Torino nel secolo liberale e Torino d’oggi
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 08/11/1946
Torino nel secolo liberale e Torino d’oggi
«Risorgimento liberale», 8 novembre 1946
La nostra città ha avuto dalla rivoluzione francese in qua un grandioso sviluppo il quale ha imposto al bilancio torinese uno sforzo altrettanto grandioso. Eravamo 93 mila abitanti in città e suburbio nel 1796; ed avevamo toccato i 330 mila nel 1900. Oggi siamo oltre 700.000. Ma nel 1797 la città di Torino aveva un’entrata di 585,6 mila lire ed una spesa di 585,3 mila lire all’anno, che si ragguagliava a 6,29 lire per abitante. Nel 1900 le entrate effettive, non tenendo conto cioè del ricavo dei prestiti e delle alienazioni patrimoniali, giungevano a 18 milioni e 163 mila lire e superavano le spese, nelle quali erano compresi i rimborsi e gli ammortamenti dei debiti vecchi, che si erano mantenute sui 16 milioni e 999 mila lire; 55,13 lire di entrate e 51,59 di spese per abitante.
Tra i nomi degli assessori del 1900 si ricordano ancora quelli di Severino Casanova, sindaco, poi primo ministro borghese della guerra, dell’avv. Cattaneo e dell’avvocato Badini, ambi senatori, dell’avv. Daneo, deputato e ripetutamente ministro, di Giuseppe Depanis, critico musicale ed allora assessore per la ragioneria. Il Depanis compilò per l’appunto allora una relazione Attraverso ad un secolo di vita amministrativa in Torino (1797-1900), la quale ci spiega come la finanza municipale potesse prosperare pur dando incremento continuo ai servizi pubblici. La amministrazione, con quei sindaci ed assessori liberali, era parsimoniosa ma produttiva. Gli impiegati municipali erano bensì dai 14 del 1797 cresciuti ai 150 del 1900; e accanto agli impiegati propriamente detti vi erano insegnanti, guardie municipali e daziarie; ma trattavasi in tutto di uno stuolo numerato.
Nonostante ciò, il progresso nei servizi pubblici era stato notabile: le fiamme per la pubblica amministrazione erano cresciute da 630 nel 1797 a 5432 nel 1900 e le nuove lampade a gas ed a luce elettrica avevano ben latra potenza illuminante delle fioche lampade ad olio di un tempo. I nove medici e gli undici cerusici per i poveri del 1797 erano divenuti 30 medici per la città, 13 per il contado, oltre a 28 levatrici; ed era del tutto nuovo il servizio di igiene con 1 medico capo, 10 medici, 4 chimici, 9 veterinari e 4 ispettori dell’annona. La manutenzione del suolo pubblico che nel 1825 (nel 1797 la voce era inesistente nei bilanci del comune) richiedeva una spesa di 40.068 lire, nel 1900 costava 502.853 lire. I giardini, le aiuole ed i pubblici passeggi, per i quali nel 1797 si spendevano 475 lire, nel 1900 richiedevano 56.060 lire; somma minima se posta in relazione alla amenità ed alla perfetta tenuta dei servizi pubblici per cui Torino era in Italia primissima; talché viene oggi fatto di chiedersi se il conte e senatore di Sambuy, il quale per lunga pezza aveva avuto cura dei giardini pubblici, non provvedesse in parte del suo a tenere alto il decoro della città, del quale egli era orgogliosissimo.
Alla Biblioteca ed al Museo civico il Comune destinava nel 1900 rispettivamente 33.200 e 33.312 lire. Quante città vi dedicano ora i 5 milioni di lire per ognuno dei due servizi, che oggi si dovrebbero spendere per ottenere il medesimo risultato?
Quel che si fece durante lo stupido secolo XIX, il secolo liberale, dovrà tornare a farsi oggi. Torino dovrà di nuovo spendere i 17 milioni di lire del 1900, senza ricorrere a nuovi debiti.
