due commissari su certi loro quaderni ed i prezzi medi ufficiali usati per liquidare canoni e decime, oggi direbbesi per definire le somme in denaro da pagarsi dai fittavoli debitori di canoni in frumento:

 

 

Prezzi fatti

Medie

massimi ufficiali

minimi

media annua + o –

1742

12.50

8.25

8. 75

6.75

-2.00

1743

8.25

4.50

6.25

5.75

-0.50

1744

5.00

4.25

4.06

4.51

+0.45

1745

6.25

4.00

4.60

5.54

+0.94

1746

6.75

4.00

6.02

7.68

+1.66

1747

12.00

7.00

5.13

9.41

+4.28

1748

12.00

8.00

9.31

7.48

-1.83

1749

8.75

7.25

7.92

7.52

-0.40

 

 

Perché tanto scarto? Viene il sospetto che l’orecchio dell’ufficiale proposto alle medie ascoltasse a volta a volta or i fittabili ed ora i proprietari a seconda della loro attitudine a farsi sentire. Eppure le serie più abbondanti sono quelle ufficiali, e sono le più sospette e più bisognose di correzione.

  • 9) Ugual contrasto fra corsi legali e corsi effettivi delle monete. Le ordinanze delle corti monetarie sovrane fissano a frequenti intervalli i corsi delle monete effettive, nobili ed erose, nazionali e forestiere correnti nel paese. Sembri che basti appurare i pesi ed i titoli delle monete effettive elencate nelle ordinanze, calcolare i rapporti coll’unità della moneta di conto per conoscere i grammi d’oro e d’argento contenuti nella unità della moneta di conto. Siamo invece appena al principio della conoscenza della realtà. I corsi effettivi si allontanavano quasi sempre dai corsi legali; e quel che contava nelle contrattazioni erano i corsi effettivi. I quali poi subivano, in confronto ai corsi ufficiali, scarti variabili da moneta a moneta. Raveau, forse l’uomo più saldo in arcione tra quanti affrontarono questo spinosissimo problema, ritenne necessario rilevare dagli atti notarili il numero di ogni specie di moneta di fatto versata dai debitori all’atto dei pagamenti. Di anno in anno variano le proporzioni dell’oro, dell’argento, dell’eroso e varia quindi il significato dei prezzi convenuti.
  • 10) Come manipolare e confrontare e ridurre a numeri indici i prezzi così raccolti? Quando Simiand scrupoloso interprete di prezzi e di salari conclude non essere assolutamente lecito accettare neppure una delle interpretazioni e delle conclusioni a cui giunse il visconte d’Avenel nei suoi sette volumi della storia dei prezzi in Francia (e lo stesso dicasi per gli otto volumi di Thorold Rogers), si rimane pensosi.

 

 

8. – Hauser, il quale ha compiuto la sua educazione scientifica nelle grandi scuole filologiche, tipo “Ecole des Chartes“, sente profondamente questi problemi preliminari. Le curve, i diagrammi, i numeri indici per lunghi periodi non hanno sapore per lui o l’hanno amaro; e sono tanto più insapori od amari quanto più si distendono per lunghi periodi di tempo. Quelle curve secolari, dalle quali con sapienti calcoli sono state eliminate le traccie delle variazioni stagionali, annuali e cicliche brevi, curve le quali ci narrano di una tendenza generale dei prezzi al rialzo dal 1500 fin verso il 1650, di una successiva tendenza meno accentuata al ribasso dal 1650 fin circa il 1770 e di un nuovo periodo di rialzo tendenziale fin verso la fine delle guerre napoleoniche, lo lasciano perplesso. Che cosa possono voler dire queste cifre ridotte a scheletro, quasi impalpabili, disossate della loro carne viva? Tanto poco da non francar la fatica mirabile e minutissima durata a conseguire risultato così etereo.

 

 

Non fa d’uopo essere educato a scuola tanto severa per dirci quel che osservatori modesti ci avevano già detto, forse in modo più espressivo. Quel veterano delle guerre di religione, soldato indurito dalle cose viste e patite, ci aveva già nel 1600, ripetendo Bodin, che non la terra produceva di più un secolo prima; non già si erano scoperte miracolose miniere di pollastre, di grano, di drappi e di tele, bensì di oro e d’argento.

 

 

L’abbondanza dei viveri non è cresciuta; sì l’oro è sovrabbondante ed è perciò a buon mercato! Hauser non sa persuadersi del vantaggio di consumar tanto tempo in calcoli raffinati per dire quel che rozzamente ed efficacemente un soldataccio aveva spiegato tre secoli innanzi. La precisione, anzi, lo fa diffidente. Quando taluno gli dice che, Tizio, possessore nel 1451 di una rendita annua equivalente a 100.000 franchi, godeva di una potenza di acquisto uguale a quella di chi nel 1900 avesse avuto diritto ad una rendita di 600.000 franchi di ugual peso unitario metallico o, aggiungiamo, di 4 milioni di franchi-carta della primavera del 1938, Hauser, con valide argomentazioni nega la possibilità di compiere generalizzazioni recise, rimanda a studi locali ristretti ad una provincia o ad un comune e proclama Balzac e Zola autorità ben più degne di fede degli economisti e degli statistici nel decidere questioni di potenza d’acquisto.

