Al bivio
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 19/02/1947
Al bivio
«Risorgimento liberale», 19 febbraio 1947
Se ci si vuol rendere ragione dell’importanza attribuita, in seno all’Assemblea costituente ed all’opinione pubblica, ai due telegrammi del direttore generale Ventura ai dirigenti delle borse valori, a tutta prima si rimane perplessi.
Uno di essi ripristina per i titoli azionari l’obbligo della denunzia mensile delle operazioni di riporto da parte degli agenti di cambio, dei commissionari di borsa e delle banche. L’obbligo aveva suo fondamento nel decreto legge del 30 giugno 1932 n. 815, il quale, dettando nuove norme sulle borse, sottometteva le borse valori alla vigilanza del ministro delle finanze, il quale poteva all’uopo «in ogni tempo ordinare ispezioni ed emanare i provvedimenti necessari per assicurare il regolare andamento del mercato dei valori». L’obbligo era stato sospeso il 2 febbraio 1945 dal compianto ministro Soleri, probabilmente perché non aveva contenuto e scopo la denuncia dei soli riporti alle Borse di Napoli e Roma, quando mancavano necessariamente notizie delle ben maggiori operazioni delle maggiori borse italiane. Poi, nessuno si era più ricordato della cosa; e solo ieri il ministero (il decreto legge del 30 giugno 1932 dice proprio ministero e quindi tanto il ministro quanto il direttore generale del tesoro possono legittimamente opinare trattarsi di materia di propria competenza) aveva riflettuto essere utile conoscere l’ammontare mensile delle operazioni di riporto compiute durante il mese nelle borse italiane ed aveva dato ordine si cominciasse a dar notizia di quelle compiute su titoli azionari, riservandosi probabilmente di aggiungere in seguito la richiesta di notizie sui riporti dei titoli di stato ed obbligazionari.
La richiesta, in sé stessa, è non solo logica ma necessaria. Quando si deve fare una certa politica economica, la prima condizione da osservare è di procacciarsi la conoscenza dei dati attinenti ai problemi che si devono risolvere. Nel caso dei riporti, ci troviamo, nonostante la denominazione insolita per il gran pubblico, di fronte ad un fatto molto semplice: chi ha bisogno di denaro a prestito e possiede titoli, li da in pegno (a riporto) e sulla garanzia di essi, ottiene a prestito la somma desiderata.
Naturalmente, la banca o privato prestatore dà più o meno, secondo il consiglio della prudenza, mantenendo uno scarto tra la somma data a mutuo ed il valore corrente dei titoli.
Nella stessa maniera in cui sono soggette a pubblico controllo le operazioni di credito in genere, così sono, in tutti i paesi del mondo, soggette a controllo quelle speciali operazioni di credito che si chiamano di riporto, ossia con pegno su titoli. Si può e si deve discutere sul metodo del controllo, non sulla necessità di un controllo; e quindi non si può discutere sulla necessità che l’organo di vigilanza – nel caso presente il ministero del tesoro – conosca di mese in mese l’ammontare delle operazioni di credito compiute attraverso le borse. Anzi, non si può disputare sulla necessità che le notizie così ottenute siano rese di pubblica ragione; nello stesso modo come le notizie consimili per le comuni operazioni di credito presso le banche vengono pubblicate nel bollettino mensile dell’istituto di emissione. Gli studiosi ci rimproverano, ahimè!, il ritardo, che pur ci sforziamo di ridurre al minimo, nella data del bollettino, a poco a poco cresciuto sino alle 133 pagine del fascicolo di ottobre; e le lagnanze si spiegano colla giusta ansia dei competenti di seguire i fatti della vita quotidiana. Se, perciò, il ministero del tesoro ha voluto nuovamente essere informato di alcuni fatti, che è dover suo conoscere e far conoscere a tutti gli italiani, non pare vi sia in ciò nulla che non meriti lode.
Il secondo telegramma a firma Ventura è alquanto più complesso. Il 2 settembre 1946 il ministro del tesoro Corbino ordinava che a partire dal giorno successivo «gli acquisti e le relative proroghe dei titoli azionari dovessero essere assistiti da un deposito del venticinque per cento da effettuarsi entro ventiquattro ore dalla stipulazione del contratto».
L’ordine Corbino era perfettamente legittimo, essendo fondato sull’art. 1 della legge 4 dicembre 1939 n. 1913 il quale recita: «Il ministero delle finanze (tesoro) ha facoltà di disporre che le operazioni a termine sui titoli non possano essere effettuate se non contro deposito dei titoli stessi o della relativa copertura in contanti nella misura che sarà di volta in volta determinata e per il periodo di tempo ritenuto opportuno in relazione alle condizioni del mercato». Il ministro Corbino aveva ritenuto che in quel momento e date le condizioni del mercato si dovesse richiedere al compratore di titoli azionari a termine il deposito in contanti del 25% del prezzo convenuto per i titoli. La legge vigente gli dava facoltà di stabilire l’ammontare del deposito ed egli aveva fissato il 25 per cento. Che io sappia, l’ordine Corbino non era mai stato revocato; e quindi non si può muovere rimprovero se qualche giorno fa sia venuto in mente al ministero (anche qui la legge parla non di ministro ma di ministero), e, per esso, al competente direttore generale del tesoro di verificare se la legge fosse osservata.