La situazione odierna del bilancio torinese sembra sia diversa. Si parla di disavanzi della gestione municipale previsti per il 1946 dell’ordine di grandezza dei miliardi, ho letto sui 1437 milioni di lire, a cui si devono aggiungere i disavanzi di 350 milioni dell’azienda tranviaria e di 67 milioni dell’azienda elettrica; ed un totale così di 1854 milioni. Cifra che appaiono spaventose di fronte a domande crescenti e giustificate di espansione dei servizi pubblici.
Ma non dobbiamo spaventarci. In parte il disastro del bilancio di Torino, come quello di tanti altri comuni italiani, sebbene non di tutti, è dovuto alla guerra sciagurata ed alla svalutazione monetaria che ne fu la conseguenza fatale. Per questa parte non vi è speranza di salvezza se non nella stabilizzazione della potenza di acquisto della lira. Il problema è di quelli che si chiamano di interdipendenza: non si può stabilizzare la lira se non c’è ordine nei bilanci pubblici; e non può esistere ordine in questi, se la lira non è stabilizzata. Ma il nodo gordiano non si spezza se non col ritornare ai metodi tradizionali di buona e rigida amministrazione del denaro pubblico. Nessun miracoloso rimedio è pensabile in questa, dove tutto è stato provato e riprovato, e dove la esperienza insegna:
- che l’unica fonte delle entrate dello Stato e degli enti locali è il reddito nazionale cioè la somma dei beni (merci industriali, derrate agricole e servizi commerciali e professionali di qualsiasi specie) che si producono di anno in anno, di mese in mese e di giorno in giorno;
- che qualunque nome si dia alle imposte: ordinarie o straordinarie, sul reddito o sul patrimonio, sui consumi o sui guadagni, esse non possono non cadere su un’unica fonte che è il prodotto lordo nuovo dell’intiera nazione, quantità che a sua volta è sinonima della somma dei redditi netti individuali di tutti i cittadini italiani. I nomi diversi possono essere rilevanti anche per le conseguenze diverse che se ne traggono; ma restano nomi e forme, e chi fa sperare diversità di sostanza e novità di materia imponibile vende illusioni ed involontariamente si ascrive alla nobile confraternita dei visionari;
- che perciò le entrate tributarie comunali non possono essere altro se non una parte delle entrate tributarie dello Stato, dei comuni e di tutti gli altri enti locali (provincie o regioni od ambedue); ed il loro totale non è se non una parte del reddito nazionale totale;
- che deve quindi esistere collaborazione piena fra lo Stato e gli enti locali nell’accertare quale e quanto sia questo reddito nazionale totale, allo scopo di stabilire concordemente quanta parte debba spettare ai cittadini i quali danno opera alla vita pubblica dello Stato, e degli enti locali e quanta debba essere lasciata ai cittadini i quali danno opera nelle più varie situazioni alla vita privata dei campi, delle officine, dei traffici e delle professioni;
- che in questo riparto debba essere serbata equità; sicché i cittadini che si possono chiamare pubblici – impiegati statali e comunali, ferrovieri, carabinieri, guardie, soldati, ecc. ecc. – sono con le loro famiglie il 25 per cento della popolazione italiana, essi in media non assorbano più del 25 per cento del reddito nazionale, ed il restante 75 per cento sia lasciato al 75 per cento della popolazione che dà opera alla vita economica, intellettuale, professionale privata. La società intiera infatti cadrebbe in disordine e crisi sociale se non fossero osservate le proporzioni giuste e gli uni si appropriassero di ciò che spetta agli altri.
Quando i nostri maggiori che amministravano nel 1900 la cosa pubblica ricavavano dai tributi nella città di Torino 18 milioni di lire e gli amministratori di tutti gli altri 8000 comuni italiani e delle 69 provincie incassavano e spendevano in proporzione somme che si aggiravano, nel complesso, sul mezzo miliardo di lire e lo Stato incassava e spendeva un due miliardi di lire, ciò accadeva perché il reddito nazionale totale stava sui 16-18 miliardi di lire; sicché la quota che i cittadini pubblici assorbivano del reddito nazionale stava in totale fra l’ottavo ed il settimo e poteva essere considerata equa.