 

 

“L’autore del Chat – qui – peloté, Cesar Birotteau, del Journal de deux jeunes mariees, meglio di qualunque statistico, inquadrerà il ricco borghese nel suo ambiente; vi rivelerà, meglio d’ogni calcolo, il potere d’acquisto, relativo al suo tempo ed alla sua classe, delle rendite, del reddito dei terreni, delle speculazioni fortunate o rovinose del suo eroe.

 

 

Per sapere ciò che valevano centomila franchi ai bei tempi del secondo impero, interrogate Zola…. Pierre de l’Etoile, vedendo sfilare lungo le vie di Parigi il corteo di un consigliere al Parlamento, cavalli, lacché, panieri di legumi e di frutta della casa di campagna, concludeva trattarsi di un personaggio assai ricco. Ecco il solo criterio pressapoco sicuro.

 

 

Potenza d’acquisto? Problema insolubile, anzi impossibile persino a porsi, storicamente, in termini numerici”.

 

 

9. – Scetticismo eccessivo? No, se esso vuole soltanto ricordare agli statistici i limiti della loro dottrina e la inferiorità nella quale si trovano, quanto a potenza di rappresentazione della realtà, in confronto dei romanzieri e degli storici di cartello. Quante volte, percorrendo collo sguardo mirabili tabelle, leggendo le rigorose illustrazioni di esse rimaniamo insoddisfatti! Senza saperne il perché, intuiamo che manca in quelle pagine sapienti qualcosa, di cui l’indagatore non poteva tener conto, perché non risultava da nessun documento, da nessun dato di fatto precisabile e misurabile. Eppure quel qualcosa era la circostanza essenziale, rivelatrice. Perché, invece, le indagini del Pugliese sui prezzi, salari e redditi nel Vercellese dal 1700 al 1925 sono, con quelle di Raveau sul Poitou, le cose più sicure che io conosca in quel campo? Non perché l’uno o l’altro fossero statistici od economisti professionali.

 

 

Pugliese era un proprietario terriero, fornito di un certo margine di ozio fecondo; Raveau era un funzionario coloniale, al quale piacque dedicare gli anni ultimi di riposo a studi di storia locale. Ma l’uno e l’altro conoscevano a fondo luoghi, uomini, vicende della propria piccola contrada nativa. Erano prudenti e modesti; non vollero scoprire tendenze, che oggi per affettazione si chiamano anche in lingua italiana “trends”, secolari.

 

 

Dissero con cautela quel che avevano appurato con sicurezza. Frattanto i numeri indici di Raveau sono tra i pochi sicuri che sia lecito utilizzare; ed il “margine” di Pugliese, il margine disponibile per il contadino vercellese dopo aver provveduto a certe spese definite necessarie è uno dei pochissimi strumenti sicuri per paragonare con una certa tollerabile approssimazione condizioni di vita a date diverse dal 1700 al 1925. Ma quanta dottrina non dichiarata su fatti minuti, quanta esperienza di uomini, di istituzioni, di luoghi per giungere a conclusioni persuasive!

 

 

10. – Perciò non bisogna essere troppo pessimisti. Dove Pugliese e Raveau riuscirono, altri riuscirà. Buttiamo al fuoco i volumi superbi di generalizzatori frettolosi; ma incoraggiamo gli studiosi serii ad affrontare l’impresa grandiosa di costruire una storia dei prezzi in Italia partendo da una regione, anzi da un comune od un gruppo di comuni ed ivi scavando in profondità. Il volume curato da Hauser non tenta sintesi azzardate. I dati sono distinti per regioni o luoghi: Parigi, Normandia, Chateau-Goutier, Angers, Reune, Dauphiné (9 luoghi), Saint-Antonin, Nantes. Per ogni regione sono forniti prezzi per quei soli anni e per quelle sole derrate, per i quali esistevano fonti sicure. È probabile che gli economisti siano malcontenti di non trovare serie sintetiche utilizzabili per i loro studi. Hauser sembra dire: non le ho date, perché non credo si potranno mai dare. Correggerei: abbiamo pazienza; la sintesi illuminatrice verrà quando si conosca un numero abbastanza largo di dati sicuri e quando di ognuno di quei dati si conosca il significato; per ora più che di sintesi si tratterà di ipotesi parziali provvisorie e dubitative. Ma quelle ipotesi serviranno all’economista per compiere ragionamenti forse fecondi e sovratutto per verificare la conformità ai fatti dei suoi ragionamenti. Il punto di contatto fra storici ed economisti è lì. L’economista deve indicare allo storico la via lungo la quale sarebbe desiderabile indagare per raccogliere fatti, i criteri per distinguere fra i tanti fatti quelli degni di essere raccolti e di essere illuminati con la conoscenza di circostanze rilevanti.

