L’accordo italo inglese
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 20/04/1947
L’accordo italo inglese
«Risorgimento liberale», 20 aprile 1947
Chi legge il testo delle lettere scambiate fra Sir Noel Charles ed il conte Carlo Sforza all’atto della firma degli accordi finanziari fra i due governi italiano ed inglese mal si rende conto dell’importanza dell’atto conchiuso il 17 corrente a Palazzo Chigi. Per cominciare dalle partite di dare ed avere poste in discussione, vi era un governo, quello inglese, il quale si riconosceva debitore di 26.250.000 lire sterline per le spese compiute dalle forze britanniche, dall’1 giugno 1946 fino alla data del loro ritiro definitivo dall’Italia, con lire fornite dal governo italiano, per beni e servizi messi a disposizione delle forze britanniche dal governo italiano durante lo stesso periodo e per pagamenti effettuati dalle forze britanniche in lire prima dell’1 giugno 1946 ad italiani che aiutarono prigionieri di guerra britannici ad evadere; ma vantava al tempo stesso crediti verso l’Italia per l’ammontare di 132.200.000 lire italiane per residuati di guerra abbandonati al nostro governo, forniture alle ferrovie italiane, trasporti marittimi, impianti fissi, rifornimenti e servizi messi a disposizione del governo italiano dal 3 settembre 1943 ad oggi.
Vi era inoltre il trattato di pace, il quale all’art. 79 dava diritto al governo britannico di far propri i beni posseduti da cittadini italiani sino a concorrenza dei suoi reclami o di quelli dei suoi cittadini verso l’Italia o verso cittadini italiani; ed il valore di tali beni italiani si poteva calcolare in circa undici milioni di lire sterline, per metà in attività liquida e per metà in altri beni sottoposti in regime di custodia e di controllo da parte dei custodi dei beni nemici. Il governo britannico poteva trattenere gli undici milioni sino a concorrenza dell’obbligo del governo italiano di indennizzare interamente i cittadini britannici, i cui beni erano stati, per un valore presunto di 6 milioni di lire sterline, sequestrati in Italia.
Conviene riconoscere che la posizione del governo inglese, forte per il trattato di pace, era resa più forte dal possesso fisico dei beni italiani in Gran Bretagna e dal naturale valore dei residuati di guerra abbandonati in Italia dall’esercito inglese; e conviene perciò riconoscere che il risultato ottenuto al termine di lunghe discussioni non poteva essere migliore. Col versamento di soli 8 milioni di lire sterline, certamente inferiore e notevolmente inferiore al valore effettivo, anche a prezzi rotti, dei soli residuati di guerra, che il governo italiano sta vendendo e venderà a suo beneficio, a tacere del valore del bottino di guerra germanico, a cui l’Inghilterra, per quanto la riguarda, rinuncia, si passa la spugna su tutte le partite di debito e di credito tra i due paesi e si comincia una nuova vita. Quanto ai beni italiani in Gran Bretagna, essi sono liberati del tutto; il governo italiano incaricandosi di versare in lire l’indennizzo dovuto ai possessori di fondi liquidi e di indicare le modalità di restituzione agli aventi diritto dei beni posti sotto custodia; provvedendo esso con i fondi liquidi predetti ad indennizzare i cittadini britannici, i cui beni erano stati in Italia sottoposti a sequestro.
Assai più importante della pietra tombale posta sulle pendenze finanziarie della guerra è la soluzione data ai problemi dell’avvenire. La vita importa più della morte; e se è grande il vantaggio di non dovere più discutere complicate ragioni di dare ed avere, con le relative recriminazioni contabili, assai maggiore era la necessità di guardare serenamente all’avvenire per quanto riguarda il commercio fra i due paesi.