Oggi, il reddito nazionale non è, a quanto dicono gli statistici più reputati, superiore, nella ipotesi più ottimistica, ai 2000 miliardi di lire. E cioè notevolmente inferiore al reddito del 1900. Per uguagliarlo, data la svalutazione monetaria intervenuta nel frattempo, esso dovrebbe giungere ai 2400-2700 miliardi di lire.
Su questo reddito di 2000 miliardi lo Stato e gli enti locali quanto assorbono? Non è esagerato parlare, tra imposte di ogni specie e prestiti, di 800 miliardi, e cioè del 40 per cento.
La situazione è evidentemente squilibrata. Stato, provincie e comuni non spendono troppo in cifre assolute. Spendono troppo in relazione alla capacità di pagare degli italiani. E spendono probabilmente male, senza badare, come un tempo si faceva, alle lire, anzi ai soldi, in quel che spendono.
Il programma degli uomini chiamati a governare il comune, come di quelli chiamati a governare lo Stato e di porre le condizioni necessarie affinché:
- da un lato il prodotto, lordo o reddito nazionale totale cresca almeno da 2.000 a 3.000 miliardi di lire attuali; cosa non impossibile in tempo non lungo se si pensa che con cifre nominalmente più piccole, ai 3.000 miliardi in lire attuali eravamo già arrivati nel 1938;
- dall’altro lato la spesa pubblica, dello Stato, delle provincie e dei comuni cresce ancora oltre gli 800 miliardi attuali. Se essa per qualche anno si stabilizzasse sui 900 miliardi, quando il reddito nazionale avesse nuovamente toccato i 3.000 miliardi, la proporzione della spesa pubblica al reddito nazionale totale che oggi è di 800 miliardi su 2.000 ossia del 40% ed è di fatto intollerabile sicché si deve ricorrere ad espedienti di ogni specie e speriamo non si ricorra più al pessimo tra gli espedienti che è il torchio dei biglietti, potrebbe diventare in cifre assolute di 900 su 3.000, ossia ridursi al 33%; che è proporzione alta ma tollerabile. Di nuovo la città di Torino, la quale, senza fare un soldo di debito, spendeva 17 milioni di lire all’anno, potrebbe spendere, domani, non aumentano per nulla la spesa reale ed esprimendola solo in lire attuali, 2 miliardi e mezzo all’anno; e, tenuto conto dell’aumento della popolazione, avviarsi a spendere i 3 e poi i 4 ed i 5 miliardi all’anno; e potrebbe far ciò senza ricorrere a prestiti onerosi; salvoché, entro giusti limiti, per opere riproduttive del proprio onere di interessi ed ammortamento.
Alti doveri ha il comune nei tempi moderni: di educazione, di spedalità, di igiene, di nuovi e belli piani regolatori, di case popolari. Dobbiamo emulare i nostri maggiori e giungere, ripetasi, di nuovo a spendere, come essi, senza far debiti, 2 miliardi e mezzo all’anno, che è l’equivalente dei 17 milioni di allora.
Anzi spender di più, perché l’ente pubblico ha oggi poteri maggiori di allora.
Ma per raggiungere la meta, importa imitarli nel consentire all’iniziativa privata di svilupparsi e progredire senza limiti e nello sforzarsi di amministrare con parsimonia, discutendo, senza paura di perder tempo, soldo a soldo, ogni capitolo della spesa pubblica. Così potremo spendere audacemente di più. Quel che il comune spende facendo quel che i privati non sanno e non possono fare o facendo meglio di essi è infatti bene speso e contribuisce a quell’aumento del reddito nazionale che è condizione prima affinché l’ente pubblico, lo Stato, la regione o la provincia od il comune possano toccare nell’avvenire le alte mete che la vigile coscienza cittadina del bene pubblico di volta in volta assegnerà ad essi. Ad essi, in quanto parte di noi, in quanto emanazione della volontà di bene che deve essere propria di tutti i cittadini.