 

 

Quando lo storico ha compiuto la raccolta dei fatti, li ha criticati e vagliati, chi li sistemerà? Chi li farà parlare? Chi se ne servirà per verificare se essi entrino in uno schema teorico, e, se non entrano affatto od entrano solo in parte, chi ne trarrà argomento per ripensare e modificare quello schema? Qui i confini fra la competenza dello storico e quella dell’economista sfumano ed anzi le questioni di competenza perdono ogni significato. Riuscirà chi saprà fare l’uno e l’altro mestiere e forse qualche altro ancora.

 

 

11. – Del resto, le difficoltà, le quali paiono grosse da lontano, si sbrogliano cammin facendo. Invece di dire, come fa Hauser, essere quasi impossibile costruire numeri indici dei prezzi, dei salari nominali e reali, Hamilton ha affrontato l’impresa. A leggere i due volumi che egli ha dato sinora alla luce della sua grande storia dei prezzi in Spagna dal 1351 al 1800, si rimane sbalorditi per tanta pazienza e per tanta fatica: 30.750 ore di lavoro sue e di sua moglie, oltre 12.500 ore di lavoro di assistenti, non meno di tre milioni di calcoli, durante sei anni e per i soli 150 anni dal 1500 al 1650. I risultati ottenuti giustificano il tempo e il lavoro durati?

 

 

A me par di sì. Ma prima di dir dei risultati, interessa sapere perché Hamilton non si scoraggiò dinnanzi ai problemi che Hauser ha catalogato; problemi seri, veri, sgorganti dalla realtà e non da scrupoli raffinati di erudito fastidioso. Hamilton sapeva quel che cercava e perché cercava in una direzione. Egli è un economista il quale sa che la rivoluzione avvenuta nei prezzi dopo la scoperta d’America e dopo gli arrivi dell’oro e dell’argento tratti dalle miniere americane non è fatto sostanzialmente diverso dalla rivoluzione nei prezzi seguita alla guerra mondiale ed alla fiumana di carta-moneta che ne scaturì. Egli sa che le ondate di prosperità sono connesse a talune divergenze fra la velocità nell’incremento dei prezzi di vendita e quella dei costi; e che i tempi di crisi sono connessi a talune opposte divergenze; sa che gli indici dei prezzi è bene siano costruiti nella moneta corrente nel paese e che le loro trasformazioni in indici di prezzi, in oro o in argento non hanno per iscopo di avvicinarci alla conoscenza dei prezzi veri, ma di farci apprezzare il significato degli indici grezzi. Egli sa che dei prezzi di regioni anche vicine ed anche legate da stretti rapporti di commercio, come tra il 1351 ed il 1500 erano i regni di Navarra, di Aragona e di Valenza, non è lecito fare un miscuglio; epperciò li tiene separati. Ma poiché vede i prezzi ed i salari nominali muoversi tra il 1276 ed il 1380 rapidamente all’insù nell’Aragona dal livello 48-27 e nella Navarra dal livello 24-20 verso il livello 100 (sulla base 1421-1430), egli è forzato a concludere dovere probabilmente gli stessi effetti procedere da cause simiglianti: aumento nella quantità d’oro prodotta e monetata tra il 1300 ed il 1400 ed insieme forti svalutazioni monetarie, le quali prendevano la forma di un numero crescente di unità della moneta di conto dato per l’unità a sua volta alquanto scemata di peso della moneta effettiva. Poiché i prezzi ed i salari nominali tra il 1380 ed il 1500 oscillano intorno al 100, con una leggera tendenza nei prezzi e non nei salari a scendere sotto il 100; e poiché in quel tempo la produzione dei metalli preziosi languì; egli domanda: perché nonostante le condizioni avverse alla espansione economica – medio circolante scarso e costi rigidi – l’economia fiorì bastevolmente? Forse perché, senza sapere di fare una politica espansionista, i governi del tempo svalutarono, con i metodi allora noti, l’unità monetaria? Sia questa una ipotesi preliminare o uno strumento di verificazione di fatti accaduti, la spiegazione quadra con la realtà e la illumina.

 

 

“Le alterazioni monetarie tendevano a crescere la quantità di moneta in circolazione e mitigavano così quel declino nei prezzi che fu il grande ostacolo al progresso economico nel secolo anteriore alla scoperta del nuovo mondo” (Money etc. pagina 95).

