Opera Omnia Luigi Einaudi

Il problema fondamentale

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 25/05/1946

Il problema fondamentale

«Il Progresso liberale», 25 maggio 1946, p. 1

 

 

 

I fabbricanti di costituzioni hanno un genio particolare per cercare precedenti ed idee precisamente in quei paesi e libri dai quali si dovrebbe rifuggire come il diavolo dall’acqua santa. Invece di studiare come e perché una costituzione durò e dura, studiano indefessamente testi e leggi dei paesi dove le carte costituzionali vissero, senza lasciar traccia, lo spazio di un mattino. Invece di meditare sul perché nessuno pensa nel Belgio a sostituire lo statuto del 1831 o sul perché lo statuto albertino era nel 1922 divenuto, rimanendo apparentemente invariato, tutt’altra cosa da quello che era nel 1848; invece di studiare queste che, insieme con quella britannica, sono le poche storie costituzionali degne di essere studiate, essi preferiscono citare sovrattutto le carte che mai non vissero o dimostrarono col loro vivere corto e tormentato, di essere un parto astratto di dottrinari posti fuor del mondo reale. Giova perciò, oggi che tanto si parla di corti supreme costituzionali, riandare l’unico esempio di corte suprema, il quale attraverso una lunga esperienza storica dimostrò di aver saputo esercitare sul serio il controllo sulla costituzionalità delle leggi. La esperienza ultra secolare (1789-1946) della Corte suprema degli Stati Uniti è davvero feconda di insegnamenti preziosi.

 

 

Il primo e forse più prezioso insegnamento è che l’atto costituzionale adottato dal congresso il 26 luglio 1788 ed entrato in vigore il 4 marzo 1789 non parla in nessun luogo di una suprema corte costituzionale. Il paragrafo primo dell’art. 3 dice puramente e semplicemente: «Il potere giudiziario degli Stati Uniti risiede in una corte suprema ed in quelle corti inferiori che il congresso di tempo in tempo vorrà ed istituirà». Nient’altro: un tribunale ordinario supremo e tanti tribunali inferiori quanti saranno richiesti dalle esigenze che di tempo in tempo si renderannno manifeste. Tribunali ordinari, simili a quelli che esistono in tutti i paesi del mondo, intesi a risolvere i litigi civili ed a giudicare dei reati di competenza federale. Vengono poi le guarentigie alla indipendenza dei giudici: «I giudici, sia della corte suprema che di quelle inferiori, terranno il loro ufficio sinché si comporteranno bene (during good behavior: ossia vita natural durante; ed in 160 anni vi fu un solo caso di giudice rimosso dall’alta carica); e riceveranno a date fisse un compenso per i servizi prestati, il quale non potrà essere ridotto finché rimarranno in carica». Fu dunque cura dei fondatori degli Stati Uniti di istituire dei giudici, e di farli indipendenti, anche per lo stipendio dal potere pubblico.

 

 

Non v’ha alcuna distinzione – ed è questo il secondo insegnamento della carta americana del 1789 – fra il giudice superiore e quello inferiore. Tutti i giudici interpretano la legge, ciascuno nel proprio ambito. Se un cittadino americano ritenga che una legge ordinaria votata dal congresso e sanzionata dal presidente od una legge particolare di qualcuno dei 48 stati della confederazione non debba essere applicata al suo caso particolare perché contraria alla costituzione, egli dovrà chiamare l’avversario in giudizio dinanzi al suo giudice ordinario, superiore od inferiore, a seconda della natura della controversia. La controversia seguirà come ogni altra il suo corso; e giungerà, occorrendo, sino alla Corte suprema. Ma le sentenze dichiaratrici di incostituzionalità delle corti inferiori e quelle della Corte suprema non hanno efficacia generale. Non pongono nel nulla la legge. La dichiarano inapplicabile, come ogni altra sentenza in ogni paese del mondo, in quel caso singolo.

 

 

Naturalmente la sentenza specialmente se emanata dalla corte suprema, fa testo. Sebbene essa possa essere fatta rivivere da una nuova sentenza, quella legge è considerata di fatto caduca e viene eliminata dalle raccolte delle leggi. È questo il terzo insegnamento che si può trarre dalla lettura del documento davvero storico del 1789. Il diritto dei giudici federali, di tutti i giudici federali, dal minimo al massimo, riposa sulle parole sottolineate contenute nel seguente comma dell’articolo sesto: «La presente costituzione, le leggi degli Stati Uniti emanate in applicazione di essa (in pursuance thereof) e tutti i trattati stipulati o che saranno stipulati dalla autorità competente degli Stati Uniti, saranno la legge suprema del paese». Dal testo si deduce che tre sono le specie di leggi vigenti negli Stati Uniti:

 

 

  • la prima è la costituzione, che è legge perfetta per se stessa;

 

  • la seconda è il trattato stipulato dagli Stati Uniti con qualche stato straniero, purché stipulato dalla autorità competente americana, il che vuol dire negoziato dal presidente ed approvato dal Senato;

 

  • la terza è la legge ordinaria approvata dal congresso (Camera e Senato) e sanzionata dal presidente. Questa legge soltanto se emanata in applicazione della costituzione (make in pursuance thereof).

