Il mito delle corti costituzionali
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 04/05/1946
Il mito delle corti costituzionali
«Risorgimento liberale», 4 maggio 1946
«L’Opinione», 8 maggio 1946[1]
Oggi, come ieri, noi siamo minacciati dai miti, dalle formule, dalle parole d’ordine, dalle frasi fatte. Taluno vorrebbe svalutare quei miti trattandoli da slogans; ma la parola forastiera, brutta in bocca italiana, dà loro invece un’autorevolezza che non avrebbero se apertamente si dicesse che si tratta di frasi fatte, accolte dai più per rispetto umano per non parer da meno della grande maggioranza dei propri simili. Uno dei miti più popolari nel momento presente è quello di una corte suprema detta anche «alta» – durante il passato regime s’era anche inventata una «alta» scienza, come se ne potesse esistere una «bassa» – la quale dovrebbe impedire e punire le violazioni che legislatori e governanti commettessero dei principii sanciti in quella che sarà la carta fondamentale, la legge costituzionale dello stato.
Nessuno discute la premessa: nella legge costituzionale fondamentale dovranno essere fissate dalla costituente le norme essenziali relative alla struttura dello stato, ai poteri del parlamento, del governo, degli enti locali, della magistratura; e dovranno essere elencati i diritti inviolabili dell’uomo e del cittadino.
I legislatori della costituente discuteranno a lungo e forse acerbamente intorno al contenuto delle norme costituzionali. Le tendenze saranno varie; ed andranno da quelle giacobine, sostanzialmente tiranniche e conservatrici della volontà dominante nel momento fuggevole del domani a quelle liberali, disposte a riconoscere ai legislatori futuri larghe facoltà di mutazione nell’applicazione dei supremi principii sanciti nella costituzione. Alla fine, per via di comando di maggioranza o di compromesso, una costituzione sarà sancita; ed alle norme di essa dovranno ubbidire non solo l’azione dei poteri, qualunque essi siano, dello Stato, ma anche l’opera legislativa dei futuri parlamenti. I parlamenti ordinari non potranno cioè, come accadde tra il 1848 ed il 1922 in Italia e come accade oggi in Inghilterra, legiferare a loro libito; ma soltanto entro i limiti posti dalla costituzione. La costituzione potrà bensì essere mutata; ma la mutazione potrà aver luogo solo con l’osservanza di talune regole poste nella carta costituzionale: maggioranze speciali dei due terzi o dei tre quarti nei votanti o nei membri delle camere legislative, ricorso al referendum popolare, assenso delle rappresentanze regionali, ecc., ecc. I parlamentari ordinari potranno formulare leggi nuove, alla condizione però di non violare la carta fondamentale; e questa potrà essere mutata solo qualora si osservino le guarentigie che saranno poste nella carta medesima. Sin qui si può supporre esista un consenso pressoché universale. Non v’ha unanimità, perché ci si può richiamare sempre all’esempio classico dell’Inghilterra, dove non esiste una carta costituzionale, dove la Camera dei comuni può innovare le leggi a suo piacimento e dove il freno alle innovazioni tumultuose irriflessive si trova nel costume, nella illimitata libertà di discussione e nella consapevolezza nelle maggioranze del loro dovere di non far torto alle minoranze, ché il torto fatto si rivolgerebbe immancabilmente contro la maggioranza medesima ad occasione delle nuove assise elettorali.
Possiamo, perciò, partire dalla ipotesi che domani sia sancita una costituzione e che ad essa tutti i poteri dello Stato, esecutivo, legislativo e giudiziario, debbano ubbidire sino a quando, nelle maniere sancite nel testo della costituzione, questa non sia mutata. Chi giudicherà se qualche atto del governo (potere esecutivo) o qualche legge ordinaria votata dai parlamenti ordinari abbia violato la costituzione?