 

 

In verità, di quale altro criterio disponiamo per apprezzare la solidità dei risultati raggiunti, all’infuori della corrispondenza dei fatti constatati con le conclusioni alle quali, ragionando, siamo costretti a giungere partendo da certe premesse di fatto? Quando Hamilton, nel volume sulla moneta i prezzi ed i salari nei reami di Valenza, di Aragona e di Navarra dal 1351 al 1500, dopo averci fornito una bibliografia terrificante, da lui compulsata e sfruttata a fondo, e, dopo aver dato notizia del metodo di lavoro da lui osservato personalmente e direttamente sulle fonti prime, riduce a forma di tabelle la massa spaventevole di dati greggi da lui raccolti, calcola le quantità di monete d’oro, d’argento e di biglione coniate nelle zecche dei tre regni, dà ragione delle unità di peso e di moneta da lui adoperate, stima gli scarti stagionali dei prezzi dalla media annua, e costruisce, sulla base dei dati raccolti, numeri indici di prezzi, di salari reali e nominali, abbiamo ancora diritto di mostrarci scettici? Possiamo persistere nel dire: sono troppi pochi i dati raccolti, né essi sono interpretati ad uno ad uno a norma delle circostanze particolari a cui quei dati si riferiscono? Possiamo ancora dire: dov’è il Balzac il quale ci dica, facendocelo rivivere dinnanzi agli occhi, la potenza d’acquisto di quello scudo pagato da quel prode cavaliere del regno di Navarra per pagar lo scotto dell’ospitalità in una giornata trascorsa all’albergo durante una campagna contro i mori di Granata? Stimo Balzac grandissimo economista, più grande della maggioranza di coloro che tali reputano se stessi. Molte cosidette storie dell’economia lasciano insoddisfatto sovratutto l’economista, perché questi vi legge fatti forse appurati con diligenza su fonti sicure, di cui però è ignoto il significato. Manca la connessione logica tra un fatto e l’altro. L’agricoltura va per suo conto, e così il commercio e l’industria; si narra di prezzi, di crisi, di squilibrii, di falsificazioni monetarie e di lotte per crescere i salari o premere su di essi; si ricordano querele sulla tristizia dei tempi e si aggiunge che forse c’è dentro qualche esagerazione. Tutto ciò non è nemmeno cronaca, la quale vale solo perché è frutto di vita vissuta da un attore dei fatti.

 

 

È niente. Balzac si erge alto sopra siffatti aridi novellatori, perché fa rivivere gli uomini che vissero quei fatti. Dallo scetticismo esco leggendo storie ragionate, scritte, come questa dell’Hamilton, da chi non si è fidato, come non ci si deve fidare, se non in casi rarissimi, di dati raccolti da altri, e sovratutto da squadre stipendiate di copisti, calcolatori e tecnici; ma ha egli stesso manipolato e sommato i dati primi.

 

 

Quando i prezzi individuali e quelli medi o ridotti ad indice, i salari nominali o quelli reali, i prezzi in moneta di conto e quelli in oro od argento effettivo, le masse d’oro e d’argento recate in zecca, gli abbassamenti e gli innalzamenti dei piedi monetari, e gli inversi innalzamenti e abbassamenti della moneta di conto si incastrano l’uno nell’altro e si spiegano a vicenda e compongono un tutto logicamente equilibrato, io non posso più essere scettico e debbo conchiudere: questo è un pezzo di vera storia scritta da un economista; un pezzo di storia economica veramente utile allo storico il quale voglia ricostruire la storia compiuta di quel tempo.

 

 

12. – In American Treasure and the Price Revolution in Spain, 1501-1560 ci muoviamo in un campo più vasto. Il rigore del metodo è invariato; si ammira la stessa formidabile teoria di fonti d’archivio e a stampa utilizzate dall’autore, si rabbrividisce dinanzi alla massa dei dati raccolti ed alla fatica della raffinata elaborazione, ci si sente umiliati nel constatare la superbia con la quale reputiamo di poter passare sopra ai piccolissimi problemi di metrologia e di numismatica che l’a. invece preliminarmente affronta e ad uno ad uno scioglie. Questa volta però l’economista non ha soltanto verificato storicamente teorie ad istruzione ed arricchimento dei suoi colleghi. La materia più ricca gli ha consentito di perfezionare e correggere tesi comunemente accolte nel campo più vasto della storia politica. L’economista che ha dimostrato di essere storico dell’economia perché economista, si chiarisce capace di recare un contributo di prim’ordine alla storia politica, alla storia senza aggettivi.

 

 

Anticipando cose le quali saranno probabilmente esposte con maggior larghezza nel terzo volume (1650 – 1800), l’Hamilton ha frattanto riassunto le conclusioni provvisorie dei volumi sinora usciti alla luce in un articolo suggestivo “Revisions in Economic History: The Decline in Spain“, pubblicato nel fascicolo di maggio 1938 di “The Economic History Review”. Riassumo volumi ed articolo nel tempo medesimo.