 

 

Quei sapienti legislatori del 1789 non perdettero tempo ad immaginare e stabilire macchinose corti speciali incaricate di pronunciare giudizi astratti sulla costituzionalità delle leggi. Si limitarono a dichiarare che le leggi le quali non applicassero la costituzione, od in qualche modo la contraddicessero, non erano leggi. Va da se che il giudice, qualunque giudice competente, quando un cittadino fondi una sua pretesa su una legge la quale non è tale perché manca di uno dei requisiti essenziali, che è la conformità alla legge fondamentale, deve respingere la pretesa. La legge non esiste e non può dunque essere applicata.

 

 

Da quelle poche parole «in pursuance thereof» derivano i poteri delle corti americane di dichiarare incostituzionali tutte le leggi federali e statali che ai giudici appaiono contrarie alla costituzione. Da quelle poche parole e dal costume. Chi avrebbe potuto impedire ai giudici italiani di dichiarare inapplicabili decreti, regolamenti e circolari emanati dal governo in isfregio od al di là delle norme contenute nello statuto o nelle leggi regolarmente approvate dal parlamento e sanzionate dal re? Nessuno, salvo il giudice superiore avrebbe potuto o potrebbe cassare le sentenze del magistrato inferiore; e chi avrebbe potuto o potrebbe cassare le sentenze della Corte di cassazione?

 

 

Negli Stati Uniti si dovette alla inflessibile volontà del primo Chief Justice (presidente della corte suprema) Marshall se poté affermarsi amplissimo il potere dei giudici di dichiarare incostituzionali le leggi. Presidenti e congresso recalcitrarono a lungo contro la pretesa dei giudici di dichiarare le leggi incostituzionali; e si arresero solo quando videro che non esisteva alcun mezzo legale di opporsi alle sentenze della corte suprema e che nella lotta fra i poteri esecutivo e legislativo da un lato e quello giudiziario dall’altro, l’opinione pubblica sarebbe stata favorevole ai giudici. L’opinione pubblica rimase favorevole ai giudici anche quando essi diedero una interpretazione larghissima ad altre cinque parole contenute nell’articolo 5 dei dieci emendamenti alla costituzione approvati dal congresso il 25 giugno 1790 ed estesi, dopo la guerra di secessione agli stati singoli col 14.o emendamento del 16 giugno 1866. Le parole (son quelle sottolineate) dicono che: «nessuna persona può essere privata della vita, della libertà o della proprietà se non in seguito ad un giusto procedimento di legge (without due process of law)». Su queste cinque parole si sono fondate dal 1790 ad oggi le più sbalorditive dichiarazioni di incostituzionalità delle leggi emanate dal congresso federale e dalle assemblee legislative dei singoli stati. Sono vecchie parole delle cinque, già contenute nella dichiarazione inglese dei diritti del 1628; le quali sostanzialmente affermano che le usanze consacrate da tempo immemorabile in Inghilterra per difesa dei diritti dei cittadini in antenati dei moderni americani nel territorio degli Stati Uniti debbono essere osservate ancor oggi per difendere i cittadini contro le usurpazioni irragionevoli, arbitrarie e capricciose commesse dai legislatori a danno dei diritti dell’individuo. In altre parole, i giudici americani hanno interpretato le parole «due process of law» nel senso che una qualunque legge può essere dichiarata incostituzionale quando paia ai giudici che essa violi i diritti naturali dell’uomo alla vita, alla libertà ed alla proprietà. Quali siano questi diritti naturali è impossibile dire a priori. Cent’anni fa i giudici erano propensi a pensare in termini assai stretti di libertà da ogni restrizione coattiva ed erano frequenti le sentenze di nullità contro le leggi di protezione dei lavoratori. Oggi, fra i diritti di libertà tiene gran posto quello enunciato da Roosevelt, la libertà dal bisogno; epperciò la Corte guarda con occhio più benigno le leggi sociali. La Corte non inizia e non osteggia la nuova legislazione; la frena opponendosi alle improvvisazioni le quali violano apertamente il testo della costituzione o mettono nel nulla quei diritti dell’uomo che la costituzione protegge con formule apparentemente vaghe, le quali debbono essere interpretate di tempo in tempo dal giudice in modo conforme alla opinione dominante non nella major pars, nella maggioranza numerica, spesso travolta dalle passioni del momento, ma nella melior pars, nella parte migliore o pensante del popolo. Venti anni fa i giudici progressisti erano due soli su nove, Molmes e Brandeis. Oggi, per dimissioni e morti, la maggioranza è divenuta nettamente favorevole alle tendenze sociali avanzate. Ma il principio informatore delle decisioni dei giudici è sempre lo stesso; tutelare il cittadino contro le usurpazioni improvvisate dei poteri legislativo ed esecutivo a danno di quelli che i giudici reputano essere i suoi inviolabili diritti naturali.

 

 

Questa tutela dei cittadini compiuta dai giudici contro l’abuso della legge, non è dunque negli Stati Uniti il frutto della creazione di una Corte delle guarentigie costituzionali. Il legislatore americano, essendo dotato di vera esperienza, si limitò ad istituire un potere giudiziario indipendente e ad enunciare taluni principii generalissimi, interpretabili elasticamente col mutar dei tempi ed atti a difendere l’uomo contro la tirannia dell’uno, dei pochi, dei molti. Alcuni pochi uomini chiamati a sedere al banco della Corte suprema diedero a quelle poche parole che in altri paesi sarebbero parse men che nulla, una forza stupenda, dinanzi alla quale si inchinano presidenti, camere, senati e popolo.

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