Qui entra in campo il mito della «Corte suprema costituzionale». La carta fondamentale dovrebbe istituire una corte speciale, un consesso di uomini investiti dell’autorità di giudicare se un atto di governo, se una legge ordinaria sia o non conforme alla costituzione. Gli espositori del mito ricordano esempi di corti siffatte che sarebbero state istituite dalle più diverse leggi costituzionali sancite, nell’intervallo tra le due guerre mondiali, in Germania, in Spagna, in Turchia o vigenti in questa o quella contrada sud-americana. Quel che non vedo ricordata mai è la storia, quasi sempre miseranda, dell’operare di quelle mitiche corti supreme. Non la vedo ricordata perché i politici stentano a ricordare la verità che vedo invece affermata da un magistrato, Giovanni Colli, in una memoria su La riforma dell’ordinamento della giustizia (Roma, pubblicazioni del partito liberale italiano), secondo cui il sindacato costituzionale delle leggi «deve essere, se si vuole che funzioni con imparziale serenità quale elemento regolatore e non perturbatore, nel modo più assoluto indipendente, sia dagli altri poteri dello Stato, sia dalle forze politiche che alle modificazioni costituzionali sono principalmente interessate».
Al dilemma non si sfugge: o la Corte suprema costituzionale è in tutto od in parte eletta, scelta, composta, direttamente od indirettamente, ad opera delle assemblee legislative o del corpo elettorale o del governo scelto dalle assemblee o dal popolo, ovvero è esclusiva emanazione del potere giudiziario. Nel primo caso, essa è un organo di parte; essa coopera non a tutelare la costituzione, ma ad offenderla o ad interpretarla conformemente agli interessi della parte politica dominante in ogni successivo momento. Meglio, cento volte meglio, la limitata libertà di innovare continuamente le leggi fondamentali, di cui gode la Camera dei comuni britannica o di cui godeva il parlamento italiano sino al 1922; ché, almeno, la novazione della legge sarà dovuta ad un patto responsabile del potere legislativo e non sarà mascherata e legittimata ipocritamente sotto il velo di una interpretazione sedicentemente giudiziaria e sostanzialmente politica della carta costituzionale.
La seconda ipotesi è la sola ammissibile: il giudizio sulla costituzionalità delle leggi, sulla loro conformità alla carta fondamentale deve essere opera esclusiva del potere giudiziario. Solo il magistrato, il quale sia del tutto indipendente dal potere politico, è in grado di giudicare se una legge ordinaria ubbidisca ai principii sanciti nella carta fondamentale. Solo il magistrato indipendente può giudicare se un atto del potere esecutivo (governo) sia conforme alla costituzione. La creazione di una corte suprema costituzionale la quale non fosse rigidamente giudiziaria, nella cui composizione entrassero fattori politici, sarebbe una grande sciagura, un regresso spaventoso. Un’altra corte, come quella che vedo prevista in qualche progetto di costituzione, nominata dalle assemblee legislative, sarebbe un corpo politico. Il giudizio di conformità delle leggi ordinarie alla carta costituzionale non sarebbe un giudizio ordinario provocato da una delle parti contendenti in una ordinaria controversia giudiziaria; ma un giudizio politico pronunciato in seguito ad una impugnativa di carattere generale. Ovviamente, per rimediare all’incertezza del diritto, dovrebbe essere fissato un termine – in qualche progetto lo vedo persino fissato in cinque giorni – entro il quale un qualche altissimo funzionario dovrebbe contestare la costituzionalità delle leggi dinnanzi all’Alta Corte. Che cosa è ciò se non la istituzione di una seconda (se il parlamento fosse composto di una sola camera) o di una terza (se le camere fossero due) camere di revisione? e perché la camera di revisione dovrebbe decidere per motivi non mossi dalle passioni politiche del momento?
Una corte suprema costituzionale non può dunque non essere esclusivamente giudiziaria. Essa deve essere costituita soltanto di magistrati ordinari, indipendenti in modo assoluto dai poteri legislativo ed esecutivo. Il suo compito è unicamente giuridico: punire reati commessi dai governanti in isfregio alla costituzione; giudicare se una legge od un decreto violino la carta fondamentale dello Stato. Non è facile impresa dare indipendenza piena al magistrato; ma questo è il solo problema il quale meriti di essere discusso e risoluto ed il problema non si risolve, anzi si aggrava, creando una magistratura speciale necessariamente politica. Le sue sentenze non avrebbero virtù di persuasione e sarebbero lievito di discordie civili.