 

 

13. – La decadenza della Spagna, tra il 1598 (morte di Filippo Secondo) ed il 1700 (morte di Carlo Secondo) dopo la grande fioritura e l’egemonia conseguita tra il 1479 (unione della Castiglia e dell’Aragona) ed il 1580 (annessione del Portogallo), non è fatto dubbio. Forse ne è stata esagerata la portata dagli storici tedeschi allo scopo di innalzare, per contrasto, la figura di Carlo Quinto, dai francesi per esaltare la politica economica dei primi Borboni, e dai liberali per accentuare le colpe dell’assolutismo, dell’inquisizione, della persecuzione delle minoranze e dell’espulsione dei mori. Nonostante le esagerazioni, il fatto della decadenza rimane. Il tonnellaggio delle navi viaggianti tra la Spagna e le Indie scemava dall’ultimo quarto del sedicesimo secolo all’ultimo del diciassettesimo del 75 per cento. Alla fine gli stranieri provvedevano i cinque sesti del carico di esportazione; non si trovavano pescatori in numero bastevole per equipaggiare le navi; la bandiera spagnuola era quasi scomparsa dai mari. La decadenza agricola fu minore della decadenza industriale; ma il numero delle pecore transumanti era caduto a precipizio, né l’aumento di quelle sedentarie bastava a compensare la perdita. Le case dei villaggi cadevano in rovina e i campi erano deserti in quel di Salamanca verso il 1619. Verso la metà del secolo Burgos era in rovina e Segovia un deserto. Nei primi due terzi del secolo l’industria della lana a Toledo era caduta a due terzi e mancavano artigiani per far rinascere la fabbrica delle armi. La diminuzione della popolazione spagnuola del 25 per cento durante il diciassettesimo secolo è testimonianza di regresso assoluto oltrecché relativo.

 

 

14. – È esatto che la cacciata dei “moriscos” nel 1609-614 sia stata causa principale della decadenza? L’espulsione dei mori, fiore dell’artigianato, eletta dei contadini, i più e forse i soli industriosi laboriosi ed economici abitanti del paese, rovinò le risaie di Valenza, i campi di zucchero di Granata ed i vigneti della Spagna, fece trascurare e presto interrare i canali d’irrigazione. Questa la tesi corrente nei libri di storia. Se la tesi fosse stata vera, perché i mori, espulsi, non furono, come gli ugonotti francesi, lievito di progresso negli stati barbareschi? Ma la tesi non concorda con i fatti raccolti dall’Hamilton. I prezzi delle derrate agrarie prodotte dai mori non subiscono apprezzabili aumenti dopo l’espulsione, come logicamente avrebbe dovuto invece accadere se la cacciata dei moriscos fosse stata causa di regresso agricolo. Nel 1610-20 i prezzi del vino non rialzano, quelli del riso hanno tendenza debole; lo zucchero di Granata arriva sul mercato nelle quantità solite. I prezzi agricoli in generale ribassano nei due anni successivi alla grande cacciata del 1609; né si notano in seguito scarti notevoli al disopra dei prezzi industriali. I salari, i quali pure erano aumentati del 30 per cento subito dopo la grande peste del 1599-1600, non si mossero in conseguenza della riduzione dell’offerta di mano d’opera la quale si sarebbe dovuta verificare dopo la cacciata. In verità, forte è il sospetto che non tutti i mori siano usciti dalla Spagna e che la cifra ufficiale di 101.694 espulsi sia assai più vicina alla realtà di quanto comunemente si creda. Nobili e grandi proprietari difesero i mori, che tornavano utili per la cultura delle terre e potevano, per la irregolarità della loro situazione, essere facilmente sfruttati.

 

 

15. – Maggior peso ebbero tra le cause di decadenza l’incremento della manomorta ecclesiastica e la sovrabbondanza di preti, frati e monache: quasi 180.000 su una popolazione di meno di 6 milioni alla fine del seicento. Le elemosine dei conventi favorivano l’ozio ed il vagabondaggio. L’inquisizione ebbe effetti più gravi che altrove sulla cultura. I favori alle greggi transumanti di pecore e di capre, il crescere dei latifondi a causa dei fedecommessi e dei diritti di primogenitura favorirono il diboscamento e l’estendersi dei pascoli a danno dei seminati. Se poca influenza ebbero in tal senso i calmieri vincolatori dei prezzi dei cereali, ché le cifre raccolte dall’Hamilton ne dimostrano l’inosservanza, le leggi mercantilistiche proibitive dell’esportazione dell’oro, sebbene apertamente violate, ebbero qualche efficacia ad aumentare i prezzi ed i costi interni ed a mettere in condizione di inferiorità le industrie di esportazione, le costruzioni navali e la marina mercantile.