È nota quale è oggi la situazione tragica dell’Inghilterra. Essa è uscita vincitrice, ma stremata dalla guerra. Al 31 dicembre 1946 il suo debito estero ammontava a 4.214 milioni di lire sterline, corrispondenti al cambio di lire 1000 per ogni lira sterlina, a 4.214 miliardi, al cambio di lire 2000 ad 8.428 miliardi di lire italiane, e ad altri cambi quasi siano a cifre altrettanto terrorizzanti. L’unico modo di rimborsare i debiti esteri – e la maggior parte dei 4.214 milioni di lire sterline sono debiti a vista – è quello di avere un margine attivo nella bilancia internazionale dei pagamenti. Se la Gran Bretagna avesse un margine di 200 milioni di sterline all’anno tra le riscossioni dall’estero ed i pagamenti all’estero, essa potrebbe sperare di rimborsare in un ventennio circa i 4.214 milioni del suo spaventoso debito estero. Purtroppo la bilancia dei pagamenti nel 1946 si salda con 1.662 milioni di lire sterline al passivo e 1.262 milioni all’attivo. Disavanzo, 400 milioni di lire sterline. Per tappare il buco, l’Inghilterra sta rapidamente consumando il credito di 1.100 milioni di lire sterline ottenuto dagli Stati Uniti ed i 250 milioni ottenuti dal Canada. Se le cose continuano ad andare nel 1947 così, come fanno pronosticare i primi tre mesi, non passa un anno e le aperture di credito sono consumate del tutto, fermi rimanendo i debiti antichi, con l’aggiunta dei nuovi contratti nel frattempo. Il peggio si è che, se parecchi dei creditori potranno dimostrarsi longanimi nel pretendere il rimborso dei loro crediti, l’India e l’Egitto, decisi a dar prova della conquistata indipendenza, fanno la faccia feroce e paiono risolute a pretendere la consegna della libbra di carne ad essi dovuta. Sicché il 15 luglio, quando in virtù dell’accordo con gli Stati Uniti, l’Inghilterra sarà obbligata a far fronte, alla parità di 1 lira sterlina contro 4 dollari, alle sue obbligazioni per acquisti di merci od altri impegni correnti, a richiesta dei creditori in lire sterline ovvero in dollari; essa si troverà al tempo stesso costretta a proclamare la serrata per tutti i suoi debiti antichi. Essa, cioè, non potrà sottrarsi alla necessità di porre i suoi creditori dinnanzi al dilemma: o voi consentite a diluire nel tempo ed in un lungo tempo il rimborso dei vostri crediti ovvero noi siamo costretti non solo a bloccarsi nell’area della sterlina, ma a dichiarare altresì che le vostre sterline potranno essere adoperate a comprar merci e servizi nell’area della sterlina soltanto a determinate condizioni ed in misura annua da noi sopportabile. In che condizioni si sarebbe trovata l’Italia se prima del 15 luglio non si fosse giunti all’accordo felicemente firmato il 17 febbraio? Oggi noi abbiamo circa 32-33 milioni di lire sterline a nostro credito a Londra; e, seguitando le esportazioni a svolgersi secondo l’esperienza recente, al 15 luglio si può prevedere che il nostro credito giungerà a 50 milioni di lire sterline (50 o 75 ovvero 100 miliardi di lire italiane a seconda che si voglia calcolare la sterlina ai cambi rispettivamente di 1000, 1500 ovvero 2000 lire). Sterline bloccate o messe in ghiacciaia; salvo le moderate quantità che gli inglesi ci avessero consentito di utilizzare per acquistare merci e servizi nell’area della sterlina. Si sarebbe finito per chiamarle sterline vecchie per distinguerle dalle nuove costituite dopo il 15 luglio da nuove esportazioni nostre, e sole valide per acquisti merci od aventi diritto ad essere convertite in dollari. In tutti i paesi del mondo, anche in Italia, esistono di queste unità monetarie vecchie – lire vecchie, franchi vecchi, ecc. ecc. – che il diavolo se le porti all’inferno, oggetto di infinite scritturazioni e di complicati regolamenti, atti a far perdere la pazienza anche ad un santo.