Anche qui, de lege condita nulla quaestio. Poiché la legge esiste, poiché l’ordine di applicazione della legge era stato dato da chi ne aveva l’autorità, non v’è dubbio che la richiesta ministeriale di essere informati sulla sua esecuzione era legittima. Non possiamo, tuttavia, chiudere gli occhi dinnanzi a due problemi di sostanza: l’uno tecnico, l’altro politico.
Il problema tecnico è: è ragionevole la diffidenza che la legge vigente manifesta contro i contratti a termine? La rissa è antica: e forse potrei, a risparmiar fatica, se non mi costasse maggior tempo rintracciarli, riprodurre in materia articoli miei scritti tra quaranta e cinquant’anni addietro.
L’uomo della strada diffida dei contratti a termine; e Giovanni Giolitti, il quale possedeva talune delle più belle qualità dell’uomo della strada, ne era diffidentissimo. Tutti comprendono invero il contratto a contanti: Tizio dà la merce e Caio paga il prezzo; ed ambedue sono pari e patta. Invece, nel contratto a termine Tizio promette di consegnare a fine mese il grano che oggi non ha, la rendita 5% che non possiede, l’azione Montecatini che forse non ha mai visto con i suoi propri occhi; e Caio promette di pagare a fine mese il prezzo convenuto con soldi che oggi non ha e non sa neppure se possiederà alla fine del mese. Di qui la rissa. Gli uni, i più, sostengono che il contratto a termine è un puro e semplice gioco, che le borse dove si contrattano merci e titoli a fine mese sono bische; gli altri – e questi altri comprendono quasi tutti gli economisti, i tecnici delle banche, delle industrie e dei commerci – affermano che i contratti a contanti hanno fatto il loro tempo; che essi appartengono all’età della pietra dell’economia; che, nei paesi economicamente più progrediti, il 99 per cento dei contratti sono a termine; che senza i contratti a termine, i mercati non si approvvigionano, i prezzi vanno a sbalzi su e giù, i rischi degli esercenti industrie crescono spaventosamente e con essi crescono costi e prezzi; ed aggiungono che le due grandi guerre mondiali, distruggendo, grazie alle difficoltà delle comunicazioni, ai monopoli statali dei cambi ed ai regolamenti dei prezzi, i contratti a termine ed obbligando il mondo a tornare alle forme primitive di scambio col baratto e con i contratti a contanti, sono state cagione di imbarbarimento economico e di carestia universale.
Non intendo qui risolvere la rissa; sebbene sia intuitiva l’opinione mia favorevole ai meccanismi economici moderni (contratti a termine) e contrario agli strumenti propri già dei selvaggi (contratti a contanti). Mi basti concludere che la rissa non può essere risoluta se non dalla legge: e sia legge chiara, semplice, permanente.
Qui vien fuori l’altro problema di sostanza, quello politico.
Improvvisamente, a proposito di due telegrammi di ordinaria amministrazione e di mera richiesta di dati sulla applicazione di norme vigenti, l’opinione pubblica italiana si è trovata posta di fronte alla scelta tra i due tipi essenziali di piani economici che si combattono nel mondo. Rileggiamo l’art. 1, già riprodotto sopra, della legge 4 dicembre 1939: «Il ministero delle finanze ha facoltà di disporre che… nella misura che sarà di volta in volta determinata e per il periodo di tempo ritenuto opportuno in relazione alle condizioni del mercato». Facoltà, cioè, in un organo del potere esecutivo, di fare o non fare, di determinare qualche cosa di volta in volta, di determinare quel qualche cosa per il tempo ritenuto opportuno dal potere medesimo.
È il tipo di piani economici adottato nel tempo fascistico; ma, badisi bene, il tipo non è proprio del solo sistema fascistico. Esso è comune a tutti i sistemi economici i quali vogliono regolare l’attività economica per mezzo di atti singoli dell’autorità politica: gabinetti, ministeri, direzioni generali, commissioni amministrative, ecc. ecc. Caso per caso, volta per volta, si decide quel che si deve fare, in relazione all’opportunità del momento.
Contro questo tipo di piani economici (un tempo si diceva di intervento dello Stato) non si erge la massima del non far nulla, del lasciar fare ai singoli interessati quel che essi preferiscono: contratti a contanti od a termine, a premi, con riporti, ecc. ecc. No. Lo Stato deve avere un piano; ma non sia arbitrario. La legge dica ai contraenti: tu puoi stipulare questi o quei contratti, con queste o quelle garanzie della buona fede pubblica, comunicando questa o queste notizie sui contratti conclusi. Ma sia legge, pubblicamente discussa, votata dal parlamento, sottratta all’arbitrio dei governanti e delle autorità amministrative.
Se dalla legge nasceranno inconvenienti, questi saranno discussi; nuove norme saranno proposte al parlamento e, ove siano ritenute buone, approvate. Ma finché la legge vige, essa non deve poter essere variata dall’autorità amministrativa.
La scelta fra i due tipi di piani economici, che oggi si è presentata a proposito delle borse, si impone in tutti i rami della pubblica economia. Al bivio si aprono due strade: l’una, più facile, rapida ed allettante, quella dell’arbitrio governativo; l’altra, più dura ed aspra, della legge. Ma la prima strada – senza colpa degli uomini e forse tanto più sicuramente quanto più gli uomini sono integerrimi e devoti alla cosa pubblica – vuol dire incertezza ed arbitrio; la seconda significa sicurezza e diritto. Agli italiani la scelta.