 

 

16. – Fattore non lieve di decadenza fu la rigidità crescente della struttura sociale. Una serie di numeri indici, se ben costrutta, può avere talvolta un valore illuminante. Ecco le medie decennali del numero indice dei salari reali (base 100 = 1571-1580):

 

 

1505-1510 110.73 1601-1610 115.75
1511-1520 122.19 1611-1620 124.88
1521-1530 104.06 1621-1630 110.75
1531-1540 103.54 1631-1640 110.36
1541-1550 99.02 1641-1650 100.81
1551-1560 105.43    
1561-1570 102.50    
1571-1580 100.49    
1581-1590 104.43    
1591-1600 101.02    

 

 

Si nota un netto contrasto fra gli indici del sedicesimo secolo e quelli della prima metà del ‘600. Attraverso a qualche oscillazione, dal 1521 al 1600 l’indice oscilla intorno al 100. Poiché si tratta di indici di salari reali, ciò significa che i salari in moneta seguivano all’incirca le oscillazioni dei prezzi. Poiché durante il cinquecento: a) da un lato i prezzi, sotto l’influenza dell’afflusso dei metalli preziosi salivano (nel regno di Valenza da 80.9 nel 1501-1510 a 112.7 nel 1541-1550 su base 1521-30 e da 78.1 nel 1551-60 a 124.3 nel 1590-600, base 1571-80); b) ed i salari crescevano suppergiù nella medesima misura, lasciando, a parità di altre condizioni, invariato il margine di profitto; ma c) i perfezionamenti tecnici, che l’Hamilton ha constatato, consentivano di ottenere prodotto maggiore dalla medesima applicazione di lavoro; accadde che i profitti preveduti dagli imprenditori tendessero a crescere. La inflazione, che si potrebbe chiamare “naturale”, proveniente dall’afflusso dei metalli preziosi creò per tutto il cinquecento quello stimolo allo spirito di intrapresa che è fattore di prosperità e di avanzamento economico. Abbiamo qui una verificazione di fatto delle dottrine le quali attribuiscono virtù stimolatrici di attività economica ad una misurata lenta e continuata inflazione aurea.

 

 

Col declinar del secolo, le circostanze nuovamente mutano, per cause estranee alla economia e alla politica. La peste del 1559-1600 decima la popolazione. I salari balzano su d’un tratto: su base 1571-80, dall’indice 122.32 nel 1591-1600, i salari in danaro saltano a 159.65 nel 1601-1610, a 165.12 nel 1611-20, a 167.03 nel 1621-30, a 178.36 nel 1631-40 ed a 179.88 nel 1641-50. I prezzi, invece, si muovono assai più lentamente. Le importazioni di oro e di argento dalle Indie le quali, di decennio in decennio, erano salite per l’oro da 4.889,1 chilogrammi in totale nel decennio 1521-30 a 19.451,4 chilogrammi nel 1591-600 (con una punta a 42.620,1 chilogrammi nel 1551-60); e per l’argento da 148,7 chilogrammi nel 1521-30 a 2.707,626,5 chilogrammi (massimo) nel decennio 1591-600; scemano ininterrottamente a 469,4 chilogrammi per l’oro ed a 443.256,5 chilogrammi per l’argento nel 1651-600.

 

 

I prezzi, i quali dall’afflusso crescente dei metalli preziosi erano stati nel secolo precedente spinti all’insù, continuano ad aumentare, ma con ritmo assai più lento; nei cinque primi decenni del 1600 e su base 1621-30 nel regno di Valenza si hanno gli indici: 99,07, 96,13, 99,80, 111,63, 112,72. Essendo i salari monetari cresciuti tanto di più, quelli reali stanno per tutti i primi quaranta anni del seicento al disopra del 100 (veggasi la tabellina sopra riportata). Gli imprenditori stretti fra i prezzi lenti a muoversi ed i salari alti, avrebbero potuto prosperare solo se avessero potuto compensare il costo relativo crescente della mano d’opera con riduzioni notevoli dei costi tecnici di produzione. Non vi è invece traccia di apprezzabili progressi tecnici. Epperciò l’industria spagnola divenuta fonte di perdite, tendeva a decadenza. Invano gli industriali e i commercianti invocavano larghezza di credito ed inflazione monetaria. Le svalutazioni monetarie che si susseguirono, sovratutto a causa della necessità dell’erario, e che, per le lagnanze dei ceti a reddito fisso, erano seguite da spasmodiche deflazioni, furono impotenti a mutare a fondo la situazione. Se l’economia aveva prosperato durante il cinquecento sotto lo stimolo di prezzi in oro e argento e di salari in denari crescenti con ugual ritmo, essa decadde nel seicento quando il costo dei salari fu cresciuto ed irrigidito dal rarefarsi della popolazione e le scemate importazioni dei metalli preziosi non provvidero più il compenso stimolante dell’aumento dei prezzi.