Grazie all’accordo, che cosa accadrà invece a questi 50 milioni di lire sterline, acquistate dall’Italia a suon di aranci, limoni, tessuti ed altre merci esportate dopo la fine della guerra dagli italiani in Inghilterra e pagate dall’Ufficio cambi agli esportatori in tanti biglietti da mille, non ultima causa del crescere della circolazione? Una parte, 10 milioni, rimane depositata presso la Banca d’Inghilterra a credito dell’Ufficio italiano dei cambi. Questi 10 milioni sono qualcosa di simile alle aperture di credito che nei paesi retti da accordi di pagamento sono fatte reciprocamente dai paesi contraenti per consentire a ciascuno di essi di fare acquisti per importi superiori alle disponibilità create dalle proprie esportazioni. Il giorno in cui l’Inghilterra vendesse a noi merci per valore superiore a quello delle nostre esportazioni, essa sarebbe coperta dal nostro credito fino a concorrenza dei 10 milioni ora depositati dal nostro ufficio italiano dei cambi presso la Banca d’Inghilterra.
Una seconda parte, di 8 milioni, è immediatamente utilizzata da noi a saldo di tutti gli impegni passati, in sostanza in pagamento dei residuati britannici di guerra, che, come si disse sopra, valgono assai di più e, venduti dal governo italiano, possono dar luogo al rientro dei biglietti emessi per comprare sterline dagli esportatori italiani.
Il resto, 32 milioni, ne faremo quel che vorremo; li utilizzeremo per acquistare, se ci converrà, merci e servizi nell’area della sterlina; ovvero li convertiremo in dollari, al cambio fisso di 1 sterlina contro 4,03 dollari; e con i dollari compreremo merci dove più ci piacerà in tutti i paesi dove ha corso il dollaro, ossia in tutto il mondo. Sarà risoluto così, senza alcun nostro sacrificio, un problema che stava molto a cuore agli inglesi: il rapporto ufficiale in Italia fra dollaro e sterlina. Un po’ dappertutto la sterlina è svalutata sul mercato nero in confronto al dollaro. Invece di cambiarsi nel rapporto di 1 a 4 essa si cambia nel rapporto da 1 a 3 ed anche a meno. Finché si tratta di mercato nero, illegale, agli inglesi non faceva né caldo né freddo. Cuoceva ad essi invece assai che ufficialmente la sterlina fosse quotata a meno di 4 dollari, come accadeva nella sola Italia sul mercato delle valute di esportazione (cosidetto 50 per cento). Oggi ciò non potrà più accadere; perché l’Ufficio italiano dei cambi d’ora in avanti compra le sterline a 4,01 dollari e le vende a 4,05; e perciò a nessuno converrà venderle a meno di 4,01 e comprarle a più di 4,05. Né l’Ufficio corre alcun rischio, perché la Banca di Inghilterra è obbligata a cambiare sterline del conto italiano in dollari o viceversa al corso ufficiale di 4,03.
La esposizione, necessariamente abbreviata, del contenuto degli accordi finanziari italo-inglesi, consente due conclusioni:
- l’Inghilterra, pur nelle sue presenti ristrette, ha dimostrato coi fatti di voler riprendere le sue tradizionali relazioni di amicizia con l’Italia, rinunciando nobilmente, senza esitare, alle sue passate ragioni di credito e consentendo agli italiani di utilizzare nel mondo intero, a loro scelta, il frutto del proprio lavoro;
- la missione italiana, grazie all’agile intelligenza ed alla tenacia del suo capo ed all’opera dei suoi collaboratori, è riuscita ad ottenere risultati che, quando essa partì, non ritenevo probabili.
Le due conclusioni provano un’antica verità: che nei rapporti tra i popoli, come tra gli uomini, il vantaggio di ognuno non si ottiene a spese dell’altro, sibbene mirando al bene di amendue. La società internazionale vive e prospera soltanto al fine del bene comune ed ha come strumento il bene comune.