 

 

17. – Fin qui, le cause della prosperità nel ‘500 e della decadenza nel ‘600 della Spagna paiono collegate con l’agire di mere forze naturali cieche: il gettito delle miniere americane, prima crescente e poi calante che, agendo sui prezzi, a volta a volta stimola e raffrena lo spirito di intrapresa; e la peste che irrigidisce e cresce i salari in un momento nel quale sarebbe stato necessario frenarli. Non si può far colpa ai governanti spagnuoli se essi non inventarono ed applicarono tra il ‘500 ed il ‘600 quei metodi di correzione delle ondate monetarie intorno ai quali discutono ancora oggi insigni economisti; né si può muovere ad essi rampogna per non aver saputo prevenire e combattere la peste con i mezzi che solo la scienza moderna ha scoperto. Sì, si può ad essi rimproverare di aver governato male. Hamilton ammira Carlo Quinto e Filippo Secondo per la devozione al dovere e la magnifica capacità di lavoro che consentì ad essi di tenere ferme in mano le redini di governo del vasto impero, sul quale il sole non tramontava mai. Ma la causa massima della decadenza della Spagna fu la grandezza conquistata a costo della distruzione di tutte le forze autonome vive le quali avrebbero potuto, durante le inevitabili crisi internazionali, riparare alla debolezza eventuale del centro:

 

 

«tutti gli economisti, osserva l’autore, riconoscono i dannosi effetti, del malgoverno anche in un regime di laissezfaire; ma, dati i metodi interventistici e paternalistici prevalenti in Spagna, le conseguenze economiche di una amministrazione progressivamente inferiore furono catastrofiche» (p. 171 dell’art. citato).

 

 

Il governo cadde in mani sempre più incapaci: Filippo Terzo (1598-1621) dissoluto, Filippo Quarto (1621-1665) incapace, Carlo Secondo (1655-1700) malato di mente e di corpo dall’infanzia, governarono a mezzo di favoriti; e se i primi due almeno seppero serbare a lungo fiducia negli stessi uomini, il regno di Carlo Secondo fu un succedersi di ministri incapaci e complottanti. Tutti condussero guerre lunghe e disastrose, le quali costrinsero ad imporre tributi schiaccianti su una popolazione decrescente, ed a manipolar la moneta per sottrarsi a debiti rovinosi. Il malgoverno dei re della dinastia austriaca fu il fattore decisivo della decadenza economica spagnuola.

 

 

18. – La conclusione, alla luce delle serie apparentemente aride di prezzi e di salari raccolte dall’Hamilton, mi sembra logicamente inoppugnabile e fa pensare alle note difese che il Croce ed il Nicolini compierono del governo spagnuolo in Italia contro le ingiuste accuse da cui esso era stato fatto bersaglio[1]. Quelle difese, o meglio quel ristabilimento della verità storica malmenata da storici faziosi e da pubblicisti impazienti, restano. Resta però altresì il fatto fondamentale: che la monarchia spagnuola decadde durante tutto il diciassettesimo secolo; che quella decadenza non fu dovuta se non in piccola parte a cause economiche od oggettive estranee; che queste medesime cause agirono altresì, sia pure con ritardo, in altre contrade europee e non produssero ivi quei risultati; anzi mentre la Spagna decadeva, altri stati, come la Francia e l’Inghilterra, progredivano; e se per l’Olanda si poteva forse parlare di splendida stasi, non v’era decadenza. Importa dunque ricercare quelle cause in circostanze differenziali; e queste, probabilmente, non di sostanza, ma di grado.

 

 

Dappertutto, in Francia, in Olanda, in Piemonte, a Venezia si adottavano i medesimi provvedimenti di politica economica mercantilistica che gli economisti milanesi dell’epoca dell’illuminismo rimproverarono poi come errori in modo particolarissimo alla Spagna. Non discutiamo se sia proprio l’uso della parola “errore” applicato a provvedimenti che storicamente si dicono frutto dei tempi. La questione non è soltanto terminologica, ché i medesimi provvedimenti sono oggi frutto della stessa aria del tempo che corre; e forse la sola differenza fra il diciottesimo secolo e quello ventesimo è data da una sparuta schiera di economisti ostinati a chiarire lo sbaglio. La mancanza del critico muta l’indole di una politica economica. Trattisi di provvedimenti consoni ai tempi o di errori, non essi per sé furono cagione della decadenza spagnuola; sì forse il grado di essi. Se oggi il signor Roosevelt disturba con alcuni particolari del “New Deal” il funzionamento del meccanismo economico comunemente detto capitalistico, i danni possono essere lievi, perché sono ancora vive nel paese tante altre forze le quali compensano quell’azione distruttrice e perché gli Stati Uniti sono talmente vasti che l’efficacia negativa, ad es. di una proibizione alla frontiera si diluisce e si annulla frangendosi contro la enorme massa dell’attività produttiva nord-americana. Ma se, come in Russia, il “New Deal” diventa tutto ed il governo è l’unico motore della vita economica sociale e culturale del paese; se tutte le forze estranee al governo sono annientate; se su tutto il territorio del paese, dalle lontanissime frontiere al centro, una sola è la molla dell’azione e nessuna altra molla può agire; e se il potere centrale è fatalmente impotente a regolare il tutto e necessariamente sempre più si corrompe, la conseguenza è una sola ed è fatale ed ha nome di decadenza. Potrà darsi che, per circostanze estranee al tipo di governo economico, ad es. i mirabili progressi tecnici dell’età contemporanea, progressi che il commercio intellettuale, insopprimibile tra nazione e nazione, comunica anche alla Russia, la decadenza di questa non sia assoluta, ma solo relativa e possa anche per lungo tempo ridursi ad un ritardo nel progresso economico.

 

 

La decadenza vorrà sopratutto dire ricchezza minore di beni spirituali e morali. Ma sarà ciononostante decadenza.

 

 

19. – Nel diciassettesimo secolo, la Spagna, più che altri paesi, si avvicinava forse al tipo dello stato accentrato burocratico. Che la sostituzione di un forte potere centrale al frazionamento feudale e comunale fosse una necessità logica e storica, non si discute; che nel promuovere siffatto mutamento la Spagna possa avere, anche in Italia, adempiuto a quella che si suol chiamare missione storica, non si discute. Perché il governo di Elisabetta in Inghilterra, di Richelieu, Mazzarino e Colbert in Francia non furono cagione di decadenza come i governi di Carlo Quinto e di Filippo Secondo in Spagna? Probabilmente, in Spagna, l’accentramento oltrepassò quel punto che segna il confine fra la capacità di produrre certi effetti comunemente collegati con fatti di progresso e la attitudine a produrre altri effetti detti di decadenza. Croce e Nicolini hanno ragione nel difendere la Spagna da ingiusti detrattori e nel dirla desiderosa di bene per i popoli italiani, sollecita del loro incremento materiale e morale, rigorosa giustiziera contro anarchiche forze dissolvitrici; ma probabilmente non avevano meno ragione i Verri ed i Beccaria e sulle loro traccie Alessandro Manzoni ad aver timore di tanto zelo e di tanta invadenza. Più che i poveri diavoli, tra mediocri ed idioti, dei Filippi Terzo, Quarto e dei Carlo Secondo, sono responsabili della decadenza spagnuola i Carlo Quinto ed i Filippo Secondo, creatori di un congegno di precisione, che miracolosamente essi seppero far funzionare ma nessuno poté in seguito maneggiare. La colpa storica dei due grandi sovrani non sta, ancora, tanto nell’aver creato una macchina di governo, quanto nell’aver distrutto le altre forze sociali indipendenti dal potere centrale, le quali sole avrebbero potuto imprimere alla macchina statale il vivo impulso di azione perenne, senza di cui ogni macchina è cosa morta. Per fortuna d’Italia, l’impulso del potere centrale giungeva a Milano, a Napoli ed a Palermo tardo e sonnolento; ne` tutte le forze paesane poterono essere durevolmente mortificate. Il problema storico, il quale a proposito delle relazioni dell’Italia e della Spagna, meriterebbe, anche dopo le indagini feconde di Croce e di Nicolini, di venire approfondito, sta nel vedere se nell’atto di accusa dei Verri e dei Manzoni non vi sia, fuor del giudizio morale, un giudizio storico propriamente detto. Quali erano i caratteri differenziali del paternalismo e dell’interventismo di governo spagnuolo in confronto alle analoghe massime di governo degli stati contemporanei? e perché quelle massime che altrove consentirono la vita e l’avanzamento, in Spagna condussero alla decadenza? e fino a qual punto quei caratteri differenziali operarono in Milano ed in Napoli?

 

 

Attraverso il velo della condanna intellettualistica e moralistica dei Verri e dei Manzoni intravvediamo forse la sostanza di un giudizio storico.

 

 

Intravvediamo; ché solo lunghe pazienti fatiche potranno sostituire all’ipotesi, forse stimolatrice, la conclusione sicura ragionata.



[1] Ricordo soltanto del Croce i parr. settimo ed ottavo del secondo capitolo (pp. 133 a 145) della “Storia del regno di Napoli”; e del Nicolini la quinta annotazione “Sul cosidetto malgoverno spagnuolo” (pag. 236 – 240) del saggio su “Il Tumulto di San Martino e la carestia del 1630” in “Aspetti della vita italo – spagnuola” (Napoli, 1934) ed, oltreché passim in tutto il libro, il par. 2 (pp. 10 – 21) della premessa a “Peste e untori nei Promessi Sposi e nella realtà storica” (Bari, Laterza, 1937).

Torna su